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Paola Egonu non è la prima pioniera riluttante

18 Ottobre 2022

Paola Egonu deve sopportare un pesante fardello. Come ogni atleta di altissimo livello, subisce la pressione di osservatori, opinionisti, tifosi e appassionati. Durante gli appena conclusi Mondiali femminili di pallavolo, Egonu ha capeggiato la classifica assoluta dei punti realizzati ed è finita seconda per l’efficacia degli attacchi. Eppure, quasi tutti ricorderanno soltanto la sua schiacciata sbagliata nel rush finale del terzo set, nella semifinale poi persa dalle azzurre contro il Brasile: è la spietata legge dello sport che si applica con maggiore crudeltà proprio ai più grandi fuoriclasse, a quelli e a quelle che hanno i mezzi per trascinare e vincere. Egonu può chiedere lumi a Roberto Baggio, che forse si sogna ancora il rigore calciato alle stelle nella finale di Pasadena, o al suo quasi coetaneo Jannik Sinner, che ha servito un match-point nel quarto set ed è stato avanti di un break nel quinto prima di arrendersi, dopo oltre cinque ore di battaglia, a Carlos Alcaraz nei quarti di finale degli ultimi US Open. Quello che tendiamo a dimenticare quasi sempre è che solo una sottile porzione di chi pratica sport arriverà mai sul dischetto di una finale di Coppa del mondo o a una sola palla dalla semifinale di uno Slam. Si tratta quindi, sotto ogni rispetto, di individui eccezionali.

L’altra verità che sovente scordiamo è che «una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta» [1]. Inoltre, i rovesci sono assai più “narrativi” dei successi. Come osservò con mirabile icasticità Julio Velasco, carismatico allenatore della nazionale maschile di pallavolo che negli anni ’90 fece man bassa di trofei (mancando solo l’oro olimpico), “Chi vince festeggia, chi perde spiega”. Proprio per questo, perdere stimola l’ossessione tutta umana di ricercare le cause di ogni fatto e di pretendere di tenere sotto controllo ogni aspetto della nostra vita. Qui sta il sale di tutta la critica sportiva e di tutte le discussioni da bar: la pretesa di ridurre ogni tiro a rete, ogni sprint, ogni smash al prodotto di una ben collaudata e ripetuta routine. Al contrario, al netto delle pur necessarie e praticate sedute di allenamento, ogni esito – oltre a dipendere dalle prestazioni di avversari e concorrenti – è anche la risultante dell’imponderabile e ineffabile casualità dell’esistenza, che si manifesta sotto forma di centesimi o centimetri mancanti o in eccesso, che ci rammentano la nostra condizione di “canne al vento”.

Dopo la vittoria nella finalina, Egonu è stata a lungo consolata da Monica De Gennaro

Ciò premesso, lo sconforto di Egonu, e il clamore suscitato dall’annunciata pausa di riflessione con conseguente rinuncia alla maglia azzurra, è anche e soprattutto il frutto amarissimo della coloritura razzista delle critiche rivoltele. Egonu ne è rimasta segnata come altre volte nel passato e, prima che diventasse virale il video dello sfogo a caldo con il suo procuratore, era già evidente la lacerazione psicologica sofferta dalla ragazza, che nella finale per il bronzo contro gli Stati Uniti è sembrata emotivamente abulica o comunque assorta in cupi pensieri. Dopo l’ultimo punto, si è avviata verso il capannello delle compagne in festa a passo lento, il volto impassibile e le braccia abbandonate lungo il corpo, rimanendo sostanzialmente apatica anche quando è stata abbracciata da Ofelia Malinov. Dopo la premiazione, Egonu ha rilasciato una lunga intervista alla giornalista Simona Rolandi, svelando la decisione che aveva covato nelle ultime ore e spiegandone diffusamente le ragioni. Fra l’altro ha dichiarato che il razzismo di cui è periodicamente oggetto è “sfiancante”, ne prosciuga le energie vitali ed erode il pur riaffermato attaccamento alla nazionale, da cui sente il bisogno di staccarsi per difendere se stessa e la sua psiche ferita.

