Arrampicata
Come si costruisce una notizia fasulla (e come riconoscerla)
Articolo di Fabrizio Goria, tratto da Alpinismi.
Siamo colpevoli. Lo ammettiamo senza paura. Siamo colpevoli di aver diffuso una notizia falsa. Ma lo abbiamo fatto con un nobile obiettivo. Ieri era infatti la giornata internazionale del fact-checking. E in quanto giornalisti, vogliamo spiegarvi come è nato il pesce d’aprile riguardo Stefano Ghisolfi. Ma non solo. Vogliamo anche darvi qualche dritta su come riconoscere le notizie fasulle o inesatte.
Quello di Ghisolfi è stato un falso pilotato. Il forte climber torinese, prima di tutto, è un ragazzo di 25 anni, e come tutti i suoi coetanei, è pieno di energia e di quello spirito goliardico tipico dell’età. Nelle scorse settimane, ha aperto un gruppo Telegram chiamato Steghisati, dove tiene i contatti con gli amici e – soprattutto – i fan. Si discute di allenamenti, scarpette, magnesite. E si organizzano scherzi. Burle. Una di queste riguardava il primo giorno d’aprile. E quale migliore pesce se non il più duro tiro della storia, capace di andare perfino oltre Silence di Adam Ondra (che peraltro è un amico di Ghisolfi)? Detto, fatto. Ma per renderlo il più virale possibile, c’era bisogno dell’aiuto di tutti. Come? Condividendolo sui social network (soprattutto Instagram), al fine di far venire il dubbio anche al più scettico. E per far sì che lo scherzo fosse credibile, vi era necessità che un manipolo di riviste del settore ne scrivessero. Così, come hanno accettato 8a.nu, Spit e Up Climbing, anche noi abbiamo voluto dare il nostro contributo.
A distanza di un giorno dalla pubblicazione del nostro pezzo, su Facebook abbiamo potuto contare oltre 16,000 visualizzazioni del post relativo. Vale a dire che oltre 16mila persone hanno visto quel post. In questo caso, ci abbiamo messo del nostro. E ora vi spieghiamo come è possibile creare un falso pilotato con una ottima viralità. Il primo passaggio è prendere il comunicato stampa o, in questo caso, il post messo da Ghisolfi sui social media. Al suo interno ci sono molte informazioni, è dettagliato, ma non troppo. Non c’è per esempio la falesia dove è stato liberato il tiro. Ma poco importa, se si vuole fabbricare una notizia falsa. L’importante è tutto nel titolo e nelle prime cinque righe del pezzo, come dicono i vecchi maestri del giornalismo. Un titolo accattivante e un attacco efficace sono le due cose che ci servono. E il titolo è netto, secco, senza alcuna possibilità di essere messo in dubbio. “Stefano Ghisolfi è senza freni: libera Pelirpa, il primo 9c+ della storia”, recita. C’è il nome dello scalatore, c’è la sua attuale condizione fisica (ovvero che è senza freni, teoricamente una persona senza freni è anche senza limiti), c’è la notizia, cioè la chiusura del tiro più forte della storia. Punto. Un lettore distratto sui social network come Facebook, che scrolla rapidamente la sua timeline sul telefono, viene colpito da due cose in particolare: il nome dello scalatore e quella frase “il primo 9c+ della storia”. Ma non basta.
Sapevamo che per via dell’algoritmo di Facebook, quando si condivide un post, vengono prese le prime due righe del pezzo. E noi nell’attacco abbiamo scritto quanto segue: «La notizia sta girando vorticosamente sui social. Stefano Ghisolfi ha scalato Pelirpa, il primo 9c+ della storia, dopo oltre 50 giorni di tentativi in gran segreto». Abbiamo reiterato il concetto che si tratta del primo 9c+ della storia. E lo abbiamo dato per certo. Nessun condizionale. Questo è quindi come è apparso su Facebook. Ma condividendo il post, abbiamo aggiunto, oltre alle prime due frasi dell’attacco del pezzo, anche le successive due: «Si tratta senza dubbio del più duro tiro della storia dell’arrampicata, che arriva solo a pochi mesi di distanza dalla performance di Adam Ondra a Flatanger». Anche in questo caso, nessun condizionale.
