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Marilyn e Joe, che non invecchiarono insieme
Se Marilyn Monroe non fosse morta nella notte fra il 4 e il 5 agosto di 60 anni fa, con qualche probabilità, dopo aver trasmigrato da un talamo all’altro, sarebbe invecchiata accanto a Joe DiMagggio, il solo che, a modo suo, l’aveva veramente amata.
Se Joe DiMaggio non fosse stato un uomo del suo tempo e avesse saputo vedere la donna fragile dietro la stella del cinema, avrebbe potuto depositare una rosa al giorno ai suoi piedi e non sulla sua tomba.
Invece, entrambi non erano attrezzati per capire e rispettare ciò che li rendeva degli impareggiabili miti moderni. Joe DiMaggio era stato il figlio svogliato di un derelitto pescatore siciliano ed era assurto nell’olimpo del baseball, il gioco più tipicamente americano, per la benedizione di un talento sconfinato. L’eccezionale valore del giocatore italo-americano era restituito dalla magica combinazione di completezza tecnica, scarna efficienza e sublime eleganza. Capace di esprimere il meglio nelle fasi culminanti delle gare, mostrava una straordinaria miscela di forza e controllo, con cui esplorava ogni volta gli estremi limiti delle proprie risorse psico-fisiche, sempre conservando un’impeccabile compostezza, da cui non trasparivano che contenutissime emozioni. In un periodo nel quale gli immigrati siciliani in America erano considerati più o meno come la feccia della terra, il miracolo di Joe fu quello di incarnare la più plastica realizzazione del “sogno americano”. Con le sue sole forze, si era elevato dai bassifondi dell’esistenza fino alle estreme vette dello star-system a stelle e strisce, ammassando titoli, denaro e fama. Dalla maleodorante bagnarola su cui perlustrava con il padre la Baia di San Francisco, era giunto a occupare il posto di icona più venerata dell’immaginario collettivo americano, rivestendo persino il ruolo di musa ispiratrice per artisti, letterati e cantanti.
Ormai al tramonto della carriera, notò su una rivista una sventola bionda insieme a due giocatori dei Chicago White Sox. Sondò tutte le sue entrature per conoscerla, fino a che scovò un amico che era familiare con la ragazza. La donna fascinosa non era altri che Marilyn Monroe, che l’amico rintracciò a Los Angeles: «C’è un bravo tipo che vorrebbe incontrarti». «Sono rimasti bravi tipi in giro?», si informò scettica la diva. «È il grande Joe DiMaggio!». Al silenzio indifferente di lei, l’amico trasecolò: «Non sai chi è Joe DiMaggio?! È il più grande giocatore di baseball dopo Babe Ruth!». «Chi è Babe Ruth?» replicò lei distrattamente.
L’8 marzo 1952, cenarono insieme. Quando Marilyn arrivò, con un’ora abbondante di ritardo, Joe si alzò in piedi per presentarsi. Era differente dalle persone che lei frequentava di solito. Aveva l’aria timida e impacciata, le unghie immacolate, i capelli incanutiti sulle tempie, le scarpe luccicanti e l’elegantissimo completo grigio d’ordinanza: più che un idolo del diamante, pareva un deputato o un magnate dell’acciaio. Joe, che quasi non aprì bocca, limitandosi a sorridere e a fissarla, fu altrettanto se non di più impressionato, visto che l’attrice era in quel momento all’apice della sua bellezza. Si sposarono, quasi di soppiatto, il 14 gennaio 1954, anche se non riuscirono a seminare paparazzi e giornalisti. Era un’edificante favola moderna: la più grande democrazia del mondo, che sui rotocalchi leggeva le struggenti e insulse vicende dei regnanti europei, vedeva convolare a nozze Mr. & Mrs. America, la coppia perfetta. Lei giurò che avrebbe stirato le camicie di Joe, lui promise che sarebbe stato un marito comprensivo e premuroso.
Per il viaggio di nozze volarono a Tokyo, dove aspettarono ore sulla pista di atterraggio prima che la folla dei fan potesse essere contenuta da un numero adeguato di forze dell’ordine. Alla conferenza stampa, Joe recitò la parte del valletto silenzioso e Marilyn fu tempestata di domande, quel genere di domande che più tardi avrebbero potuto provocare un alterco nella suite del signor e della signora DiMaggio: «Dorme sempre nuda?»; «È vero che non indossa biancheria sotto il vestito?»; «Da quanto tempo cammina ancheggiando così?».
