Arrampicata
La tragedia di Daniele Nardi e Tom Ballard
Parto dalla fine: è ufficiale, quelle due sagome avvistate a circa 5.900 metri d’altezza da Alex Txikon con il suo potente telescopio sono i corpi di Daniele Nardi e di Tom Ballard. I corpi al momento non verranno recuperati. Forse, si dice, si proverà a capire se sarà possibile farlo in estate. Da amante della montagna ero elettrizzato nel leggere il diario che Nardi teneva sul suo sito, ero curioso, facevo il tifo per lui e per Tom Ballard. Mi dicevo che se ci fossero riusciti ne sarebbe venuta fuori un’impresa veramente leggendaria. Non sarebbe stata la prima ascensione invernale del Nagna Parbat, quella avvenne nel 2016 ad opera di Simone Moro, Alex Txikon e Ali Sadpara. Daniele Nardi ci aveva già provato in passato: nell’inverno 2012-2013 con l’alpinista francese Élisabeth Revol, e nell’inverno 2014 in solitaria, provando a passare attraverso lo Sperone Mummery, una via ritenuta da tutti praticamente impossibile. La via che stavano provando a fare lui e Tom Ballard.
Penso al perché questa tragedia mi abbia così tanto colpito, e scorrendo la biografia di Daniele Nardi forse lo capisco. Lui era Ambasciatore per i Diritti Umani nel mondo, sosteneva progetti di solidarietà in Nepal e Pakistan. Inoltre, in ogni sua spedizione portava con sé l’Alta Bandiera dei Diritti Umani firmata da oltre 20.000 studenti incontrati nelle scuole del Lazio, da far sventolare sulle cime che conquistava. Non era soltanto un formidabile atleta e un grande alpinista riconosciuto e premiato in tutto il mondo, era anche una persona con un grande cuore. Mi ha colpito perché questa sua figura mi ricorda per molti versi quella di un amico, Marco Zaffaroni, un personaggio veramente unico: uno che ha scalato il Shisha Pangma di 8.027 metri raggiunto nel 2005, e il Cho Oyu di 8.201 metri nel 2009. Uno che ha fatto nove “o forse 10, non so” Iron Man. Uno che disse «Dopo aver fatto un 8.000 in Himalaya avevamo pensato [lui e il suo compagno di scalate Mario Merelli] che fosse giusto restituire qualcosa a quella gente che ogni volta che ci andiamo ci regala un calore senza prezzo», e per questo ha fatto nascere un ospedale a Kalika, nel Basso Dolpo. Una persona di gran cuore, come Nardi.
Di questa impresa il 9 gennaio Daniele Nardi scriveva: “Non vado al Nanga Parbat, ma allo Sperone Mummery. Il mio grande sogno è aprire una via nuova in inverno su una montagna di 8.000 metri. Riuscire a completare lo Sperone Mummery, arrivare tra i 6.900 e i 7.000, quando si può considerare conclusa questa nuova via, è il mio primo grande obiettivo. Poi certo, cercherò di tirare su fino alla vetta”. Quello sperone è una via mai tentata prima. Per primo ci tentò Albert Frederick Mummery nel 1895, ma perse la vita nel suo tentativo di scalata. Non è mai stato fatto né in inverno né in estate. Solo in discesa venne fatto nel giugno del 1970 dai Reinhold e Günther Messner, con Günther che morì travolto da una valanga. Immaginate a farlo in inverno, con le nevicate, il vento fortissimo, le valanghe. Il 2 febbraio in un nuovo post Nardi scriveva alcune cose che, lette a posteriori, sono agghiaccianti: “Quello che mi preoccupa di più è se ritroveremo campo 3 oppure no. So che è un posto maledetto per posizionare il campo, l’ho sempre saputo. Domani sarà una giornata molto dura, sia per salire al campo 3 e sia per ritrovare il materiale lasciato in deposito al campo. Nei giorni passati abbiamo fatto una gran fatica per attrezzarlo e per portare su il materiale. Attrezzature necessarie per prepararci alla scalata dello sperone. Se non dovessimo ritrovare quelle attrezzature potremmo non avere i duplicati per continuare la salita. C’è un altro aspetto da non sottovalutare. Quando abbiamo trasportato questi materiali in alto eravamo in 4, io, Tom, Karim e Rahmat, ora siamo rimasti solo io e Tom e se dovessimo ritrasportare su in alto tutto quel materiale ci servirebbero giorni e giorni di bel tempo che non potremmo usare per scalare lo sperone Mummery. Il campo 3 è di base, fondamentale per scalare i 1200m di sperone. Il danno più grande sarebbe questo, non solo aver perso migliaia di euro di materiale”. Più avanti si legge come Nardi e Ballard provarono a tornare al campo 3 per constatarne le condizioni: “Il buco del crepaccio dentro il quale ci eravamo riparati è scomparso totalmente ed al suo posto un pendio uniforme alto qualche metro di più di quello che siamo abituati a vedere. Cominciamo a scavare con la speranza di ritrovare qualcosa ma nulla. Dopo aver scavato tre buchi nella speranza di beccare un telo, una corda, un moschettone, il sole cala e torna l’ombra sopra di noi. Tom ride, io anche, si apre l’idea di salire in puro stile alpino.”
