Arrampicata
Gangotri Himalaya, verso il centro dell’universo
L’altopiano di Tapovan si affaccia come un belvedere sulla lingua del ghiacciaio Gangotri, nel cuore del Garhwal Himalaya, in India. L’ampia distesa erbosa è interrotta da enormi massi erratici, scagliati verso valle dalla mole dello Shivling, protesa tra cielo e terra dall’alto dei suoi 6.543 metri. Siamo in Uttarakhand, precisamente nel distretto di Uttarkashi, un territorio unico e selvaggio, dotato di un profondo valore religioso sin dall’epoca dei Veda. È questo il centro dell’universo, dove cielo, terra e inferi si incontrano. L’axis mundi cui è rivolta la carica devozionale degli hindu, dei giaina e dei buddisti. Il centro dell’universo attraversa il labirinto di granito, seracchi e laghi turchesi del vicino Monte Meru, tagliato in due dalla famigerata Shark finn, la Pinna di squalo salita per la prima volta dagli alpinisti americani Conrad Anker, Jimmy Chin, and Renan Ozturk.
È il 2001 quando i miei piedi sfiorano il tappeto di Tapovan. La marcia di avvicinamento parte di buon mattino a Gangotri, città-santuario a 3.400 metri di altezza, passaggio obbligato nel pellegrinaggio fino a Gaumukh, la spaccatura del ghiacciaio dove sgorgano le acque del Gange. Il principale fiume sacro dell’India inizia qui il suo percorso di 2.500 chilometri, fino al golfo del Bengala. Secondo il mito, la “discesa” del Gange ha origine dalla dea Gaṅgā, precipitata in principio dal cielo himalaiano nella forma di tre torrenti impetuosi, destinati a sommergere la terra. La distruzione viene evitata da Shiva, capace di trattenere l’impeto delle acque attraverso la sua intricata chioma. Qui, al limitare del ghiacciaio Gangotri, la simbologia del mito è evidente nella maestosa calotta dello Shivling, immobile, rappresentazione del capo di Shiva, proteso quasi ad ammansire la forza del fiume.
Con me c’è Shivendr, una vera «guida garhwali» che mi seguirà con dedizione religiosa. Indossa un cappello di lana, giacca lisa non propriamente tecnica, e un paio di vecchie scarpe da ginnastica talmente usurate ai lati da esporre entrambi i minoli. Non indossa i calzini, ma risulta comunque bene in arnese rispetto ai portatori più a buon mercato, in particolare gli immigrati di provenienza nepalese, capaci di spingersi in alta quota con pesanti carichi sulle spalle e un paio di infradito ai piedi. Il passo è buono, la giornata limpida e il paesaggio senza eguali. La pista verso Gaumukh si dilunga per 20 chilometri nella valle, costantemente in vista delle tre enormi cime dei Bhagirathi che danno il nome al tratto iniziale del fiume Gange. Sono i primi giorni di ottobre e l’autunno inizia a tingere di giallo, marrone e ocra la rada vegetazione, composta perlopiù da cespugli e da qualche albero. Centinaia di persone vanno e vengono dalla stessa direzione. Molti sono devoti hindu, impegnati nel Char Dam, il pellegrinaggio ai quattro più importanti santuari dell’Himalaya indiano: Yamunotri, Gangotri, Kedarnath e Badrinath. Avanzano in fila, lentamente, sebbene pochi di loro abbiano esperienza di montagna o un minimo di preparazione fisica per affrontare un percorso così lungo, fino a sfiorare i 4mila metri di quota. Chi ha energia a sufficienza si ostina a camminare, gli altri si accomodano sul dorso degli asini che a decine spendono la propria esistenza al cospetto della dimora di Shiva.
La salita a Tapovan ha inizio da Bhojbasa – dove abbiamo trovato posto per la notte in una sala condivisa con altre persone –, qualcosa di simile ad un campo avanzato per i pellegrini diretti alle sorgenti del Gange. «Il sentiero aggira il ghiacciaio sulla sinistra, lo attraversa puntando a destra fino ad arrivare sull’altopiano», spiega Shivendr, aggiungendo che la direttiva del percorso dipende anche dallo spostamento della morena, cambiando di stagione in stagione. Ci sono seicento metri tra l’ashram di Bhojbasa e Tapovan, un dislivello accettabile malgrado la quota di arrivo a 4.400 metri. Un paio d’ore dopo, nella tarda mattinata, il nostro sguardo si prende la soddisfazione a lungo cercata, spaziando sulla vasta distesa prativa, chiusa sul versante opposto dallo Shivling. Lo spettacolo è davvero suggestivo. Il labirinto di ghiaccio e massi lasciato alle nostre spalle conduce a un prato di alta quota, abitato da branchi di daini liberi di brucare indisturbati. Gli unici intrusi sono una manciata di saṃnyāsin, i rinuncianti hindu che per gran parte dell’anno si dedicano alla meditazione e all’esecuzione delle pratiche devozionali a Shiva.