I due sposini si separarono presto, perché l’attrice accettò di visitare le truppe di stanza in Corea. La guerra contro i “rossi” era ormai terminata ma c’erano ancora un milione di ragazzi americani alloggiati, o semi-dimenticati come accusava qualcuno, in campi di prima linea malamente improvvisati. Da Seul, fu trasportata in elicottero alla sua prima esibizione, un attendamento remoto e primitivo sul fianco di una montagna. Quando l’elicottero si avvicinò in picchiata, Marilyn andò in estasi. Migliaia di uomini la stavano acclamando in un tripudio di berretti lanciati in aria, fischi e grida di giubilo. Aprirono il portellone principale e due soldati la trattennero per le gambe mentre a pancia in giù, sospesa a mezz’aria, salutava e lanciava baci alla moltitudine in festa.
Nel freddo pungente dell’inverno coreano, si presentò con un succinto abito di seta sorretto da sottili spalline. Intonò “Diamonds are a girl’s best friend” e, a rischio di una sommossa, seguì con il brano di George Gershwin “Do it again”: Oooohhh, do it again/I may say, no, no, no, no/But do it again/Oooohh, no one is near/I may cry, oh, oh, ohhhh/But no one will hear.
Aveva sempre avuto paura di esibirsi dal vivo, ma di fronte a quei 17.000 ragazzi Marilyn dichiarò di non aver avuto alcun timore, di essersi sentita per la prima volta in vita sua veramente felice: «Non dimenticherò mai la mia luna di miele – urlò a quelle migliaia di giovani in delirio –, con la 45esima divisione!».
Tornò da Joe in uno stato di incontenibile esaltazione, doveva assolutamente raccontargli com’era stato meraviglioso ed eccitante, come l’avevano acclamata e adorata: «Oh Joe, non hai mai sentito un tale entusiasmo!». Al che, naturalmente, lui replicò: «Certo che l’ho sentito».
Alla fine dell’estate, Marilyn girò a New York “Quando la moglie è in vacanza”. Assillato dal tarlo che la moglie amoreggiasse con tutti gli uomini del jet-set, a Joe non restò che seguirla e osservarla con orrore dare spettacolo di sé. Quella che per il resto del mondo fu l’assoluta dimostrazione dell’irresistibile carica erotica di Marilyn Monroe, la celebre scena dell’eterea gonna sollevata dagli sfiati di una grata posta sopra la metropolitana, per Joe DiMaggio fu l’ultima goccia. Litigarono furiosamente, si azzuffarono, Joe usò le mani. Marilyn disse al giudice che non poteva resistere un giorno di più: il loro matrimonio era durato 274 giorni.
Alla sua tragica morte, l’apparente suicidio che Marilyn Monroe commise nella sua casa di Los Angeles, nessuno accorse da Hollywood. Solo DiMaggio rispose alla chiamata del coroner. Si accollò il funerale e si assicurò che non vi partecipassero o fossero letti messaggi di condoglianze del presidente John Kennedy e del fratello Bobby, con i quali si vociferava che Marilyn avesse avuto relazioni spericolate, solo per venirne abbandonata prima di scandalose compromissioni. Era stato il destino di Marilyn, attirare gli uomini ed essere presto o tardi respinta. Con un misto di senso di colpa e incrollabile devozione, DiMaggio ordinò che fiori freschi adornassero quotidianamente la sua tomba e rigettò sdegnosamente cifre colossali per mettere nero su bianco la sua storia con il sex-symbol cui l’intero pianeta aveva rivolto pensieri non proprio riferibili.
Se solo Joe non avesse contribuito alla sua rovina, se solo l’avesse trattata da donna e non da bambola, avrebbe potuto amarla da viva e non da morta. Se solo avessero compreso di avere un’unica cosa in comune, di essere entrambi immensi personaggi pubblici dentro i quali stavano rannicchiati due esseri umani insicuri e solitari, al contempo ansiosi e timorosi di essere scovati, se fossero stati capaci di confessarselo reciprocamente, ecco, allora, avrebbero potuto invecchiare insieme.
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