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“SPORT” NON VUOL DIRE SOLTANTO “CALCIO”. QUANDO LO CAPIREMO?
Poniamo che siano le 20:50 di una serata qualsiasi.
Poniamo di avere la tv accesa (la qual cosa, già di per sé, rischia di essere una cattiva idea) e poniamo anche di stare guardando, magari mentre finiamo di cenare, un telegiornale a caso. Dopo le varie notizie su Renzi, Grillo, Berlusconi e Salvini, insomma, dopo la consueta iniezione di sfiducia che spesso e volentieri ci regala la politica italiana, il conduttore del giornale assume solitamente un piglio più rilassato e ci informa che sta per cedere la linea al suo collega. E’ il momento di passare allo sport, dice. Finalmente!, pensiamo noi. Un po’ di leggerezza, dopo tutti questi disastri.
E allora via con le notizie.
Calcio. La serie A. Ovvio, naturale. Sabato c’è l’anticipo del big match e domenica la quinta di ritorno. Formazioni, infortunati, pronostici, dichiarazioni della vigilia. Tutto fa brodo.
Calcio. La serie B. Vabbè. La ascoltiamo senza prestare troppa attenzione.
Calcio. In Inghilterra il Chelsea ha battuto il Manchester City per uno a zero. Bene. O forse no? I più spassionati di noi cominciano ad essere un po’ perplessi.
Calcio. Ennesimo guaio per Mario Balotelli: i tabloid inglesi lo hanno pizzicato a parcheggiare il suo bolide da mezzo milione di dollari in divieto di sosta. A questo punto, di solito, cominciamo ad andare in cerca del telecomando per cambiare canale, o meglio, per spegnere.
Ma aspetta! Passiamo ad un altro argomento, dice il conduttore. C’è un’ultima notizia. Era pure ora, no? Si parla di mercato. Di calcio mercato.
Clic.
Ok, siamo malati di calcio. E questa non è una novità.
Ovviamente, de gustibus non disputandum est. E infatti non sarebbe affatto un problema se non fosse che questa nostra “soverchiante passione” per il pallone si traduce in un quasi assoluto disinteresse nei confronti di tutte le altre realtà che lo sport potrebbe offrirci.
Lo so, sto toccando un argomento delicato per molti italiani, ma concedetemi il beneficio del dubbio. Guardiamo per un momento al di là del nostro naso.
Gli USA, di sport nazionali, ne hanno almeno quattro: il basket NBA, il football americano, l’hokey su ghiaccio e, ovviamente, l’amatissimo baseball. Ma l’America è l’America, direte voi, domina in quasi ogni sport di un certo rilievo e si sta facendo prepotentemente largo persino nel nostro amato “soccer”. Forse il paese a stelle e strisce non fa testo per un confronto costruttivo. D’accordo, allora: veniamo ai nostri vicini europei.
La Francia ama il calcio almeno quanto noi, questo è poco ma sicuro, eppure ha anche una forte tradizione rugbystica. Il suo campionato è avvincente, largamente coperto dalle reti televisive transalpine e i suoi incontri registrano spesso il tutto esaurito in stadi da decine di migliaia di posti a sedere. Anche la pallacanestro è uno sport di squadra molto amato, soprattutto a livello di nazionale maschile, la quale tra l’altro è attualmente campione d’Europa (e non per caso).
Veniamo al Regno Unito. Qui calcio e rugby si contendono lo scettro di sport più amato in maniera molto equilibrata, ed anzi il calcio va decisamente sotto in Irlanda, Galles e Scozia, dove tra l’altro si affianca anche alla sua versione gaelica (appunto, il “gaelic football”, divertentissimo da vedere, provatelo!).
E ancora: in Grecia e Spagna, paesi per certi versi ancor più calciofili di noi, il rugby non ha molti seguaci, ma qui sono il basket e la pallavolo ad avere una fortissima risonanza a livello nazionale e mediatico.
Insomma, avrete ormai capito dove voglio arrivare. Siamo l’unico paese occidentale in cui, a fianco del calcio, sportivamente parlando c’è il vuoto.