È qui che incontro Narayan, un ragazzo non ancora trent’enne con la barba nera e i capelli pettinati di lato con cura. Arriva da Benares, antica città situata lungo il corso del Gange, considerata uno dei luoghi più sacri dell’India intera. La sua abitazione a Tapovan è una cella scavata nella terra, sotto ad un enorme masso di granito rosso, dello stesso tipo visibile sulla sconfinata parete ovest dello Shivling. Narayan vive solo, dedicandosi alla ricerca interiore e alla devozione a Shiva, qui impersonato dalla montagna. Ha scelto la difficile via dell’ascesi, del distacco dalla realtà materiale e della ricerca interiore, condizioni necessarie per attingere il mokṣa – per i buddhisti nirvāṇa – la liberazione dal ciclo inconcludente e penoso delle rinascite, il saṁsāra. Il giovane asceta ha vissuto quanto basta, sperimentando i tre fini dell’esistenza umana. Uno è kāma, il piacere e la soddisfazione del desiderio sessuale, cui segue artha, il successo, il benessere e l’esperienza politica. Quindi dharma, il perseguimento dei valori morali inclusi il dovere rituale e quello religioso. Divenendo saṃnyāsin, ha deciso con ferma risoluzione – saṁkalpa – di perseguire il quarto e ultimo fine detto mokṣa che trascende tutto il resto.
Le presentazioni durano giusto il tempo di un inchino, poi Narayan scompare, tornando qualche istante dopo con una tazza di chai, tè al latte e qualche spicchio di mela disposto su un piattino di acciaio scintillante. La conversazione prosegue lenta, adattandosi ai ritmi di chi vive sospeso in questa dimensione, quasi non esistesse il tempo. Il giovane rinunciante non parla mai di sé, del resto la sua condizione di santità va oltre la sfera umana, tanto che per lui la morte non è considerata che uno stato di estasi, samādhi. Indica spesso lo Shivling, accenna all’importanza del luogo in cui ci troviamo, arrivando al vicino monte Meru, la mitica montagna d’oro citata nei purāṇa, i testi sacri popolari, usati per diffondere l’insegnamento dei veda. La complessa concezione di questo luogo è descritta magistralmente da Margaret Stutley e James Stutley iniziando dal Markandeya Purāṇa, secondo il quale il Meru misura in altezza 84mila yojana (unità di misura vedica pari a 1,6 km) e in profondità, al di sotto della superficie terrestre 16mila yojana. Il diametro alla vetta è di 32mila yojana e alla base 16mila, nella cosmologia hindu il Meru altro non è che una montagna rovesciata, con la cima più larga della base, per questo definita “il calice del seme o il loto della terra”.
Sul Meru hanno sede le sfere di Kṛṣṇa e Viṣṇu, mentre al di sotto si estendono i sette mondi inferi, regno del serpente Vasuki. Cobra mitico e re dei naga – serpenti – Vasuki si trova assopito nel profondo della terra, sui cui molteplici cappucci poggia lo stesso Meru, scosso da terremoti ogni qualvolta il serpente sbadiglia o si muove. Non appena Vasuki si ridesta dal suo lungo torpore e allunga il suo enorme corpo, ha inizio la fine di uno yuga, era cosmica, e l’intero creato viene consumato dal suo soffio di fuoco. Il Meru costituisce il centro dello Jambudvipa, una delle sette grandi isole che formano altrettanti continenti, ciascuna circondata da sette mari, di acqua salata, di succo di canna da zucchero, di vino, di burro chiarificato, di latte cagliato, di latte e di acqua fresca. Lo Jambudvipa costituisce il continente centrale, l’India.
L’arrivo a Tapovan, con la distesa erbosa chiusa dallo Shivling, noto anche come Cervino dell’India. Sul sentiero un asceta diretto verso la sua cella.
