Arrampicata
Che cosa c’entra Ferrari con l’arrampicata sportiva?
Articolo di Fabrizio Goria, tratto da Alpinismi.
C’è evidentemente qualcosa che non va. Se siete appassionati della serie tv britannica Black Mirror, che racconta un futuro (neanche troppo, futuro) distopico, avete già un vantaggio per comprendere dove vogliamo andare a parare con le riflessioni che leggerete fra poco. Nel mondo della comunicazione succede che ogni tanto c’è un corto circuito fra quello che vorrebbe essere veicolato e il messaggio finale. È questo il caso di Ferrari, forse il marchio italiano più noto a livello globale. Due giorni fa, sul social media Instagram (grazie a Tommaso Randolfi per la segnalazione), la casa automobilistica di Maranello ha pubblicato una foto di una delle sue ultime creazioni, la GTC4Lusso, un bolide da quasi 270mila euro, nella configurazione base. Ma quello che ci ha fatto saltare sulla sedia non è tanto l’automobile, quanto il contesto. Alle spalle dell’autovettura in questione, invece di trovare il panorama di Dubai, o della Côte d’Azur, c’era una parete d’arrampicata sportiva.
Lungi dal voler essere degli oltranzisti dell’arrampicata, o della montagna, ci sono alcune considerazioni che possono essere fatte. Alcune positive, altre (molto) meno. La prima, abbastanza ovvia, è che difficilmente uno scalatore professionista potrà mai permettersi un’auto del genere. La seconda è che si sta arrivando a un punto cruciale per la crescita dell’arrampicata sportiva, la piena consapevolezza da parte delle società esterne al nostro mondo che questo mondo esiste, ed è vivo. E dato che è sempre più sulle pagine dei quotidiani nazionali, allora può essere un segmento da sfruttare a fini pubblicitari.
Qual è quindi il messaggio che vorrebbe veicolare Ferrari? Delle due l’una: o che uno scalatore può avere il capitale per acquistare e mantenere un tal veicolo oppure che il proprietario di una Ferrari è una persona dinamica. Ma se prendiamo per buona questa seconda ipotesi, quella più probabile, perché scegliere proprio l’arrampicata sportiva? Semplice. Perché è di moda. Lo abbiamo scritto poco tempo fa, in riferimento al rinnovato interesse generale alla montagna, alla ricerca della wilderness, all’avventura in generale. Ma in questo caso, secondo noi, si è arrivati a un punto ben più profondo. Perché Ferrari è un marchio di lusso, riconosciuto come tale in tutto il mondo. Le sue creazioni sono non soltanto tecnologicamente avanzate, ma sono soprattutto esclusive. E l’arrampicata è sempre stata l’antitesi del lusso e dell’esclusività. La scalata è – per antonomasia – una delle attività più inclusive che esistano. Se si esce dal mondo delle gare e dei super gradi, l’arrampicata è da sempre il regno della non competizione, ma del puro divertimento. Al contrario di altre attività sportive, è noto a tutti noi che alla stragrande maggioranza degli scalatori non interessa che grado fai, ma chi sei.
Ecco quindi che arriva la domanda successiva. Se perfino un marchio di lusso come Ferrari ha deciso di utilizzare l’arrampicata sportiva nel suo piano di marketing e comunicazione, quale sarà il prossimo passo? È possibile vedere Louis Vuitton che produce un set di borse porta-corda? O Yves Saint Laurent che commercializza pantaloni da arrampicata? O ancora Tod’s che lancia le sue scarpe da avvicinamento? Se consideriamo il numero di società, non outdoor, che si sta avvicinando al mercato dell’arrampicata sportiva, che è crescente, c’è da attendersi che da qui ai Giochi Olimpici di Tokyo del 2020 ci sarà lo sdoganamento di questa attività a tutti gli effetti. In Italia il caso più eclatante è quello di Intimissimi e di Stefano Ghisolfi. Ma all’estero questo genere di intrecci, all’apparenza impossibili, sono all’ordine del giorno. Basti pensare ad Ashima Shiraishi o a Sierra Blair-Coyle per rendersi conto che le contaminazione tra l’industria del fashion e quella dell’arrampicata sportiva sono sempre più frequenti. Perché, specie sui social media che fanno della visualizzazione il proprio punto di forza, l’immagine dinamica di uno scalatore suscita emozioni intense. È cool, come si direbbe qui in America. Così come è cool un surfista a Huntington Beach o Maui, lo è un arrampicatore a Red River Gorge o Yosemite.
