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Sull’Everest in coda come al mercato: l’assassinio dell’impossibile
Chiunque mastichi di montagna lo sa: scalare l’Everest, da vent’anni a questa parte, non è più una questione di alpinismo. Ogni anno, spedizioni commerciali portano (o forse sarebbe meglio dire “trasportano”) sulla cima centinaia e centinaia di persone, buona parte delle quali con poche competenze alpinistiche, preparazione atletica non eccezionale, attitudine mentale inadeguata, ma che dal canto loro hanno il pregio di avere il portafoglio gonfio (l’esperienza può arrivare a costare 100.000 dollari) e la possibilità di investire 3 mesi della propria vita per perseguire questo obiettivo.
Scalare l’Everest, la montagna più alta del mondo, non è tecnicamente difficile.
Le difficoltà alpinistiche sono poche, limitate a poche decine di metri di roccia quando si è quasi ormai sulla cima (il famoso e temuto Hillary Step) e le insidie di crepacci e burroni sono artificialmente neutralizzate dal lavoro costante dei cosiddetti “ice doctors”, operai specializzati e sherpa che si assicurano di fissare scale e corde tra le voragini affinché sia possibile camminare sopra le difficoltà (un lavoro estremamente pericoloso e che ogni anno esige un tributo salato in termini di vite umane, che spesso passa sotto silenzio).
Certo, anche così, salire sulla vetta rimane un’impresa tremenda. La quota di 8.848 può far tremare al solo pensiero: la rarefazione dell’ossigeno è talmente forte, oltre il Campo IV, che basta indugiare qualche ora più del dovuto per incorrere in edemi cerebrali e polmonari (stiamo parlando, per intenderci, della quota di volo di un aereo di linea).
L’uso, anzi, l’abuso di ossigeno supplementare pone rimedio anche a questo ostacolo, a prezzo tuttavia di un danno ambientale gravissimo: buona parte delle bombole esaurite vengono abbandonate in quota dagli alpinisti esausti, oppure nei campi intermedi.
Il massiccio uso di medicinali e di integratori rende anche la fatica più facilmente sopportabile. L’aiuto dei portatori sherpa agevola il carico personale, le previsioni del tempo sono ormai accuratissime e tutto questo fa sì che anche una persona normale, dotata di una ragionevole preparazione atletica, possa oggi aspirare a calcare quel frammento di suolo congelato che, ancora 30 anni fa, soltanto gli alpinisti migliori del mondo riuscivano a raggiungere, e spesso a prezzo della loro vita.
Si potrebbe pensare che tutto questo sia un enorme passo avanti per il genere umano, una vittoria addirittura. Non è forse l’abbattimento dei nostri limiti un fatto positivo, un’evoluzione?
Reinhold Messner, primo uomo al mondo ad aver scalato l’Everest in solitaria e senza ossigeno supplementare nel 1978, ha scritto a riguardo un bellissimo libro dal titolo “L’assassinio dell’impossibile” (Rizzoli, 2018).
La sua opinione è netta. L’avanzamento tecnologico, che tanti benefici apporta in molti campi e settori, non è necessariamente positivo a prescindere. Nel nostro caso, se parliamo di alpinismo, non ha fatto altro che annullare artificialmente i limiti imposti dalla montagna, limiti così preziosi all’essere umano in quanto grandi maestri di vita.
Anche l’altro maestro dell’alpinismo italiano, Walter Bonatti (di cui ho già parlato in passato su queste pagine), non nascondeva la sua ostilità all’utilizzo di supporti artificiali nell’affrontare le pareti. Scalare una montagna, era il suo messaggio fondamentale, è una sfida contro se stessi, non contro la natura. Eliminare le difficoltà che essa ci pone davanti vuol dire rendere impossibile confrontarsi con esse, tentare di superarle con le proprie forze, accettare talvolta di essere respinti, scoprire quanto si vale davvero.
Di questo tipo di alpinismo, sull’Everest (e non solo lì), oggi non rimane nulla.
La sua salita è ridotta ad un gesto atletico sterile, dannoso dal punto di vista ambientale (il Campo Base è praticamente una latrina a cielo aperto ed i campi intermedi assomigliano a delle enormi discariche) ed ancora molto pericoloso, a differenza di quanto si potrebbe pensare.
Pericoloso perchè l’utilizzo di ossigeno, medicinali, portatori e quant’altro non fa altro che coltivare l’illusione in chi lo affronta di essere più forte di quello che si è, e grazie all’aiuto della tecnologia non riconosciamo più quali sono i nostri limiti.
La maggior parte delle persone che affrontano l’Everest oggi non dovrebbe trovarsi lì. Ed infatti sull’Everest si muore ancora, e si muore in fila indiana, al primo malfunzionamento dell’attrezzatura, o spesso per il troppo freddo di stare fermi, negli infiniti turni di attesa da rispettare come se si fosse in coda ad un lunghissimo e caotico semaforo. Guardate quella foto e ditemi se ha ancora senso scalare una montagna così, o permettere che tutto questo continui.
Le morti di questi giorni sono una triste routine, tragedie annunciate e prevedibili, che tuttavia non suscitano alcuna seria riflessione sull’opportunità di mettere un limite agli accessi. I governi degli stati interessati incassano troppi soldi dalle ascensioni per pensare seriamente di porre un freno ad esse, per quanto gli esperti siano concordi nel ritenerlo necessario. E, sempre per lo stesso motivo, le compagnie private non hanno chiaramente nessuna intenzione di alzare l’asticella di preparazione necessaria per partecipare alle imprese: sarebbe un guadagno mancato. Il dio denaro ha da tempo conquistato anche le altezze rarefatte.
Ma l’alpinismo, l’avventura alpinistica, sono un’altra cosa.
Sono ancora le parole di Bonatti a ricordarcelo. Quello che rende l’alpinismo un’esperienza unica è lo spirito con il quale si affrontano le difficoltà, la saggezza che si acquisisce nel valutare se andare avanti o meno, l’insegnamento e la bellezza che si riportano a casa dopo ogni impresa, la gioia di vivere che esplode ogni volta che ci ritroviamo lassù, assordati dal silenzio e commossi dall’abbraccio della natura nella sua forma più selvaggia e vera.
Rispettiamo l’impossibile ed il suo enorme potere su di noi: il mondo, senza di esso, è un luogo molto più povero. A volte basta guardare una foto per rendersene conto.
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