E’ un fatto, non un’opinione. Se consideriamo la media degli spettatori che presidiano i palazzetti di basket e pallavolo e gli stadi da rugby delle nostre maggiori leghe, e li sommiamo tutti insieme, otteniamo una cifra che non è nemmeno un quinto di quella degli spettatori medi del “gioco del pallone”.
Ma perché? Rispondere a questa domanda, all’apparenza semplice, è in realtà molto complicato. Una questione di gusti? Certo. Ma, vista la carrellata di esempi esteri che abbiamo fatto prima, diventa difficile pensare che tutto possa risolversi con questo.
Una questione di competitività? Alcuni dicono di sì, sostenendo che il nostro paese ha una tradizione vincente e buona qualità di gioco soltanto nel calcio. Ma questa è una posizione priva di qualsiasi fondamento. Nel volley i nostri team sono tradizionalmente molto competitivi in Europa e le nostre due nazionali (maschile e soprattutto femminile) sono tra le più forti al mondo. Nella pallacanestro abbiamo un campionato vivace e di buon livello (l’Armani Milano è attualmente tra le squadre più forti del continente), una storia ricchissima di vittorie e soprattutto, proprio nel momento in cui leggete, ben quattro nostri connazionali stanno militando nel campionato più prestigioso del mondo, l’NBA.
Quanto al rugby, certo, la nostra nazionale perde spesso, come i calciofili d’altronde non mancano mai di ricordare agli sparuti sostenitori del pallone ovale. Ma questo accade per un motivo ben preciso: l’Italia alla fine degli anni novanta si è guadagnata (a suon di vittorie) l’onore non scontato di giocare in una competizione, il Sei Nazioni, nella quale oltre a noi partecipano cinque nazioni tra le dieci più forti del mondo. Pensiamoci un attimo: quante vittorie otterrebbe l’Italia di calcio se si trovasse a giocare ogni anno un torneo con Brasile, Argentina, Germania, Spagna e Francia? Pochine, direi. E a tal riguardo non è privo di significato notare che attualmente la nostra nazionale è 12esima nel Ranking FIFA (calcio) e appena 14esima nel Word Rugby Ranking. Quindi anche il discorso della competitività non regge.
Ma allora perché? Perché siamo così indifferenti a tutto ciò che non sia calcio?
Personalmente, sono propenso a ritenere che la disattenzione popolare verso questi sport sia figlia proprio della disattenzione mediatica. E quest’ultima è raramente causale.
Attorno al calcio italiano girano quantità vorticose di interessi e di denaro, entrambi più o meno leciti, ed entrambi temono fortemente qualsiasi concorrenza esterna che possa indebolirli. Credo che sia anche e soprattutto per questo motivo che nel nostro paese si lascia così poco spazio alle novità nello sport: basti pensare alle recentissime dichiarazioni di Claudio Lotito, presidente della SS Lazio, sull’“assoluta necessità di impedire che Carpi e Frosinone accedano alla Serie A”. Il danno economico portato da queste due squadre sarebbe troppo grave da sostenere, in quanto si tratterebbe di piccoli team, con pochi tifosi al seguito, e quindi ne risulterebbero pochi incassi per le televisioni, i club, la lega e ovviamente per tutto il mondo del merchandising. Con buona pace dei risultati onestamente guadagnati sul campo, del merito sportivo e forse anche dello sport in generale.
La giustificazione che i più danno a tutto questo, come al solito, è sempre la stessa. Vale la pena chiudere un occhio, perché dopotutto “il calcio è lo sport più bello del mondo”.
Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere? Ce lo insegnano fin da piccoli, e noi giustamente ci crediamo. E, per carità, magari è davvero così (fermo restando che quanto accade nelle curve dei nostri stadi ogni domenica di bello non ha nemmeno l’ombra).
Ma per dire che una cosa è migliore delle altre, per dare un giudizio così definitivo, la condizione minima ed indispensabile è che si conosca tutto il resto, che lo si sia sperimentato, che lo si sia vissuto per qualche tempo. Solo a quel punto l’opinione smette di essere vuota chiacchiera e diventa parere credibile, condivisibile.
Perché la diversità è sempre una ricchezza, sia nella vita, sia nello sport. E la speranza è che prima o poi, cercando di allargare i nostri orizzonti, lo capiremo.
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