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Marina Causa: Il bridge è come il bancomat. Ti dà, se ci metti

8 Aprile 2019

Disciplina, rigore e regole ferree sono le caratteristiche principali di un gioco che sta prendendo sempre più piede ovunque: il bridge. Qualcuno sostiene che gli italiani siano stati davvero stregati da questo gioco e che i praticanti abbiano superato abbondantemente i tre milioni.

E noi che pensavamo fosse un gioco di nicchia. E invece? Allora vale la pena conoscerlo meglio questo spaccato di vita, approfondendone tutte le pieghe che lo compongono, conoscerne le dinamiche e i meccanismi che lo muovono e i personaggi che lo rappresentano. Nel mondo lo sappiamo già,  Bill Gates, Omar Sharif, Tom York e tanti altri noti, amano sedersi al tavolo verde. Ma in Italia? Abbiamo già intervistato il nostro campione Alfredo Versace . Oggi è la volta di Marina Causa, altro punto di riferimento importante per il bridge italiano. Architetto nella vita, ma insegnante, giocatrice, campionessa e autrice di un sistema che tutti conoscono nel bridge, Marina ha vinto tanti prestigiosi premi. Tra cui l’oro.  Ma parliamone con lei…

 

Chi si avvicina al bridge il primo nome che sente fare è quello di Marina Causa, perché il sistema di base da cui si parte per poi potersi sedersi ai tavoli verdi da Milano a Siracusa e parlare quindi la stessa lingua è proprio il sistema inventato da te. E’ così?

A dire il vero io non ho inventato proprio niente. Ho solo assemblato, prendendo un pò qua e un pò là, e cercato di tenere come traccia lo stile – assodato dopo almeno due sondaggi ai Campionati – più usato dai giocatori italiani. Molto è stato preso dallo Standard America, semplice, efficace e senza fronzoli, pur tenendo conto di alcune sistemazioni tipicamente italiane. L’idea è che la dichiarazione si è talmente evoluta da riservare le invenzioni solo al Bridge professionistico. Il Bridge per tutti, invece, deve essere un giusto mix di tecnica e buon senso. Se poi un sistema è buono si diffonde da solo.

Sì, ma qual è stata la spinta che ti ha portato a scrivere e a semplificare un metodo comprensibile a tutti e in particolare a chi si avvicina per la prima volta a questo mondo? Ho letto molti apprezzamenti in giro su di te, del tipo… se non ci fosse stata Marina il bridge si sarebbe estinto… oppure…idee, passione ma soprattutto tanta capacità professionale. Questo lo dice Mario Guarino, innovativo insegnante federale anche lui e big del bridge.

La spinta è stata la voglia di far conoscere a più gente possibile, che deve affrontare molte sfide, questo gioco meraviglioso. La prima è combattere le leggende metropolitane che da sempre presentano il bridge come gioco cervellotico destinato a pochi e anche noioso. La seconda è rendere gradevole e sorprendente l’approccio, semplificando il più possibile le nozioni essenziali che servono per iniziare. La terza è riuscire ad attuare la seconda nel minor tempo possibile per dare, a chi vuole provare, un quadro completo di come funzioni questo gioco: dichiarare un contratto e giocarlo, in una sola seduta.

…così da far uscire i Big del bridge. Analizziamo questa parola Marina e anche il suo significato. O meglio il percorso che si deve fare per diventarlo, qualora interessi farlo. Come si arriva ad essere un big? Bisogna necessariamente iniziare da giovani, oppure la mente umana fa anche sorprese a chi giovane non lo è più? Qualche caso conferma questo, o no?

Il bridge è come il bancomat: ti dà, se ci hai messo. Non credo che nessuno possa decidere di diventare un big. Avviene in modo naturale, se hai talento, voglia di leggere e studiare e se hai a portata di mano altri big a cui chiedere lumi. Ma esistono anche fenomeni, come Lanzarotti, nati in provincia e cresciuti da soli senza nessun super big a cui rubare il mestiere. Non credo che imparare a 40 anni sia un handicap per diventare un big, ma di certo una mente giovane assimila con molta più velocità i meccanismi del gioco, come in qualsiasi altro sport.

A che età hai iniziato tu e come vivi questo impegno?

Ho iniziato a 19 anni, senza nessuna voglia e per far piacere a mia madre. Ho continuato per altri 2 o 3 anni senza impegnarmi, solo per restare nel gruppo di ragazzi che aveva iniziato con me. Poi ho deciso di metterci la testa, perché ho scoperto che mi piaceva davvero. E’ uno degli aspetti negativi del bridge: per capirne appieno il fascino, purtroppo, serve un bel po’ di tempo. Mangio pane e bridge da allora, divisa tra il mio impegno di giocatrice e la mia passione per la didattica. So che solo in quest’ultima posso avere un margine di miglioramento: attraverso la ricerca delle parole giuste, dei paragoni, delle vignette e delle chiavi mentali per rendere comprensibile un concetto. E’ un impegno affascinante che mi gratifica moltissimo.

