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Più sherpa che clienti in vetta nel 2017: cosa è diventato l’Everest?
Articolo di Fabrizio Goria, tratto da Alpinismi.
Da alcuni giorni non si fa altro che discutere, nel mondo alpinistico, dei dati diramati dall’Himalayan Database riguardanti le salite sull’Everest nel 2017. Nell’anno in corso ci sono stati più sherpa che alpinisti a giungere in cima della più alta vetta del mondo. L’Everest è per caso diventato trendy e nessuno ce lo ha comunicato? Forse. Ma questo è solo uno dei punti che vogliamo argomentare. E no, non ci sono solo considerazioni negative.
È possibile che la Chomolungma, cioè la Madre dell’Universo in tibetano, o Sagarmāthā, in nepalese, sia sempre più battuta? È possibile. I fatti sono stati evidenziati da Alessandro Filippini sulla Gazzetta dello Sport lo scorso martedì. Scrive Filippini: «Quest’anno sull’Everest non c’è stato solamente il doppio exploit in velocità di Kilian Jornet. Il dato più significativo che emerge dal riassunto statistico fornito, come sempre, da The Himalayan Database (fondato dalla mitica miss Elizabeth Hawley), è che in vetta alla montagna più alta della Terra sono arrivati più sherpa che alpinisti e clienti delle spedizioni commerciali: 329 contro 319 (212 contro 199 dal versante nepalese e 117 contro 120 da quello tibetano). Come sottolinea Alan Arnette nel suo blog, si tratta di un vero ribaltamento avvenuto in pochissimi anni. Cioè dalla nascita delle spedizioni commerciali. Nel 1992 da Sud erano stati solo 22 gli sherpa giunti agli 8848 metri della vetta contro 65 alpinisti. Da Nord gli sherpa erano stati 17 contro 38 alpinisti». Numeri che lasciano senza parole. È facile, da un punto di vista empirico, pensare che l’opinione di Filippini sia corretta. E cioè, che il fenomeno registrato dall’Himalayan Database sia da ricondurre alla presenza, sempre più massiccia, delle spedizioni commerciali. Tradotto e semplificato, si tratta di turismo ad alta quota. Non per tutti, è chiaro, sia per i costi economici sia per la preparazione fisica, ma pur sempre di turismo si tratta.
E non sono poche le considerazioni che si possono fare. La prima è forse quella più ovvia: l’Everest è una questione di business. È una questione di soldi, per dirla in italiano. Se perfino il New York Times pubblica (in questo caso, lunedì scorso, il 18 dicembre 2017) un pezzo con le più frequenti domande, e conseguenti risposte, sull’ascesa dell’Everest, bisogna porsi diverse questioni. L’Everest è da considerarsi “di moda”? L’Everest è diventata una meta “turistica”? La scalata dell’Everest è stata normalizzata dalle nuove tecnologie, sia dei materiali sia delle strategie di allenamento? E se la risposta a quest’ultima domanda è affermativa, qual è stato il ruolo delle case produttrici di abbigliamento tecnico da montagna? Noi non crediamo che l’Everest sia stato normalizzato. O meglio, non riteniamo che scalare l’Everest sia diventato normale. Ma invece pensiamo che si sia arrivati a un punto di non ritorno della percezione di una montagna che non è quella reale. Ciò significa che l’Everest era e rimane una vetta estrema, ma la corsa ad accaparrarsi clienti e spingere in alto i profitti sia stata determinante a far passare il messaggio che scalare l’Everest sia più o meno possibile per tutti, dietro al pagamento di una lauta somma all’agenzia organizzatrice della logistica e a una preparazione fisica minima per quegli ambienti, tale da non mettere a repentaglio la vita di sherpa e portatori.
Non c’è nulla di male a sfruttare l’immagine di una montagna al fine di trarre un vantaggio economico da essa, se non fosse che viene introdotto un nuovo modo di pensare all’alpinismo. L’evoluzione dei materiali, dei supporti tecnologici e, non da ultimo, della medicina sportiva, ha dato il La a un tipo di alpinismo che è più simile al turismo ad alta, altissima, quota, e non a quello a cui erano abituati Reinhold Messner o Hans Kammerlander. Ed è chiaro che le società di outdoor gear, vedendo la possibilità di aprirsi verso mercati prima inesplorati, vendono l’illusione dell’Everest – così come del Denali, o dell’Aconcagua – come “montagna non-più-impossibile”. La definizione è cruciale, in questo caso. L’Everest si può considerare una montagna possibile? Balle. Un anno di preparazione fisica dedicata, di sacrifici e fatica, è forse il minimo per pensare di mettere i ramponi sulla vetta più alta del mondo. Eppure, non è questa la comunicazione veicolata, anche tramite i social media.
