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Tim e Kobe. Così diversi, così uguali
Il draft di 19 anni, da tifoso dei Celtics, fa me lo ricordo bene. Finalmente, dopo stagioni di ‘magra’ lontanissime dall’era Bird – e Parish e McHale-, la ‘Dinastia’ era pronta a tornare. Grazie al talento di un ragazzo della Isole Vergini, nuotatore regalato al Basket – quello con la B maiuscola – da una tempesta tropicale che si era portata via la piscina dove si allenava. Nella boccia di vetro di palline con il logo di Boston, d’altronde, ce ne erano in abbondanza: la lottery sembrava una formalità e la canotta verde smeraldo già pronta con il cognome Duncan stampigliato sulla schiena. Giusto una formalità e poi con un lungo così, si sarebbe potuto riaprire il ciclo vincente dei Celts.
Invece, quel ragazzo dai fondamentali perfetti, ‘sgobbone’ e taciturno – proprio come Bird – baciato dal raro dono di rendere facili le cose difficili è finito ad aprirlo a San Antonio, il ciclo. E che ciclo visto che in Texas, negli anni di grazia duncaniani, sono volati cinque titoli Nba e sono arrivate finali come se piovesse. Diciannove anni trionfali – in combutta, prima, con l”Ammiraglio’, David Robinson e, poi, con gli inseperabili Tony Parker e Manu Ginobili – su cui Duncan, ha fatto calare il sipario. Nel suo stile. A fine playoff (chiusi per gli ‘Spurs’ con l’eliminazione da parte di Oklahoma City), con un comunicato, sobrio, di San Antonio. Senza clamore. Discretamente. Quasi in silenzio. Come ha condotto la sua intera carriera – costellata di vittorie e successi – che lo spingerà nella Hall of Fame e che lo vede già tra i più forti di sempre. Un addio, al parquet, appena sussurrato. Cesellato da una lettera – breve e diretta – rivolta ai suoi tifosi e alla città che lo ha adottato come campione prediletto.
Niente a che vedere con il commiato di un’altra superstar che – sempre quest’anno – ha scelto di abbandonare, i canestri: Kobe Bryant. Lui – pure diretto nella Hall of Fame – diversamente da Duncan, si è goduto un anno di festa continua. Di ‘delirio organizzato’ in ogni palazzetto d’America in cui sono passati i suoi Lakers. Un lungo, lunghissimo ‘Farewell Tour’, punteggiato di applausi e ‘standing ovation’. Ovunque, persino in quella Boston che ha fatto del ‘Beat L.A’ – sin dai tempi delle sfide Anni 80 tra le concretezza biancoverde e lo ‘Showtime’ gialloviola – un mantra irrinunciabile.
Davvero ovunque per celebrare il fuoriclasse che ha portato a Los Angeles cinque titoli (tre con la collaborazione di Shaquille O’Neal, un paio con quella di Pau Gasol) e che in 20 anni di carriera è stato quanto di più jordanesco visto in campo. Per stile di gioco, ferocia agonistica, determinazione. E poi carisma, giocate al limite della fisica, ambizione. Con quel soprannome, ‘Black Mamba’ e la sua ‘Mamba Mentality’, che ne hanno fatto il ‘padrone’ e il volto più noto della Lega, capace di 81 punti in una partita – contro i Raptors nel 2006, la seconda prestazione della storia dietro i 100 punti di Wilt Chamberlein – e di chiudere la sua storia con 60 punti, davanti a uno Staples Center in estasi nell’ultima recita, vittoriosa, contro gli Utah Jazz.
Una cosa da film – adattissima alla hollywoodiana Los Angeles – come la lettera d’addio dedicata al Basket. Jordanesca pure quella visto che anche ‘His Airness’ si era rivolto direttamente al Basket quando, annunciando il suo ritorno sul parquet – dopo una breve parentesi dedicata al baseball – scrisse, in un fax. di tornare solo ‘For the love of the Game’. Per amore del Gioco.
Squarci cinematografici. Così lontani dalla narrazione duncaniana. Eppure così vicini all’astro di San Antonio. Silente quanto scintillante Bryant ma, come, il rivale losangelino, icona di un mondo, quello dell’Nba, che sulla loro classe e sul loro fascino ha scritto pagine indelebili. Ci penseranno Lebron James, che ha appena chiuso il suo cerchio , Steph Curry e Kevin Durant a scriverne ancora e ancora. Ma il ‘Black Mamba’ e ‘The Big Fundamental’ ci mancheranno. Così diversi, così uguali.
(Immagine di copertina tratta da www.theshadowleague.com)
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