Arrampicata
Antoine Le Menestrel svela la “drammaturgia” della sua scalata
Articolo di Michele Fanni, realizzato assieme a Marzia Garzetti, tratto da Alpinismi.
Antoine Le Menestrel, parigino, classe 1965, è oggi tra i principali interpreti di quell’articolato fenomeno artistico che, a volte un po’ a sproposito, chiamiamo danse escalade. La sua poetica verticale è un linguaggio universale capace di varcare confini, culture, generazioni, andando a mettere in discussione le dinamiche legate al nostro entrare in relazione con l’ambiente circostante e in particolar modo con quello urbano.
Prima di riconoscersi come danzatore, Antoine è stato tra i maggiori free climber francesi degli anni Ottanta (tra i suoi exploit più significativi: La rose et le vampire a Buoux, uno tra i primi 8b di Francia; Revelations a Raven Tor, primo 8a in free solo al mondo, Samizdat a Cimai, primo 8a a vista al mondo…). Con l’avvento delle competizioni ha poi scoperto il mondo della tracciatura, divenendo uno tra i primi ouvreur de voie international d’escalade. Attraverso quest’esperienza si è avvicinato alla dimensione “drammaturgica” dell’arrampicare, scoprendosi così, inaspettatamente, coreografo. Da lì il passo alla danza è stato brevissimo.
Qualche tempo fa con Marzia, la mia interprete preferita, siamo stati ad Apt, vicino alla mitica Buoux per incontrare Antoine ed intervistarlo. Ne è scaturita questa bella chiacchierata che qui proponiamo. Per maggiori informazioni sul percorso artistico di Antoine potete visitare il sito della sua compagnia: Compagnie Lezards Bleus
Che cosa ha influenzato il tuo modo di arrampicare al punto da portarti a diventare un danzatore verticale? C’è qualcuno che ti ha ispirato?
Sicuramente l’apertura de La rose et le vampire. C’è un movimento che ti porta a voltarti dando le spalle alla parete: passando la testa sotto al braccio ho capito che c’era uno spazio dietro di me con cui potevo mettermi in relazione. Questa è la prima cosa. La seconda è la tracciatura di vie per le competizioni indoor di arrampicata. Scolpivo le prese e disegnavo i movimenti per i climber. Una via di arrampicata è già di per sé un atto coreografico con una sua scrittura gestuale, una drammaturgia….
La competizione è anche spettacolo, un atto spettacolare in cui c’è emozione, intensità, suspense. Era un atto drammaturgico importante durante il quale io, interpretavo il ruolo di coreografo, mentre gli atleti quello di danzatori.
Una volta a Bercy nel 1988 ho incastrato le ginocchia in una presa ed ho liberato le mani, guardando gli spettatori a testa in giù ho fatto cucù: tutti hanno riso ed io ho scoperto che c’era una relazione emozionale forte tra il climber e gli spettatori.
In seguito, durante gli anni Ottanta, desideravo vivere di arrampicata, ma in un modo differente rispetto a quello degli altri scalatori sponsorizzati. Per le prime esibizioni di arrampicata cercavo di creare dei veri e propri spettacoli con una storia. Anche Patrick Berhault, in quegli anni, iniziava a fare spettacolo con una compagnia chiamata Roc in lichen. Ho incontrato la Compagnia nel 1987. Sono loro che mi hanno insegnato a prepararmi come danzatore: lo stretching, il riscaldamento, la flessibilità, la costruzione dello spettacolo. É stato soprattutto l’incontro con questa compagnia… Infine, intimamente sognavo di diventare pittore. Non sono entrato in una scuola di pittura, così mi sono detto che avrei dipinto con il mio corpo sui muri.
Che cosa intendi quando parli di drammaturgia? Quando ti sei reso conto che ne stavi creando una?
Anche tracciando vie per le gare dovevo creare storie con movimenti spettacolari, nelle quali gli arrampicatori non cadessero negli stessi posti, con cambi di ritmo, placche, strapiombi… Una narrazione che creasse suspense.
Secondo te perché la danse escalade non è nata prima degli anni Ottanta? Chi sono i precursori di un tale cambiamento?
Gli sciamani non erano già dei danzatori sui totem, per esempio? Anche negli anni venti, il film Safety Last [di Harold Lloyd, ndr]: era già danse escalade, secondo me.
Sì, ma prima degli anni Ottanta nessuno aveva riconosciuto la danse escalade come una disciplina artistica…
Walking on the wall di Trisha Brown, sulla facciata di un teatro a New York nel 1971: è una performance di danse escalade anche quella. Oppure, negli anni Cinquanta, Gaston Rebuffat con la sua discesa in doppia mentre Maurice Baquet suona, non so più in che film…
Etoile et tempête?