Chi dunque arrivava sulla pagina Facebook di Alpinismi si trovava di fronte a una situazione difficile da comprendere in pieno. Da un lato una testata giornalistica registrata, noi, che pubblica pochi e selezionati pezzi, cercando di basarsi su una elevata etica professionale e su una maggiore qualità dei contenuti. Dall’altro, uno dei più forti climber mondiali che annuncia di aver scalato il più duro tiro di sempre. In mezzo, il lettore. Un lettore che solo aprendo il pezzo avrebbe forse capito che si trattava di una burla. Scriviamo forse perché ci abbiamo messo del nostro. Ghisolfi è stato molto dettagliato nei suoi post nel descrivere la presunta collaborazione con la NASA. Noi no. Infatti abbiamo scritto questo: «Dopo un allenamento avvenuto nel più completo silenzio social, coadiuvato dalla NASA – a conferma che l’arrampicata sta diventando sempre più tecnologica e trasversale – Ghisolfi è riuscito nella sua impresa». Quell’inciso può voler dire che una collaborazione fra la NASA e Ghisolfi è possibile. Il tutto per rendere il pezzo più credibile. È un inciso scritto dal giornalista, che ricostruisce qualcosa che non è descritto, ma è plausibile. O meglio, verosimile. Un metodo che si utilizza spesso nelle redazioni. Del resto, i nostri quotidiani sono pieni di ricostruzioni giornalistiche, con una leggera prevalenza per le redazioni politiche.
Ecco dunque che il lettore, di fronte a un pezzo del genere, rimane spiazzato. Legge Ghisolfi, vede che anche La Sportiva posta sui social la notizia, in modo serio e netto, va su Facebook e vede che ci sono quattro testate autorevoli che pubblicano la liberazione di Pelirpa. E non dovrebbe crederci? Se non fosse stato pubblicato il primo d’aprile, siamo abbastanza sicuri che ci avrebbero abboccato in molti di più. E questo ci lascia lo spazio per alcune riflessioni sui social media e le cosiddette fake news.
Prima di tutto, partiamo dal fatto che nella nostra piccola redazione non parliamo mai di fake news. Parliamo invece di disinformazione e di notizie incorrette o manipolate. Sono quelle per cui non si può effettuare una verifica delle fonti, che per un giornalista professionista deve essere il mantra. Uno degli ultimi esempi fu la presunta morte di Jim Bridwell. Pochi giorni prima del decesso, era circolata la voce che The Bird era spirato. Non era vero, ma nessuno si era premurato di chiamare la clinica dove era ricoverato. Purtroppo, anche testate rispettabili ci erano cascate. E ancora oggi, a mesi di distanza, non è chiaro chi abbia messo in giro quella notizia incorretta. C’è chi dice di averlo letto sul forum di Mountain Project, chi invece su Twitter. Ciò importa relativamente. Sulle pagine Facebook di molte guide alpine, o fortissimi scalatori, era già iniziata la commemorazione di Bridwell. La prima regola è quindi verificare sempre la fonte primaria di un’informazione – Google in questo caso può essere fondamentale – e se non si trovano riscontri sulle agenzie di stampa (come Reuters, Bloomberg, Associated Press, ANSA, etc etc), allora conviene non farsi prendere dalla smania di cliccare sul pulsante “condividi”, perché è probabile che quella notizia sia falsa.
La seconda considerazione riguarda, come ha spiegato Ghisolfi rivelando la burla, il nostro mondo. Al di là delle competizioni, alpinismo e arrampicata sono considerabili più un’attività che uno sport, in quanto noi siamo i giudici di noi stessi. E quante volte abbiamo sentito amici o conoscenti millantare gradi fasulli? Tante. Per certi versi, siamo come i pescatori: tendiamo all’infinito quando si tratta di definire il nostro grado massimo raggiunto. E va bene così, perché fra amici ci si ride su e via. Ma altra questione è quella sollevata da Ghisolfi. Quando si va a chiudere un progetto, non basta portarsi dei soci, ma bisogna documentarlo. Sempre. La tecnologia ci assiste e si presta a essere testimone delle nostre grandi o piccole imprese. Non usarla non è solo sciocco, è deleterio per tutto il movimento.
Infine, la terza e ultima considerazione. Negli ultimi due anni siamo stati bombardati di analisi riguardo le “fake news”. Ma ci siamo dimenticati che la disinformazione è sempre esistita. Non è una novità, ma ciò che è cambiato è la velocità con la quale una notizia incorretta viene diffusa nella società. E tutto questo grazie all’evoluzione tecnologica, alla presenza della banda larga su scala maggiore, e alla capacità di interconnessione sociale dei social network. È possibile dunque frenare l’onda di disinformazione? Non esiste una risposta univoca, perché spesso per noi giornalisti è difficile rompere le echo chamber delle persone. Su social come Facebook, Twitter e Instagram siamo noi a determinare chi appare sulla nostra timeline, e specie su Facebook, le nostre interazioni sono basate sulle persone che sono più a noi affini. Vale a dire che siamo propensi a restare nella nostra bolla. E se la nostra bolla social condivide un certo pensiero, noi non potremo mai avere un controfattuale. A meno che non decidiamo noi di prendere in mano la situazione e iniziamo a verificare ogni informazione che ci sembra a rischio. È uno sforzo non da poco, ce ne rendiamo conto, ma si tratta del primo passo verso una società meno incline alla disinformazione. E non solo il primo d’aprile. Tutto l’anno.
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