Si può senz’altro dire che il bridge ti cambia la vita, la giornata e i tuoi contorni personali. So di persone, e io tra loro, che prima di avvicinarsi al bridge vivevano la propria routine personale senza quel pepe della competizione e quell’impegno quotidiano che invece un gioco come questo mette in atto. Sei d’accordo che non è come tutti gli altri giochi?

No, non è come tutti gli altri giochi. Dà dipendenza e poco a poco, in effetti, se ti prende, finisci per selezionare le amicizie e impostare tutta o quasi, la tua vita sociale nel giro dei bridgisti. In effetti, bisogna ammettere che il bridge rende un po’ più ignoranti: meno tempo per libri, teatro, ecc., ma una passione vale questo inconveniente. Il pepe della competizione è l’elemento che ne conquista tanti e ne perde alcuni. Non tutti, però, elaborano in modo corretto l’idea di avere degli avversari e doverli battere. Sicuramente chi ha fatto un qualsiasi sport, prima del bridge, si presenta con la mentalità giusta. E si informa sulle regole del codice: cosa normale, per uno sportivo.

A proposito di competizione. La vita di circolo alimenta e favorisce un’alta socializzazione. Ma facilita anche scontri personali di notevole livello, determinati e provocati dall’esasperata sfida di questo gioco. So di amici e colleghi giornalisti, peraltro ottimi professionisti, che hanno evitato di entrare in questo mondo proprio per l’alta competizione e conosco anche altri che se ne sono allontanati e non ne vogliono sentir più parlare. Ecco, in sintesi, il bridge migliora o peggiora la vita di chi lo sceglie e lo pratica?

Al tavolo da gioco quasi tutti si trasformano. Avviene una specie di regressione infantile, si tende a perdere quella capacità di compromesso coltivata nel tempo per restare inseriti nel mondo sociale o di lavoro. A me capita spesso di guardare qualcuno che dà in escandescenze e di immaginarlo bambino, mentre gioca in cortile: lo “vedo” perfettamente. L’indole non può essere soffocata, ma va detto che la maggior parte degli episodi spiacevoli al tavolo avvengono per semplice ignoranza delle regole di comportamento e di etica. Se un giocatore commette un’irregolarità ma non ne è consapevole, si adombra se gli avversari – giustamente – si irritano. Basterebbe un po’ più di informazione: per sedersi a un tavolo non basta conoscere la Blackwood, bisogna anche sapere quali cose si ha diritto di fare e quali no.

Parliamo di scuole. Tante le iniziative che si fanno ormai nelle scuole pubbliche e non solo. In accordo con il Miur infatti si tengono lezioni di bridge o come atti di vita curriculare autonoma, o con progetti collegati alla matematica, bridgematica e all’informatica. Insomma basta questo per avviare un serio proselitismo tra i giovani o si potrebbe e si dovrebbe fare di più sia a livello locale e nazionale?

Abbiamo in effetti di nuovo tanta carne al fuoco per il bridge nelle scuole e nelle università. L’evento Didacta ha avuto frutti inaspettati, sorprendenti. Ma per non rischiare di vanificare il tutto ci dobbiamo ricordare che i giovani, che apprendono il bridge come attività stimolante in affiancamento alle altre materie di studio, per appassionarsi veramente devono anche praticarlo, combattere, sfidarsi, assaporare vittorie e sconfitte. Non può mancare questo e si deve trovare la strada per coordinare l’attività extrascolastica. Per farlo è indispensabile la collaborazione delle associazioni vicine. Anche se faremo 30 ma non 31, perché di questi ragazzi ben pochi verranno poi alla luce. Ma intanto….

Veniamo all’organizzazione federale. Molte le critiche che si leggono sui social e altro….sull’organizzazione in primis, sulla comunicazione, sui costi della struttura e su quelli che i giocatori sostengono. Sono in molti a pensare che il bridge sia uno sport molto caro. Soprattutto per i giovani. E sono in molti a sostenere che il trend di discesa avviato ormai da anni, non si ferma e che la buona volontà dei singoli e delle associazioni che lottano per sopravvivere, dovrebbe essere supportata da una politica federale più intelligente e più accorta. E’ vero tutto ciò o sono solo lamentele che trovano il tempo che trovano?

Sono in FIGB da tanto tempo e non ho memoria di nessuna presidenza che sia stata esente da critiche. Che sia uno sport caro non è vero se si guardano le cose nel loro complesso: non dobbiamo comprare racchette, sci, scarpe etc. Molto è dovuto al fatto che nell’immaginario collettivo un gioco di carte deve essere gratuito, anche se poi ci si lamenta della mancanza di aria condizionata e servizi di lusso.

In quanto ai giovani, loro sono supportati dalla federazione molto più che dalle associazioni, molte delle quali, infatti, alle prese con le acrobazie che servono a gestire i risicati bilanci, non prevedono quote associative agevolate né iscrizioni ridotte ai tornei locali.

 

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