Sono parole che solo le persone nella sua situazione possono compiutamente comprendere, coloro che per i più svariati motivi si trovano a condurre una vita da “diversi” fra “uguali” che li respingono. Egonu ha scelto dunque di liberarsi del fardello che ne appesantisce le ali: se possibile, vuole allontanarsi dai riflettori e smettere di essere un simbolo. In molti speriamo che si tratti di un arrivederci e non di un addio: il nostro paese e la nazionale di pallavolo hanno ambedue bisogno di Egonu per provare a essere migliori. Ma se volgiamo lo sguardo al passato, ci accorgiamo che il passo indietro della campionessa veneta non è una novità, che riecheggia molto da vicino quello di Althea Gibson, la tennista afro-americana che poco meno di settant’anni fa divenne la prima nera ad aggiudicarsi un major e la cui storia può forse aiutare Egonu a mettere in prospettiva la sua condizione attuale.

Althea Gibson nacque il 25 agosto 1927, a Silver, nella Carolina del Sud, dove i genitori lavoravano in una piantagione di cotone. La Grande Depressione e il crollo dei prezzi della soffice materia prima spinsero la famiglia a migrare a New York, dove il padre fu impiegato in un’autofficina. Da ragazzina, Gibson fu inclusa in uno di quei programmi statali che miravano a tenere la prole dei poveri lontana dal crimine. I poliziotti recintavano un quartiere e lo trasformavano in un campo di gioco. La fanciulla della Carolina era alta e forte e si dimostrò naturalmente abile nel padel [2]. Da lì al tennis il passo fu breve e Gibson intravide la sua strada. Lasciò la scuola, che spesso già marinava al costo di qualche cinghiata del manesco genitore, e accettò qualsiasi lavoro per pagarsi allenamenti e lezioni. A 15 anni vinse il primo torneo e in fretta dominò i tornei dell’American Tennis Association (ATA), il circuito riservato ai neri. Nel Nord non vigeva l’odiosa e violenta segregazione razziale del Mezzogiorno americano, ma ovunque i “negri” era bene che se ne stessero al loro posto, il che voleva dire il più possibile separati dai bianchi. Era lo stesso anche nello sport e massimamente nel tennis, dove di bianco non c’erano solo le magliette, i calzoncini, le gonne e le palline: la Federazione tennistica statunitense precludeva infatti agli atleti di colore la partecipazione ai tornei nazionali, incluso quello ora conosciuto come gli US Open.

Gibson aveva comunque attirato l’attenzione. Il dottor Robert Johnson, un medico della Virginia, e il dottor Hubert Eaton, un chirurgo del North Carolina, due fanatici di tennis e attivisti dei diritti civili, l’avvicinarono e le svelarono che l’alta borghesia nera, l’ATA e persino la stampa nera avevano un piano su di lei: Gibson poteva rompere la “barriera del colore” nel tennis e diventare la prima nera a fregiarsi di uno Slam. Avrebbe vissuto con gli Eaton in inverno, frequentando la scuola, e in estate si sarebbe trasferita dai Johnson, con cui avrebbe viaggiato per tornei. Fu accudita amorevolmente e inflessibilmente disciplinata, tanto sul campo da tennis che fuori [3].