Sì, sono i primi esperimenti. Dopo gli anni Ottanta ci sono state molte correnti nel mondo della danza che hanno esplorato universi differenti. Penso al danzatore francese Daniel Larrieu ed ai suoi lavori con l’acqua, a Philippe Decouflé che lavora con le arti circensi… C’è l’incontro con il teatro, con le arti marziali, Isabelle Dubouloz, Pierre Douissant, Roc in lichen con l’arrampicata…
È allora che Roc in lichen parla per la prima volta di danse verticale. Si inventa il nome danse verticale. C’è una valorizzazione del gesto che diventa più importante della cima stessa. Patrick Edlinger arrampica super fluido, il modo di arrampicare è per lui importantissimo. Patrick Berhault comincia ad inventare movimenti con incroci, con i piedi sopra la testa… Si libera il corpo, e può essere che, grazie all’apparizione delle competizioni, si abbia anche l’apparizione dello spettacolo. C’erano arrampicatori che andavano verso la competizione e arrampicatori che andavano verso la danza.
C’è un’opposizione tra queste due correnti secondo te? L’arte può essere una risposta ad una certa direzione presa dall’arrampicata in quegli anni?
Penso che innanzitutto vi sia il rapporto con la natura, con gli elementi minerali e con la montagna, quando riduciamo questa relazione con la natura il gesto diventa pura performance… Per me non è una risposta, è che a partire da un certo momento c’è stato come un tronco d’albero che si è diviso in due rami. C’è un grosso ramo che rappresenta la competizione, il 99,9% degli arrampicatori va in questa direzione, e lo 0,1% va verso lo spettacolo… e sono generoso! Viviamo in una società che valorizza la performance e la competizione piuttosto che l’atto poetico, in un’altra società potrebbe essere diverso. Conosci il parkour? In questo momento sta vivendo ciò che l’arrampicata ha vissuto trent’anni fa. È una pratica che coinvolge l’elemento architettonico e urbano, e si sta strutturando in una federazione, con spettacoli e competizioni. Procedono insieme. Lo spettacolo non è una risposta alla competizione. Per me non è stata una risposta, è stata una scelta. Ci sono persone portate per la competizione, ed altre che hanno uno spirito più artistico. In pratica quando apriamo la porta troviamo un’autostrada e un piccolo sentiero.
Sei stato influenzato dalla nouvelle danse francese?
Sono stato influenzato da quella nouvelle danse che ha lavorato con le arti marziali, per la sua esigenza di un gesto non fosse solo estetico. È un’esigenza legata all’engagement del movimento. Anche in arrampicata c’è questa esigenza del gesto: se non lo facciamo bene cadiamo o facciamo più fatica del necessario. Non è un gesto bello per essere bello. È bello anche per l’impegno psico fisico che richiede.
In un’intervista dici: “Arrampicare bene non è un fatto di quantità, ma di intensità di noi stessi nel movimento. Io arrampico bene quando sono totalmente presente in questo momento, quando ho solo vuoto e concentrazione dentro di me”. Che cos’è la presenza?
È non essere altrove! È non avere pensieri parassiti, pensieri estranei al movimento. Ti darò degli esempi di pensieri parassiti: pensare alla cima. Se nel movimento all’inizio di una via pensi alla cima non sei presente al movimento che stai facendo. O se pensi al movimento di prima che non hai fatto bene, per esempio. In questi casi non sei qui ed ora. La presenza è concentrare tutto il pensiero e lo spirito nel movimento che stiamo facendo. La presenza in arrampicata è essere concentrato sulla posizione, sulla respirazione, sull’engagement. Ad esempio un pensiero parassita è dirsi: “non ci riuscirò”.
Questo per quanto riguarda l’arrampicata. Durante uno spettacolo lascio spazio alla poesia del movimento, all’intenzione poetica. Se in arrampicata tutta la mia concentrazione è dedicata alla riuscita del movimento, in uno spettacolo devo lasciare spazio alla poesia.
In un’intervista hai parlato del «potere politico dell’apertura». L’arrampicata artistica sui muri delle città può essere la via per una futura presa di coscienza nei confronti del proprio agire quotidiano? É possibile immaginare oggi attraverso questo punto di vista estetizzante un ribaltamento delle prospettive nella vita di tutti i giorni?
Gli spettacoli sulle facciate urbane modificano lo sguardo degli spettatori sulla città. La facciata resta la stessa ma cambia lo sguardo.
Secondo te è un cambiamento che lascia dei segni nello spettatore?
Penso di sì. Degli spettatori mi hanno raccontato che, dopo aver visto uno spettacolo, non vedevano più solo la facciata, ma anche la storia che la accompagnava…
Quello che cambia è solo la facciata o anche lo sguardo sulla città?