Nardi si definiva un “alpinista anomalo”. Si definiva una persona affascinata dal conoscere le parti più nascoste che abitano dentro ad ogni persona, che spingono, motivano o distruggono qualcuno mentre si cerca di compiere imprese estreme, al limite della vita. Diceva che nei libri degli altri alpinisti cercava non soltanto le descrizioni tecniche di come avevano fatto a scalare le montagne più difficili e dure ma anche il modo in cui avevano affrontato i loro limiti e di come avevano affrontato i loro demoni interiori. Scriveva: “Ognuno di noi nasconde dentro di sè una paura atavica, inconfessabile, che ci teniamo stretti e che pur di non dire saremmo disposti a morire. Una paura con la quale ci confrontiamo e lottiamo costantemente ogni giorno. E’ un amica? Ci salva la vita? Oppure ci annienta e ci blocca sempre di più?”. Quale era quella paura di Nardi, quali erano le sue battaglie interiori che lo spingevano a imprese sempre più ardite? Forse l’inguaribile voglia di fare qualcosa di mai tentato prima. Forse l’ossessione di battezzare una nuova via mai aperta da nessuno. Forse un’estrema determinazione nel restare fedele al suo motto, “scala te stesso”, di cui scriveva: “Senza scorciatoie o giustificazioni apparenti, riuscire a rendere oggettiva il più possibile la situazione per prendere la decisione corretta anche nelle situazioni più difficili. Non significa andare a tutti i costi, significa essere efficaci, risparmiare le energie, guardare all’obiettivo e raggiungerlo nella maniera più diretta”.
Io non so se Nardi sia stato avventato o incosciente, come molti oggi stanno dicendo. Alcuni scrivono addirittura che questo suo tentativo era quasi un “tentativo di suicidio”. I perchè dell’andare avanti in quelle condizioni meteorologiche e dopo aver perso campo 3 forse non li sapremo mai. Però da amante della montagna a cui piace fare semplici escursioni, non trovo giusto caricare di colpe chi ha provato a rendere concreta un’impresa simile. Il Nanga Parbat è una montagna che è rimasta inviolata per moltissimi anni, le prime spedizioni negli anni trenta si conclusero praticamente tutte con una tragedia. La prima ascensione fu compiuta nel 1953, e ripetuta con successo solo dopo 18 anni. Fino al 1953 i tentativi di conquista del Nanga Parbat avevano provocato oltre trenta morti. Addirittura la prima ascesa invernale, come detto, è avvenuta pochissimi anni fa, solo nel 2016. Lo Sperone Mummary è considerato da tutti impossibile, ma anche ottanta anni fa il Nanga Parbat era considerato impossibile. Eppure, dopo qualche decennio, qualcuno è riuscito a conquistarlo. Qualcuno è riuscito ad aprirsi una via per raggiungere la cima. Leggo il report di Alex Txikon che ha guidato il team di ricerca, guardo nel mio salotto il bidone blu dove c’è tutta l’attrezzatura da montagna e non posso che ringraziare questi pionieri, queste persone che provano a spostare l’asticella del limite sempre un po’ più in alto. Guardo quel bidone blu e non posso che ringraziare queste persone dal cuore grande. Vorrei fossero ricordati per il loro coraggio, per la loro dedizione, per il loro amore verso la montagna. Vorrei fossero ricordati come uomini di montagna, e non come pazzi furiosi in cerca della morte.
«…Mi piacerebbe essere ricordato come un ragazzo che ha provato a fare una cosa incredibile, impossibile, che non si è arreso e se non dovessi tornare il messaggio che arriva a mio figlio sia questo: non fermarti non arrenderti, datti da fare perché il mondo ha bisogno di persone migliori che facciano sì che la pace sia una realtà e non soltanto un’idea… Vale la pena farlo…»
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