Althea Gibson con il suo mentore Hubert Eaton

In quegli anni, le donne nere stavano cominciando a dominare lo sport statunitense. Non per un processo di emancipazione razziale o di genere, ma piuttosto per il ritiro delle bianche, cui era sconsigliata l’attività atletica giudicata dannosa per la salute fisica, emotiva e sessuale delle ragazze. Il successo sportivo delle nere era invece letto dalla cultura dominante come una conferma della loro atavica propensione alla sopportazione di eccezionali carichi di lavoro, un luogo comune che discendeva direttamente dai tempi della schiavitù [4]. La risposta della comunità nera e delle università per i neri alla pervasività di tali stereotipi fu di inculcare nelle giovani l’importanza di enfatizzare gli atteggiamenti femminili e di indirizzarle verso discipline sportive cosiddette “signorili”. L’ossessiva vigilanza sui corpi delle atlete nere rappresentava il tentativo di circoscrivere i supposti comportamenti “immorali” e “primitivi” che la borghesia nera credeva stigmatizzassero tutti gli afro-americani. I suoi esponenti più in vista, come Eaton e Johnson, erano conseguentemente più zelanti del dovuto nel pretendere dalle loro protette condotte al di sopra di ogni possibile sospetto – poiché le donne nere erano sovente accusate dai bianchi di trascurare l’igiene personale, quando nel 1951 Gibson divenne la prima tennista di colore a giocare Wimbledon, i resoconti della stampa nera non mancarono di evidenziare che la giocatrice faceva la doccia tutti i giorni [5].

Il 28 agosto 1950, grazie all’intercessione dell’ex-campionessa Alice Marble, che accusò la federazione statunitense di essere un covo di ipocriti bigotti, Gibson diventò la prima rappresentante della propria etnia a giocare gli US Open. I suoi successi travalicarono l’arena tennistica e divennero importanti per tutta la popolazione afro-americana. Fintanto che Gibson si limitava a dominare le concorrenti dei tornei ATA, il primo assillo dei suoi pigmalioni era far dimenticare le sue umilissime origini, ma quando Althea si stagliò nell’altolocato panorama tennistico dei bianchi come la sola, affidabile rappresentante della propria razza, la posta in palio s’innalzò e pretesero che assurgesse a simbolo per tutta la comunità di colore, conformandosi al ruolo di grata ambasciatrice della razza nera e sostenitrice del movimento per i diritti civili [6].

Accompagnata da Alice Marble, Gibson esordisce agli US Open nel 1950

Gibson recalcitrava di fronte al nuovo ruolo. A malapena reggeva lo stress del tennis, come poteva essere la paladina di sedici milioni di neri e sobbarcarsi l’onere mentale di dover sempre e inevitabilmente dire o fare la cosa giusta? Sotto il peso della pressione e dell’imperativo morale il suo tennis si sgretolò: cominciò a perdere, più del dovuto, più di quanto i suoi mentori fossero disposti a tollerare. Per i giornali era irriconoscente e svogliata, la più grossa delusione sportiva del tempo. Gibson carezzò l’idea di abbandonare e di arruolarsi nell’esercito, ma la ruota della storia cospirò in favore della sua carriera. Nel maggio 1954, con una storica sentenza la Corte Suprema si pronunciò contro l’ipocrita dottrina “separati ma uguali” e dichiarò incostituzionale la divisione degli studenti a scuola. Nell’agosto del 1955, il quindicenne nero Emmett Till fu selvaggiamente picchiato e ucciso da alcuni razzisti nella cittadina di Money nel Mississippi, generando un’ondata di indignazione che travolse la nazione e contagiò l’Europa. Il 1° dicembre, Rosa Parks rifiutò di cedere il posto a un bianco su un autobus di Montgomery, in Alabama, e venne immediatamente arrestata. Ne scaturì un impressionante boicottaggio dei mezzi pubblici da parte dei neri, che portò alla ribalta il giovane pastore protestante Martin Luther King e innescò la fase alta del movimento dei diritti civili. Nel contesto della Guerra Fredda, era chiaro anche all’establishment conservatore e alla maggioranza benpensante che persino la più piccola e insignificante azione aveva il potenziale di produrre immensi e incalcolabili effetti. In particolare, la questione dei diritti civili della minoranza afro-americana aveva assunto una rilevanza planetaria e rischiava di danneggiare irreparabilmente l’impegno statunitense nel conflitto ideologico Est-Ovest. La Casa Bianca adottò allora alcune contro-misure, compresa una tournée propagandistica nei paesi asiatici da parte di alcuni atleti e atlete statunitensi, fra cui fu inclusa anche Althea Gibson: non per il suo tennis, ma per il colore della sua pelle [7]. Nel 1956, Gibson giocò partite in giro per il mondo e l’affetto di tante persone dei paesi più poveri, che non la giudicavano per il suo aspetto esteriore, la rigenerò. Arrivata in Europa, la sua tarda ma definitiva affermazione fu suggellata dalle vittorie a Montecarlo e Roma, nonché dal successo al Roland Garros.