È un bene o un male? La risposta definitiva non c’è. Però c’è un aspetto che invece, da un punto di vista storico, si può considerare. Un vecchio adagio statunitense afferma che “ogni americano ha nel suo guardaroba almeno un capo di The North Face”. Empiricamente, mi sento di confermarlo. Ma The North Face è nata con l’intento di essere un marchio per esploratori e alpinisti. Da marchio esclusivo, votato a particolari esigenze di pochi individui, è divenuto un brand di culto prima e di massa poi. E così facendo si è perso di vista un concetto chiave della montagna, ovvero l’esistenza dei rischi, sia oggettivi sia soggettivi. Noi lo ripetiamo come un disco rotto. Qualunque volta si esce in ambiente bisogna valutare qualsiasi aspetto. La mitigazione dei rischi si può avere soltanto con la programmazione, che deve essere non solo fisica o mentale, ma anche ambientale. Vale a dire, sapere cosa si andrà a fare, e dove. Eppure, la nuova anima di The North Face, ma anche di altri brand, ha portato alla nascita dell’illusione che soltanto per il motivo di vestire in un certo modo, indossare un dato paio di scarpe, allora vuol dire che si può portare a compimento un’uscita. Questo fenomeno è l’over-confidence, cioè la troppa sicurezza dei propri mezzi, anche quando questi sono non sufficienti. La sopravvalutazione di sé stessi, lo sappiamo bene, è spesso fatale. Ed è un concetto talmente noto che ci vengono in mente le parole scritte su La Rassegna Nazionale nel 1905: «Ma nulla potrebbe la natura inanimata contro l’uomo che nettamente ne conosce le minacce ed il modo di salvarsene, se l’uomo stesso per troppa fiducia in sé medesimo non ponesse almeno un istante in non cale quelle norme, da cui giammai non dovrebbe scostarsi, durante la lotta. Ecco come possono avvenire ed avvengono disgrazie agli alpinisti, i quali, se fossero sempre prudenti, dovrebbero sentirsi più sicuri sui ghiacci e sui dirupi alpini che non nelle vie di una città, dove può a chicchessia recare la morte un peso caduto per cause non naturali da un’alta finestra, o la disattenzione d’un conduttore tramviario, dove, in un deliquio che e’incolga in cima d’ una scalinata, non siam trattenuti da robusta corda alpina legata ad un solido masso o sorretta dalle braccia di tre compagni bene aggrappati alle piccozze profondamente infitte». Parole arcaiche, concetti intramontabili, spesso dimenticati.
C’è quindi il rischio che la moda dell’arrampicata sportiva possa fare dei danni? È possibile, perché se l’apertura alle masse non avviene secondo certi canoni di sicurezza, ovvero il costante ricordo che i rischi esistono anche a scalare in moulinette, allora entra in gioco l’overconfidence. È quindi agrodolce osservare ciò che sta accadendo, in Italia e non solo. L’impressione è che nei prossimi anni si assisterà a una progressiva maggiore presenza generale dell’arrampicata sportiva a livello globale, con la conseguenza che si creerà una ancora più marcata differenza fra l’arrampicata in ambiente e quella indoor. Traduzione: più discipline più accattivanti per i giovani come lo speed nel caso della plastica, più ricerca di pulizia e sostenibilità delle vie in ambiente. L’aspetto positivo, se questa tendenza si confermasse nei prossimi anni, è che si avrebbe un discreto numero di scalatori che si approccia alla plastica e poi, voglioso di toccare con mano la nuda roccia, passa all’ambiente. E c’è da gioirne, a patto che non venga mai dimenticato che la gravità è sempre e comunque più forte di noi.
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