Arrampicata
Gobright, Reynolds, The Nose e quella voglia di velocità su El Cap
Articolo di Fabrizio Goria, tratto da Alpinismi.
C’è un nuovo record da battere, nel mondo dell’arrampicata mondiale. Due ore, diciannove minuti, quarantaquattro secondi. È quanto hanno impiegato Brad Gobright e Jim Reynolds a scalare lungo The Nose su El Capitan, Yosemite. Nel tempio della scalata statunitense, Gobright e Reynolds hanno migliorato il tempo, stabilito da Alex Honnold e Hans Florine nel 2012, di quattro minuti e due secondi: 2:19:44 contro 2:23:46. E nonostante le critiche dei puristi di Yosemite, che non amano lo speed climbing, si tratta di una performance che è proiettata per resistere a lungo.
Uno dei primi a comunicare al mondo del climbing americano, e non solo, che c’era un nuovo record con cui confrontarsi sul Nose di El Cap, è stato proprio Florine. Lo ha informato ai suoi amici più cari, e via via la voce si è sparsa, fino ad arrivare dalla West Coast alla East Coast. A Washington uno dei primi a rilanciare l’impresa di Gobright e Reynolds è stato David Giacomin, direttore della sezione di DC dell´American Alpine Club (AAC), che su Facebook ha soltanto postato il tempo impiegato. Poco meno di due ore e venti minuti. E per fare un minimo di paragone, bisogna pensare che per percorrere la distanza autostradale che divide Torino e Brescia vengono impiegate, in condizioni di traffico normale, due ore e ventisette minuti. Il tutto per un totale di 227 km. Ma per i 3000 piedi (circa 900 metri) del Nose, c’è bisogno di molto di più. Per fare un altro paragone, questa volta con il passato, nel 1975 Jim Bridwell, John Long e Billy Westbay ci misero 17 ore e 45 minuti per completare la prima ascesa di El Cap lungo The Nose. E soltanto nove anni più tardi venne rotto il muro delle dieci ore, grazie a Duncan Critchley e Romain Vogler. Furono invece Dean Potter e Timmy O’Neill, nel 2001, a scendere sotto le 4 ore, un tempo considerato irrealizzabile a metà anni Novanta.
Per comprendere al meglio quanto fatto da Gobright e Reynolds c’è un modo molto semplice. Cercare su internet il film “Am Limit”, il quale narra le peripezie di Alexander e Thomas Huber lungo il Nose. Una storia che li porterà nel 2007 a battere il record di Hans Florine e Yuji Hirayama, che resisteva dal 2002. Prima, il 4 ottobre 2007, di pochi secondi, 2 ore, 48 minuti e 30 secondi contro le 2 ore, 48 minuti e 55 secondi di Florine e Hirayama. Poi, quattro giorni più tardi, di alcuni minuti, con il formidabile tempo di 2 ore, 45 minuti e 45 secondi. I fratelli Huber erano forti, preparati, carichi e super affiatati. E nel film che racconta il loro approccio alla Yosemite Valley e a El Capitan emerge quando sia stato difficile scalare lungo The Nose, una delle vie più ostiche e tecniche che la storia dell’arrampicata ricordi. Non è solo una questione di allenamento, o di tecnica. È prima di tutto un enorme sforzo mentale. Chiunque si sia approcciato a El Cap ripete la stessa cosa: scalarlo è prima di tutto una fatica psicologica. Lo disse anche una delle regine della montagna come Lynn Hill, autrice della prima libera sul Nose nel 1993 in quattro giorni, ridotti poi a 23 ore l´anno successivo. La Hill ha più volte ripetuto che il maggiore ostacolo che ha incontrato sul suo percorso per fare in libera The Nose era allenare la propria mente allo stress in parete. Lo stesso di cui si è dovuto curare Alex Honnold quando ha liberato in free solo Freerider nel giugno scorso.
