Arrampicata
Di linee, di roccia e del perché ci ostiniamo a chiamarla arte
Articolo di Michele Fanni, tratto da Alpinismi.
…é come la musica che nessuno sa dove va quando finisce…
Pinocchino (Roberto Benigni) dal film La voce della Luna di Fellini (1990)
Siamo a Finale Ligure in una calda sera del giugno ’84. Un inconsueto vociare abita le bianche pareti dell’Anfiteatro di Monte Cucco. Bande di giovani ercolini dai bicipiti rotondi si confondono in mezzo ad una variegata folla di curiosi. Tutti a testa in su non sembrano cercare stelle. Sandro Grillo e Vittorio Simonetti, in disparte, osservano emozionati lo svelto incedere degli eventi; il loro disegno sta prendendo forma. Tutto ad un tratto una musica si profonde alla notte, poi un fascio di luci corre ad illuminare due sagome sotto ad un ampio tetto. Sono Patrick e Nico: sinuosi volteggiano a sbeffeggiare la forza di gravità, inevitabile richiamo universale verso il centro della Terra. Inconsapevoli celebrano un momento fondamentale: il primo appassionato incontro tra danza e arrampicata.
É vero che ci vorranno ancora anni prima che qualcuno prenda il coraggio e riconosca come lo scalare montagne possa farsi danza, ma è proprio nel corso di questa notte che accade l’irrevocabile. Rien ne va plus, les jeux sont faits.
Grillo e Simonetti, lungimiranti visionari, nonché pionieri della Pietra del Finale, quella sera chiamano ad esibirsi niente meno che Patrick Berhault, etoile della nuova generazione alpinistica francese e Nico Ivaldo, talento indiscusso dell’arrampicata ligure. E per meglio incorniciare quelle prodezze verticali escogitano una veste tutta nuova per la parete di Cucco: musica, luci ed un attentissimo pubblico ad accompagnare l’arrampicata.
Ma che cosa c’era di tanto straordinario nel vuoto oscillare di quei due ‘rampicatori notturni?
Per fare un minimo di chiarezza è necessario partire dalla constatazione che scalare altro non è se non la continuazione in verticale del camminare. E camminare è il nostro buffo modo di orientarci nel mondo, ma riflettendo con un poco più di attenzione è anche danza portata al grado zero. Il mitico sassofonista Sidney Bechet, da una prospettiva analoga, sosteneva che respirare fosse già cantare.
Muoversi nello spazio, per quanto banale possa sembrare, è uno strumento di constatazione e qualificazione del reale. Questo lo aveva capito molto bene Anna Halprin, grande coreografa del secolo passato che su questo aspetto costruirà un vero e proprio metodo. La coreografa americana riteneva infatti che il nostro agire in un dato ambiente consentisse di misurare la consistenza di ciò che ci circonda, di riconoscerlo e nello stesso tempo informarlo di noi. L’interazione tra esseri viventi e ambiente rappresenta quindi una reale comunicazione, che se affinata e sistematizzata diventa un vero e proprio dialogo, altrimenti conosciuto con il nome di ricerca scientifica. In questo senso, nella nostra percezione, il luogo si crea attraverso la nostra permanenza in esso e diviene il principale strumento della nostra conoscenza; un paradigma aperto che lentamente ci consente di assorbire e creare una rappresentazione del reale. Alcuni hanno parlato a questo proposito di spazio topologico: una strada geograficamente definita da un’urbanistica o dalle sue effettive caratteristiche naturali si trasforma in spazio solo nel momento in cui viene attraversata da camminatori. Come uno spartito che fino a quando non viene percorso da uno strumento non si può certo riconoscere come musica. Ciò comporta che, nel preciso istante in cui avviene il nostro attraversamento di un luogo (che sino all’istante prima era spazio solo in potenza), questo acquisisca in parte la nostra identità e si arricchisca, accogliendone il senso, delle nostre strane, sghembe, ma personalissime direzioni ed intenzioni. L’antropologo De Certeau sosteneva che uno spazio si potesse dire tale solo nel momento in cui si facesse «luogo praticato», agito, attraversato da molteplici vettori e spinte. In mancanza di ciò si ritorna alla forma spartito: senza qualcuno che si prenda la briga di darle voce, questa non suona. Brecht a questo proposito parlava di un «abitare simpatetico» e osserva come i luoghi da lui assiduamente frequentati avessero ad un certo punto assunto la sua prospettiva sul mondo e gli somigliassero o forse era lui ad aver accolto in sé le forme, i colori, gli odori della sua città. Prendeva così forma un potentissimo processo di identificazione con il proprio territorio che a questo punto diveniva una sorta di continuazione dello spirito della propria comunità.
Si capisce dunque come il camminare per un sentiero o per un caruggio, non sia solo ed esclusivamente un anonimo atto dedicato al nostro travaso da un punto all’altro del globo, ma volendo un po’ esagerare si possa pensare come la messa in discussione e rinegoziazione dei significati dello spazio, per mezzo del suo stesso attraversamento. Si presenta così palese la distanza siderale che esiste tra il mero utente di una geografia precostituita e funzionale ad un dato sistema, ed il «danzatore al grado zero» che evade quelle leggi imposte e solo mettendo un piede davanti all’altro, ma secondo la chiara consapevolezza del potere del suo camminare, dà luogo ad una piccola rivoluzione quotidiana.