Le ore passano nella quiete di Tapovan. È quasi il tramonto quando io e Shivendr facciamo ritorno nella cella dell’asceta, al termine di una visita al campo base dello Shivling, oltre il quale sale la via normale alla vetta. Il sole scende un po’ alla volta portandosi appresso il calore del giorno. Tra poco la temperatura andrà sotto lo zero. Entriamo nell’intercapedine profonda tre metri, con il soffitto alto poco più di un metro, trovando uno spazio in cui trascorrere la notte. Narayan è un ospite accorto e gentile, ma prima di tutto viene la sua pratica religiosa, eseguita rispettando una ritualità curata in ogni dettaglio. La recita dei testi sacri continua per ore, giorno dopo giorno. Nella penombra del pomeriggio himalayano, il saṃnyāsin rincorre con le dita uno spartito di inchiostro blu tracciato in sanscrito sulla carta del suo vecchio quaderno a quadretti. Un flusso continuo di formule giunge dal diaframma, deformandosi in ronzio nell’impatto con le labbra socchiuse, animate da una vibrazione incessante che pervade gli spazi angusti della cella. L’asceta è immobile, schiena ritta e gambe incrociate nella postura del loto, trasposizione della montagna stessa, di quello Shivling ben visibile oltre il foro all’ingresso, vicinissimo e splendente nella luce dell’ultimo sole. Yoga citta-vṛtti-nirodhaḥ, ‘lo yoga è l’annullamento delle fluttuazioni mentali’ è il concetto cardine del sāṁkhya, l’antica filosofia indiana basata sul principio del dualismo tra puruṣa, il “maschio primordiale”, e praḳriti, la “materialità” dal cui squilibrio si manifesta il mondo a partire dal suo centro, in Himalaya. L’estenuante ritiro spirituale di Narayan ha lo scopo di annichilire corpo e mente, di ridurre l’azione al minimo attraverso meditazione e yoga, veicolando l’energia nella ricerca interiore, quindi, dopo un numero imprecisato di morti e rinascite, forse otterrà il mokṣa. Tapovan è il luogo ideale per provarci.
Malgrado la concretezza tangibile delle sue pareti, lo Shivling e i vicini giganti di roccia e ghiaccio possiedono un significato metafisico, centrale nella millenaria tradizione indiana. La montagna, l’intero Himalaya fungono da dimora degli dei – deva bhūmi –, ma soprattutto sono il centro dell’universo, concetto riprodotto sistematicamente in India, dai villaggi nascosti nelle valli, fino alle comunità di pescatori, sulle coste dell’estremo Sud, dall’Oceano Indiano al Mare Arabico. Ecco che la struttura stessa del tempio hindu imita le architetture simboliche della montagna, divenendo un microcosmo, l’axis mundi del villaggio, dove attraverso il rito e le pratiche devozionali viene mantenuto lo ṛta, l’ordine cosmico che impedisce alla comunità di sprofondare nel caos.
La prospettiva del caos è comunque rimandata e inevitabile. In principio l’Himalaya e le montagne erano piramidi perfette, poi ha avuto iniziò l’età del ferro, il Kaliyuga, la peggiore delle quattro età del mondo, l’era “perdente” destinata a durare 432mila anni. Le montagne perfette come piramidi hanno iniziato a sgretolarsi, e allo stesso modo si è corrotta la rettitudine umana, così come predetto dalla letteratura hindu: “la terra si fa avara, carestia e siccità si alternano a piogge eccessive; il ritmo delle stagioni è sempre meno attendibile; nubi coprono in permanenza il sole, terribili incendi devastano le foreste; l’uomo sradica sistematicamente parchi e boschi sacri; fame e malnutrizione si propagano, la dieta carnea si diffonde; si fa larghissimo uso di alcolici; memoria e intelligenza degenerano; la ricchezza diviene l’unico metro per misurare virtù e nobiltà, la forza il solo criterio di giustizia; impuri, fuori casta e barbari prendono il posto dei guerrieri e saggi, e ottengono posizioni di potere, sottomettendo la popolazione, imponendo tasse sempre più onerose”.
In questo contesto, l’unica via di uscita concepita ai piedi del sacro Shivling resta il mokṣa, la liberazione dal nodo delle rinascite. È l’obbiettivo scelto dal giovane asceta, ostinatamente chino a seguire il suo spartito sacro, traducendo con una vibrazione insegnamenti antichi come l’uomo. Mentre il percorso spirituale di Narayan resta confinato alla distesa di Tapovan, io e Shivendr riprendiamo la pista per Gangotri, venticinque chilometri più a valle. La mia guida marcia a passo spedito, consapevole di avermi reso testimone di un’esperienza unica, di avermi accompagnato nel profondo della tradizione hindu, quella più autentica, distante secoli dalle affollate rotte dei trekker che di anno in anno stanno trasformando l’Himalaya in un parco giochi, da consumare in pochi giorni, come prescritto dal programma di viaggio offerto dai tour operator.
Oggi, con il senno di poi non posso che ringraziare Shivendr. È lui, un povero ragazzo garhwali che per primo mi ha accompagnato nel cuore della deva bhūmi, innescando una fiamma che negli anni non si è più estinta, portandomi ancora e ancora in Himalaya e in Karakorum, ma soprattutto in Kinnaur, per mesi al confine tra India e Tibet a studiare la tradizione oracolare dei grokch. Ma questa è un’altra storia.
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