Le critiche per risultati come quello ottenuto la scorsa settimana da Gobright e Reynolds sono state elevate nel corso degli anni. I puristi di Yosemite e di El Cap non apprezzano che si cerchi l’estrema velocità sul Nose. Gli oltre 30 tiri di quella che è probabilmente la via d’arrampicata più celebre al mondo, valutata 5.13c in libera, non sono fatti per l’artificiale, secondo molti. E per artificiale, bisogna anche intendere l’uso delle maniglie jumar per una progressione più spedita. Per questa ragione i fratelli Huber furono oggetto di critiche di una piccola parte della comunità dei climber di Yosemite, secondo cui la scelta della progressione veloce non era consona allo spirito che ha sempre contraddistinto quella parte della vallata. Ma esiste qualcosa di criticabile per una scelta difficile, mentalmente e fisicamente, come quella degli speed climber?
https://www.instagram.com/p/BakJqvTnzBb/?taken-by=bradgobright
In montagna, così come nella vita di tutti i giorni, ci sarà sempre chi è pronto a criticare. Se si sale l’Everest con l’ossigeno supplementare, qualcuno avrà da ridire. Se si usa una jumar per The Nose su El Cap, idem. Eppure, chi disapprova le azioni come quelle di Gobright e Reynolds, così come quelle di Honnold, spesso dimentica quanto può essere stressante dove piazzare protezioni veloci, camalot o nut che siano, lungo una parete come quella di El Capitan. Quanti sarebbero capaci di replicare tali imprese alpinistiche? Quanti sarebbero in grado di prepararsi per una scalata di tale portata, nella quale ogni minimo errore fa vincere la forza di gravità, che sappiamo essere invincibile? Pochi, pochissimi.
C’è poi un ulteriore aspetto. È vero che esistono anche vette inviolate, e pareti mai scalate, ma c’è una componente psicologica che spinge l’essere umano a cercare di trovare una via per lasciare il segno, per essere ricordati. E dato che spesso le cime inesplorate sono anche inesplorabili per ragioni politiche o geopolitiche, allora c’è un altro modo per raggiungere il limite e dimostrare di essere i più forti in quella specifica disciplina. Nel caso di Gobright e Reynolds è la velocità. Ma non è un’ossessione, come hanno spiegato i due appena tornati alla base della parete. L’ossessione, di contro, è quella che ha mosso Florine a voler tutti i costi essere l’uomo più veloce di El Cap, come ha detto lui stesso più volte, criticando anche il suo stesso approccio a quella parete e a quella via.
Ci può essere una via di mezzo fra l’estrema velocità in montagna e la scalata più intima e calma? La risposta è affermativa. Lo diceva perfino quella macchina da guerra che era l’indimenticato Ueli Steck. In una intervista pubblicata su Altitudini, nel 2016, l’alpinista svizzero era stato fin troppo chiaro. «Dico che ogni tanto bisogna darsi una calmata, perché c’è il rischio di perdere la “gioia” dell’arrampicare per via di quel “Devo essere più veloce, più veloce!”. Negli ultimi due o tre anni, ho imparato che durante gli allenamenti posso anche fermarmi da qualche parte per qualche istante e guardarmi intorno, per poi ripartire a tutta: se ti stai facendo un allenamento, non cambia nulla. Credo che sia importante non essere sempre di corsa, perché poi perdi la percezione delle cose. La scorsa estate, sono salito sul Monte Bianco per la cresta dell’Innominata e in quella occasione mi sono fermato al Monzino a fare una pausa, perché conosco quel rifugista: se non mi fossi fermato sarebbe stato davvero “triste”, sarebbe stato un vero peccato». La velocità non è tutto, ma fa parte di quell’incredibile mondo che è l’alpinismo. È uno stile, così come è lo stile alpino da applicare all’Himalaya. E ciò che conta davvero, semmai, non è come si sale lungo una parete. È la passione dietro a quell’ascesa.
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