Arrampicata
Il Nanga Parbat e le decisioni inevitabili in alta montagna
A volte ci sono decisioni inevitabili, sebbene siano dolorose. È questo quello che è successo negli scorsi giorni sul Nanga Parbat, il gigante di 8.126 metri in Pakistan, dove è avvenuta una delle più incredibili operazioni di salvataggio in alta montagna che la storia ricordi. Quella del polacco Tomek Mackiewicz e la francese Elisabeth Revol. Ma si tratta di una storia agrodolce e per troppi versi amara. La scelta ultima del team di soccorso, composto anche da Adam Bielecki, Denis Urubko, Jarek Botor e Piotr Tomala, è stata di non andare a riprendere Tom, dopo aver recuperato Elisabeth.
Il prologo lo conosciamo tutti, dato che siamo stati attaccati alla speranza che Tom potesse farcela, e abbiamo seguito con apprensione ogni singola notizia che arrivava dal Nanga. La Revol e Mackiewicz stavano tentando l’ascesa invernale della nona montagna più alta del pianeta. Un’impresa, quest’ultima, di cui si sono resi protagonisti nel 2016 Simone Moro, Ali Sadpara e Alex Txikon. Ma il 26 gennaio Tom ed Elisabeth hanno comunicato di aver incontrato serie difficoltà intorno a quota 7.400m, proprio sotto la cupola sommitale. Il motivo? Non è chiaro, e lo dirà soltanto la Revol nei prossimi giorni. Quello che è noto è che Tom ha avuto notevoli problemi di vista e che aveva un principio di congelamento agli arti, dopo che hanno passato una decina di giorni in parete, con temperature molto basse, circa -40°C. Una volta appurato il problema, si è mossa la macchina dei soccorsi. Dal K2, Bielecki, Urubko, Botor e Tomala decidono di offrirsi volontari per farsi trasportare da due elicotteri fino al Nanga per poi andare a prendere i due alpinisti bloccati.
Nel frattempo, la Revol e Mackiewicz iniziano una lenta e difficile discesa da quota 7.400m. La condizione di Tom peggiora velocemente e qui inizia la parte più triste di tutta la vicenda. Non è chiaro chi abbia preso la decisione, ma la Revol opta per continuare la discesa da sola, mentre Mackiewicz resta, secondo quanto si è capito, intorno a quota 7.200m. Intanto, la squadra di salvataggio arriva al Nanga e Urubko e Bielecki decidono di partire. Le nuvole basse e il maltempo impediscono il volo degli elicotteri. Già è difficile portarli a quelle altitudini, e in più c’è l’aggravante delle condizioni meteorologiche avverse. Denis e Adam sanno che c’è poco tempo a disposizione e decidono la progressione attraverso il Kinshofer Wall, forse il tratto di misto più tecnico e duro del Nanga Parbat. Le temperature sono sempre basse, -40°C, e bisogna fare in fretta. In quelle ore, la Revol continua a scendere, seppur lentamente, e a comunicare tramite il telefono satellitare con il suo compagno, Ludovic Gambiasi, che posta ogni aggiornamento sul suo profilo Facebook. Ma il satellitare va a singhiozzo, perché la batteria non è eterna. La speranza diventa paura.
Urubko e Bielecki affrontano il Kinshofer e dopo una progressione di 1.200 metri effettuata in poco meno di quattro ore, finalmente escono dal muro di misto per arrivare al campo 2, a quota 5.900m. La Revol aveva continuato a scendere e a comunicare con Gambiasi, chiedendo di mandare un elicottero al più presto perché era senza viveri né acqua, dal momento che lei e Tom avevano deciso di scalare il Nanga Parbat in stile alpino. Di Mackiewicz nessuna notizia. Dopo uno sforzo incredibile, sia sotto il profilo mentale sia sotto quello fisico, Denis e Adam riescono a scorgere la luce della frontale di Elisabeth, nel gelido buio della notte himalayana. La raggiungono, Urubko e Bielecki scelgono di riposare per un paio di ore per poi portare la Revol al campo base, dove poi sarà portata a Skardu e infine in ospedale a Islamabad.
Ludovic e Daniele Nardi, anche lui coinvolto negli aggiornamenti sulla situazione sul Nanga Parbat, comunicano che il team di soccorso ha deciso che non ci sono le condizioni per andare a riprendere Mackiewicz. Di lui non si hanno notizie da troppo tempo, è troppo pericoloso far volare gli elicotteri e non è praticabile l’idea di mandare su altri alpinisti per soccorrerlo. Tom resterà lassù, sul Nanga Parbat. Ogni speranza di trovarlo in vita si affievolisce e sui tutti noi, giornalisti e alpinisti che abbiamo seguito la vicenda, cala un velo di tristezza che sarà difficile levarsi. La Revol è salva, e forse racconterà quanto successo. Tom no.