Questa è stata forse una delle più belle scoperte compiute dai Dadaisti, seguiti a ruota (con un pizzico di onirismo) dai Surrealisti e ripresi poi dal Movimento Situazionista di Debord, per non parlare di certi esperimenti d’oltreoceano messi in piedi da Richard Long e la sua cricca di Land artisti. Ognuno secondo la sua personale declinazione aveva intuito che rompendo il diaframma tra arte e vita quotidiana si sarebbe potuti entrare in una nuova dimensione dell’esistenza finalmente liberata dalla cappa dell’utilitarismo e del funzionalismo intrinseco alla società capitalistica. Donare significato alla banalità del quotidiano, giocare ad inventare nuovi sensi e nuove narrazioni all’interno di quello che era il logoro habitat della civiltà industriale voleva dire riconoscere il magico potere che ogni singolo cittadino (abbandonati i panni dell’utente urbano) aveva nel trasformare le dinamiche del proprio vivere.
Se noi arrampicatori della domenica, ascoltassimo con un po’ di malizia questi discorsi, potrebbe essere che nelle nostre orecchie risuoni qualcosa di già noto e conosciuto, qualcosa che riporti il discorso a certi inaspettati mattini degli anni Settanta. Ad esempio queste righe a firma di Andrea Gobetti: «l’inutilità dei monti era ancora rispettata come il loro tesoro più grande, il materialismo, il pragmatismo e lo sport non erano ancora arrivati. Era un mondo emozionante in cui potevi migliorare la tua vita reale e spirituale di tutti i giorni riflettendo e risolvendo problemi di pietra». La fantasia e la facoltà visionaria (e di questo ci aveva già avvisati il californiano Doug Robinson parlando di una Holy Slow Road) superavano di gran lunga ogni spirito competitivo, ogni volontà di risultato. La famosa pace con l’alpe era la meta da perseguire.
Dunque cosa andava inventando quel tal Patrick Berhault così intento a nasare il mondo con quel suo sguardo dolcemente aquilino?
Quel francese sornione si era reso conto prima di tutti gli altri che l’arrampicata, proprio per questa sua capacità di lettura/scrittura del senso del mondo a partire da un banale sasso con delle crepe, poteva diventare uno strumento capace di informare la condotta e l’esistenza di una comunità. Acuire lo sguardo sull’ambiente circostante per intensificare l’interazione dell’uomo con il proprio habitat rendendolo consapevole del potere delle sue scelte più minute e della necessità di uno sguardo gioiosamente cosciente su quanto andava compiendo nel quotidiano. Attraverso l’inutile arrampicata si poteva raccontare (e raccontare è innanzitutto esperienza di spazio) quanto articolate fossero le possibilità del nostro movimento, quante strade percorribili avessimo davanti a noi, quante città invisibili si nascondessero sul nostro percorso, quanti silenzi celassero in realtà imponenti sinfonie in attesa solo di qualche coraggioso legno od ottone pronto a rivelarle.
Danzare su di una bianca parete calcarea non significava allora soltanto esibire una perizia, virtuoseggiare per sbalordire un manipolo di burberi rivieraschi, ma dare spazio a vuoti di senso innescando un processo di riempimento di significato, capace di trasmettere agli spettatori il gusto gratificante della narrazione. Anche il più cinico e freddo dei tiratacche non sarebbe potuto rimanere indifferente di fronte a quell’onirico esercizio di stile. Proprio Queneau non per niente ci ricorda come «rêver et révéler c’est à peu près le même mot» («sognare e rivelare è pressappoco la stessa parola»). Rivelare le molteplici possibilità del reale con un semplice spostamento del baricentro, se non è rivoluzionario questo!
Colpo di scena: nell’1985 arrivò Sportroccia a Bardonecchia che, malgrado il timido, ma significativo esperimento di inserire un coreografo tra i giurati della competizione, sdoganò definitivamente l’idea di arrampicata come disciplina sportiva. A quel punto le sorti del free climbing presero una piega differente: la corsa al grado non lasciò grande spazio alla fantasia. Il seme della danse escalade era stato piantato, ma solo in poch i avranno la pazienza ed il coraggio di curarne la crescita e coltivarne il frutto.
Mi piace però pensare che le bianche pareti dell’Anfiteatro di Cucco custodiscano ancora i segni di quell’irripetibile notte. In qualche nicchia dev’esserci ancora annidata come una civetta la magica traccia di quel passaggio. Così ogni volta che passo sotto a quell’incredibile tetto guardo in alto e lo vedo. Aleggia un vorace senso di possibilità: la roccia, per quanto immota e silenziosa, invita a scrivere ed immaginare nuove linee, nuovi percorsi, nuovi spazi. Poi mi giro e dopo un cenno agli amici proseguo allegro alla volta di qualche piccola nuova ri-creazione.
…perchè le pupille abituate a copiare, inventino i mondi sui quali guardare…
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