Gibson riceve il trofeo di Wimbledon da Elisabetta II

L’anno seguente, trionfò a Wimbledon e a premiarla fu Elisabetta II. A Manhattan, fu onorata con una sfilata su Broadway, il che però non fu sufficiente a inaugurare un nuovo capitolo di equità razziale: pochi giorni dopo, fu respinta da tutti i migliori hotel di Chicago e uno si rifiutò persino di organizzare un pranzo in suo onore. In settembre, prevalse agli US Open sotto gli occhi del presidente Dwight D. Eisenhower, che l’indomani  firmò il Civil Right Acts, la legge che intendeva fornire protezione alla popolazione di colore per rendere effettivo l’esercizio del diritto di voto. Appena la settimana precedente, il Governo aveva dovuto spedire la Guardia Nazionale a Little Rock, in Arkansas, perché fosse applicata la citata sentenza della Corte Suprema sulla desegregazione scolastica: scortati dalle truppe federali, nove ragazzi di colore presero posto sui banchi del locale liceo, pur bersagliati dalle ingiurie e dagli assalti della cittadinanza, istigata dal governatore razzista Orval Faubus. Il testo licenziato dal presidente Eisenhower fu il primo intervento legislativo in materia da oltre ottant’anni, ma ebbe enormi difficoltà di applicazione per la limitatezza delle disposizioni. Ci sarebbero volute ulteriori norme, rese possibili dall’eccezionale mobilitazione popolare degli anni Sessanta, per includere finalmente la minoranza nera nella cittadella politica americana.

Analogamente, l’esempio pionieristico di Althea Gibson faticò a generare frutti visibili. Nel 1958, la replica della doppietta Wimbledon-US Open e la conquista della vetta del ranking mondiale non l’aiutarono a liquidare le sue spese, data la pregiudiziale dilettantistica cui i tennisti dovevano rigorosamente sottostare. Lasciò il tennis da n. 1, tentò varie strade e patì tristi vicissitudini. Ormai anziana, si trovò in pessime acque e fu soccorsa economicamente dalle sue epigone. La leggenda Billie Jean King e le sorelle Williams riconobbero pubblicamente che le loro carriere erano state rese possibili e ispirate da Gibson, che pur era stata una pioniera riluttante, insofferente alle richieste di agire da modello per le giovani di colore e contraria a porsi alla testa della lotta per l’avanzamento della sua gente. Solo in tarda età, prese coscienza della sua funzione precorritrice e colse gli esatti contorni della sua straordinaria parabola umana e sportiva.

 

[1] Agassi, A., Open, Einaudi, 2009

[2] Lansbury, J. H., A Spectacular Leap: Black Women Athletes in Twentieth-Century America, University of Arkansas Press, 2014

[3] Ibidem

[4] Vertinsky, P. e Captain, G., American Culture and Representations of the Black Female’s Athletic Ability, in “Journal of Sport History”, Vol. 25, n. 3 (Autunno 1998)

[5] Lansbury, J. H., Op. cit.

[6] Ibidem

[7]  O’Reilly, J. e Cahn, S.K., Women and Sports in the United States, Northeastern University Press, 2007

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