La seconda è che si sta verificando un fenomeno “nuovo”. L’aggettivo è tra virgolette per un motivo preciso. Perché in realtà ciò che accade da alcuni anni a questa parte non è del tutto una novità, ma una riscoperta. Stiamo parlando della ricerca delle vette ancora inesplorate, delle vie mai tentate prima. In altre parole, se da un lato c’è un incremento dell’appetito commerciale verso le Seven Summit (le sette vette più alte di tutti i continenti, ndr), dall’altro c’è più voglia da parte degli alpinisti di professione di aprire vie nuove. Un esempio? Lo abbiamo visto a inizio anno coi Ragni di Lecco, quando Matteo Bernasconi, Matteo Della Bordella e David Bacci sono andati a tastare con mano la wilderness patagonica sul Cerro Murallón. Ma gli episodi del 2017 sono numerosissimi.
Proprio dal momento che le società dell’universo dell’outdoor gear, e di conseguenza anche i grandi giornali, stanno riscoprendo l’alpinismo (così come l’arrampicata, anche in vista di Tokyo 2020), è possibile che nei prossimi anni ci sia l’avvio di una nuova generazione di esploratori. Tutti noi abbiamo presente la figura di Walter Bonatti, e dei suoi reportage giornalistici per Epoca (cliccando qui trovate un prezioso link per tutti gli appassionati). Ed è proprio questo il punto. È quasi paradossale, ma i nativi digitali sono più propensi alla narrazione rispetto alla generazione a loro precedente. Questo grazie ai social media, senza dubbio. Per dirla in altre parole: una persona nata dagli anni Novanta in poi è più social rispetto ai suoi genitori. Bella scoperta, direte voi. Ma non solo. È anche, in media, più attenta alla ricerca della wilderness, e delle vette inesplorate. Primo, perché come ricordano le ricerche periodiche del Pew Research Center, hanno una maggiore consapevolezza dell’esistenza del climate change. Secondo, perché – banalmente – hanno meno possibilità di passare alla storia dell’alpinismo rispetto ai loro avi. Di conseguenza, meglio tentare una nuova via su una cima secondaria dell’Himalaya, la quale può essere veicolata maggiormente dagli eventuali sponsor dal punto di vista della narrazione, che ripetere una via che è stata chiusa da migliaia di persone. Qualcuno forse storcerà il naso leggendo il paragone fra Bonatti e le nuove generazioni di alpinisti. Per certi versi potrebbe avere ragione, considerate le ragioni di fondo della scelta di ricercare la wilderness, ma il punto di arrivo è analogo. Sia Bonatti sia gli odierni esploratori cercano sensazioni ed emozioni laddove nessuno penserebbe di farlo. E siamo abbastanza sicuri che Bonatti avrebbe più apprezzato un atteggiamento del genere rispetto a quello proposto dalle spedizioni commerciali.
E poi c’è una terza considerazione possibile. Se è vero che le spedizioni commerciali vanno per la maggiore, e il numero di agenzie specializzate in questa offerta sta aumentando, è altrettanto vero che i nuovi competitor sul mercato hanno un particolare occhio di riguardo a due fattori spesso dimenticati negli ultimi decenni: preparazione e sostenibilità. Preparazione intesa come allenamento del cliente, da un punto di vista fisico e mentale. E sostenibilità intesa come minimo impatto ambientale possibile, cioè senza immensi campi base e tonnellate di materiali e provviste, che inevitabilmente si traducono in rifiuti e rifiuti. Alpenglow di Adrian Ballinger, criticato su queste pagine per alcune sue scelte commerciali non proprio ortodosse, ne è un esempio virtuoso. Si potrà non apprezzare l’approccio di Alpenglow alle vette, ma senza dubbio l’impegno a minimizzare gli effetti collaterali delle sue spedizioni è meritevole di menzione. Se tutte le agenzie si stabilizzassero su precisi standard qualitativi, probabilmente non ci sarebbero più i titoli allarmanti dei quotidiani mondiali sull’enorme quantitativo di rifiuti presenti al campo base dell’Everest.
Infine, un pensiero per sherpa e portatori. Silenti, infaticabili e spesso sottopagati su base assoluta, loro sono l’anima dell’Everest. E siamo sicuri che fra quei 329 che hanno messo i propri scarponi sulla vetta più alta al mondo nessuno ha pensato di essere un eroe, come invece molti dei clienti avranno ritenuto di essere. Per sherpa e portatori arrivare su quella cima è un’esperienza culturale, ma soprattutto religiosa. Un aspetto, quest’ultimo, che non dovrebbe mai essere dimenticato dai turisti d’alta montagna.
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