Ora inizierà il solito carosello sulla responsabilità di una decisione obbligata e sulle spedizioni invernali in Himalaya, fra ambizione, passione, sfida e denaro sonante. Le domande le conosciamo tutti. “Perché non lo hanno salvato?”, “Ma Tom ed Elisabeth sapevano quello che facevano?”,“Perché non avevano un’assicurazione per coprire gli inconvenienti?”, “Perché lei lo ha lasciato su?”, “Perché alle prime difficoltà non hanno iniziato a scendere?”, “Perché hanno deciso di andare sul Nanga Parbat in inverno?”, “Quanto è stata l’influenza degli sponsor, presenti e futuri in caso di successo, sulla scelta dell’ascesa invernale del Nanga da parte della Revol e di Mackiewicz?”. Sono domande che possono essere considerate legittime, per carità, ma c’è un tempo per tutto. Però si possono fare delle considerazioni a caldo già in queste ore desolanti.
La prima è che sia la francese sia il polacco non erano dei novellini dell’alta montagna. Erano consapevoli di cosa rischiavano tentando il Nanga Parbat e ne hanno accettato i pericoli. Che non sono soltanto quelli legati a una scalata tecnica e fra le più difficili nel novero degli Ottomila. Sono anche i rischi legati alle situazioni ambientali che si possono incontrare durante un’ascesa invernale. Il freddo incredibile, il vento accecante, il windchill, i ponti di neve, i seracchi, le candele, i crepacci, la visibilità che cala in pochi minuti. Sono tutte variabili di cui un alpinista estremo deve tenere conto. Qualcosa è andato storto, in questo caso. E solo chi è rimasto potrà spiegarlo, se vorrà.
Il secondo ragionamento possibile è legato alla scelta – drammatica – di lasciare Tom al suo destino. Tom era conscio (e scusate se usiamo questo tempo verbale, ma le speranze sono talmente poche che riteniamo sia inevitabile farlo, nda), così come tutti noi che andiamo in montagna, che c’è sempre qualcosa che può andare storto. Il rischio zero, in montagna, non esiste. È una fandonia creata dagli sponsor per uso e consumo di chi si fa attrarre dall’alone di epicità che l’alpinismo può creare. Pensare che scalando un 4.000, così come un Ottomila, non si possa morire non è solo dannoso per il singolo, ma per tutto il movimento alpinistico. Non era questo il caso di Mackiewicz, il quale più di una volta aveva dimostrato di essere in grado di capire quando bisognava fermarsi e rinunciare a una vetta. Non era un pazzo irresponsabile e incosciente. Solo la Revol potrà spiegare cosa è successo, come mai si è arrivati a questo punto. Ma dal punto di vista del team di soccorso non era possibile agire in altro modo. Impossibile far volare gli elicotteri, impossibile inviare un’altra squadra lungo la normale del Nanga, con il rischio di ritrovarsi con più vittime.
La decisione è quindi tragica, e per molte persone incomprensibile. Non è possibile però criticare o giudicare ciò che non si conosce a pieno. Ognuno di noi è consapevole di poter morire, o subire pesanti lesioni, dal momento in cui si aggancia i ramponi agli scarponi e impugna la picca. Lo sottolineiamo ancora e ancora: in alta montagna il rischio non si può eliminare, ma soltanto mitigare. E capita di dover prendere delle posizioni estreme, come quella che è stata presa nei giorni scorsi sul Nanga Parbat. Non si tratta di decisioni a cuor leggero, ma si tratta di scelte ponderate secondo un principio di realismo. Se non vi erano le condizioni per farlo, inutile quindi inviare una squadra per il recupero di Mackiewicz. Triste, ma l’unica via possibile. Proprio in virtù del fatto che Tom era un alpinista esperto, era conscio che poteva presentarsi una situazione come quella che gli è capitata. E il Nanga Parbat ha ricordato che no, non ci sono certezze quando si parla di alta montagna.
Poi, un pensiero per Urubko e Bielecki, che sono già tornati nell’area del K2 per completare il loro progetto. Denis e Adam sono stati la prova vivente che nell’alpinismo esiste un’etica che va ben oltre il comune pensare. Quando si sono offerti volontari, insieme a Tomala e Botor, di andare a recuperare la Revol e Mackiewicz sapevano perfettamente che stavano mettendo a repentaglio la loro vita. Erano a conoscenza che il Kinshofer, scalato in quella situazione, poteva essergli fatale. Ma scalarlo in sole 4 ore era l’unica cosa che poteva essere fatta. Da parte loro non c’è stata alcuna esitazione, ma solo una enorme, immensa, umanità. Hanno agito d’istinto, come con il pilota automatico inserito. Non hanno perso tempo in commenti, o altro. Solo una foto, pubblicata da Adam sulla sua pagina Facebook, di lui e Denis con Elisabeth. Il sorriso di Adam mentre scatta un selfie con Denis che alza le dita al cielo in segno di vittoria ed Elisabeth in stato di evidente sfinimento, ma salva, è l’immagine di un’impresa che resterà nella storia. Così come resteranno anche gli occhi cerulei pieni di vita e passione e il sorriso innocente ed entusiasta di Tom alla vigilia di quella che doveva essere un’impresa dopo un sogno accarezzato per sette volte, ma che si è trasformata in un dramma.
PS: per chi volesse supportare la famiglia di Tom, qui c’è la pagina del fundraising lanciato nei giorni scorsi.
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