Già cambiare la facciata va bene! Poi si può cambiare lo sguardo sulla città, sulla vita…è uno dei ruoli dell’artista: cambiare lo sguardo sul mondo, sul proprio ambiente. Non saprei dirlo, bisognerebbe chiedere agli spettatori se lo sguardo sulla facciata è cambiato, e se lo sguardo è cambiato poi anche sulla città.
C’è un termine che ho sempre sentito molto vicino alla tua sensibilità artistica: rivelazione. Questo termine che posto ha nel tuo vocabolario?
Mi piace rivelare delle storie, anche immaginarie, rivelare dei dettagli. Mi sento vicino a questo termine, è come se l’architettura fosse una partitura coreografica. Chi può rivelare una partitura? Un musicista. Io rivelo una partitura architettonica, ed uso come strumento il mio corpo. Intreccio questa partitura con il mio immaginario.
Frank Zappa diceva che “scrivere di musica è come danzare di architettura”…
Viene voglia di danzare con Frank Zappa! Rimbaud invece diceva: “J’ai tendu des cordes de clocher à clocher /des guirlandes de fenêtre à fenêtre / des chaînes d’or d’étoile à étoile, et je danse.” [Ho teso corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d’oro da stella a stella, e danzo.] È una frase per danzatori de façade…”la danse de guirlandes”… Quando si cambia lo sguardo sulla città e si cambia lo sguardo sull’architettura, si fa politica.
Penso che grazie agli spettacoli di strada si abiti meglio la propria città. Io adoro camminare in mezzo alla strada: in questi spettacoli si può fare, non ci sono macchine, e già questo mi dona un’emozione. Viviamo in una società in cui la città è costruita soprattutto per le macchine, le strade sono fatte per le macchine, e camminare in mezzo alla strada….è bello! Anche il fatto di arrampicare sui muri è vietato nella nostra società, ma all’interno di uno spettacolo posso farlo, mi autorizzano a farlo. È interessante come nel quadro di uno spettacolo si possano fare cose che sono impossibili in altri momenti. Leggi che dicono “non si può arrampicare” diventano “si può arrampicare”.
C’è un carattere rituale nei tuoi spettacoli?
Per me o per lo spettatore?
Attraverso te, per gli spettatori.
In effetti mi sento…come dire, un vettore. Nel senso che lo spettatore vive attraverso di me un’esperienza: lui resta a terra, in basso, mentre io faccio cose che lui non potrebbe fare. Lo porto con me, e in questo senso sono una sorta di guida poetica…ci provo!
Come uno sciamano…
Esatto. Un po’ come uno sciamano che trasporta gli spettatori nel suo universo, utilizzo il rischio, l’emozione della paura, non per restare nella paura, ma per catturare gli spettatori e portarli nella poesia. La paura è una forza: i dittatori la usano per soggiogare il popolo, io la utilizzo per portare lo spettatore nella poesia. Milito per la presa del rischio. È importante prendere dei rischi, e io mi faccio carico dei miei.
Il discorso sui vettori è legato al precedente discorso sul cambiamento di sguardo?
Un artista pianta dei semi e non sa se germoglieranno o meno. Non so come lo spettatore vivrà con questi semi. So che li portano con loro perché ci sono spettatori che me ne riparlano tempo dopo. Dicevo che prendo dei rischi: metto pacificamente la mia vita in gioco. Se faccio degli errori posso morire, sì. Ma il modo in cui lo faccio è pacifico, poetico, non cerco l’exploit. Non faccio come Alain Robert che arrampica 300 metri in solo…
Ignasi de Sola Morales scrive: «Il vuoto è l’assenza, ma anche la speranza, lo spazio del possibile. L’indefinito, l’incerto è anche l’assenza dei limiti, una sensazione quasi oceanica, l’attesa della mobilità e dell’erranza». Che significato ha per te la parola vuoto?
Sì, il vuoto è lo spazio del possibile. Faccio il vuoto in diversi modi: per la concentrazione, come ti dicevo, e in questo caso si parla di vuoto Zen. Vuoto come assenza di pensiero per essere interamente nell’azione. C’è poi il vuoto che permette di accogliere nuove idee…
C’è una relazione con l’assenza della materia? In questo senso il vuoto può diventare materia?
Questo è lo Zen, è la relazione tra lo yin e lo yang, la materia è creata dal vuoto e la materia crea il vuoto. È nel discorso che c’è nel Tao Te Ching, il libro di Lao Tzu: “la piece a des murs de matière mais c’est le vide qui fait l’usage.” [La stanza ha muri di materia, ma è il vuoto che ne determina l’uso.]
Potrei dire che ci sono le prese, ma è tra le prese che si crea il movimento. È lo spazio tra due prese che costruisce il movimento.
È nel vuoto che inventiamo, ma per la creazione ci appoggiamo alla materia.
È una relazione: se tutto è pieno non c’è spazio. Lo scultore costruisce la scultura creando il vuoto nella materia.
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