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“Marathon mom”: la storia di Amber Miller

9 Ottobre 2021

Quando dieci anni fa lessi dell’impresa di Amber Miller, che corse la maratona di Chicago mentre era incinta e la sera stessa partorì la secondogenita June, rimasi indeciso se rallegrarmi o rattristarmi. Forse erano i miei occhi di fresco padre, che ora percepivano anche il minimo segno che potesse rivelare il tipo di mondo che avrebbe abitato mia figlia, ma quanto ricavavo dai resoconti cartacei e digitali era una sensazione ambigua. C’erano, in quegli articoli, ammirazione e plauso, meraviglia e disorientamento, e ovviamente ironia e critica, ed ero incerto su quali reazioni mi disturbassero di più.

Dovrebbe essere ormai noto ai più che, per la loro posizione subordinata nella società, l’accesso delle donne all’esercizio fisico e allo sport è stato lungamente contrastato. Anzi, è altrettanto risaputo che in alcuni paesi lo è tutt’oggi. Le donne erano già escluse dalle Olimpiadi classiche, benché gli antichi greci, forse a partire dal VI secolo a.c., avessero allestito specifiche e ridotte competizioni a loro riservate, i cosiddetti Giochi Erei.

Con la nascita degli sport moderni e il ritorno a Olimpia nella seconda metà del XIX secolo, la discriminazione fu rinnovata e furono addotte le più svariate ragioni per confermare le signore in uno stato di persistente minorità. Alla prima edizione delle Olimpiadi moderne nel 1896 parteciparono i soli atleti maschi. Il barone Pierre De Coubertin, che li aveva riesumati, considerava i Giochi un veicolo per promuovere l’universalismo, la pace, l’uguaglianza e il mutuo rispetto fra le nazioni. La sua creatura tuttavia rifletteva in pieno i pregiudizi, le idee, le relazioni e le consuetudini dell’epoca, in particolare quelle che favorivano l’alta società maschile dei paesi occidentali. Radicate nei tradizionali valori elitari di fine Ottocento, le Olimpiadi discriminarono i gruppi sulla base della classe (di cui era espressione la pregiudiziale sul dilettantismo), della razza, come allora si diceva apertamente, e del genere. Per lo stesso De Coubertin, lo sport femminile era «la cosa più antiestetica che gli occhi umani potessero contemplare»: lo sport era infatti ritenuto un dominio prettamente maschile, per i suoi legami con la guerra e l’addestramento militare e per la stretta associazione con valori che il senso comune attribuiva alla virilità.

Per quanto la pratica atletica cominciasse a essere raccomandata per ragioni eugenetiche, ossia perché le gestanti potessero generare figli più sani e robusti, la progressiva e ostacolata ammissione delle donne nella cittadella sportiva avvenne in un quadro di paternalistica sorveglianza e nel contesto delle dominanti teorie su presunte inferiorità fisiche e psicologiche. L’uso della bicicletta, per esempio, venne stigmatizzato perché implicava che anche le ragazze indossassero i pantaloni, da tempo immemore uno dei simboli più caratteristici dell’identità maschile; perché le costringeva in posture oscene e indecorose, che attentavano alla grazia femminile e rischiavano di minarne irrimediabilmente l’apparato riproduttivo; perché poteva indurre innominabili occasioni di eccitamento sessuale per la «confricazione delle parti genitali» [1].

Solo alle Olimpiadi del 1928, le donne furono ammesse alle gare di atletica leggera e negli 800 metri, una prestazione sensazionale con ben tre concorrenti sotto il record mondiale fu declassificata a scandalo inaccettabile, solo perché le atlete dopo il traguardo si erano accasciate sulla pista. Contro ogni evidenza cronometrica e agonistica, prevalse l’indignazione giornalistica innescata dal fatto che le ragazze avevano corso fino alla completa spossatezza [2]. Pochi giorni dopo, il CIO cancellò gli 800 metri femminili dal programma olimpico, che li avrebbe riaccolti solo per l’edizione romana del 1960.

Anche l’atleta del secolo Fanny Blankers-Koen dovette vincere l’ostracismo dei progrediti e civilissimi Paesi Bassi, dove la si accusava di trascurare i suoi doveri di moglie e madre. Prima dei Giochi di Londra del 1948, dove avrebbe emulato niente meno che Jesse Owens vincendo quattro ori nelle corse veloci, ricevette centinaia di lettere che le intimavano di non competere, anche per non mostrarsi in calzoncini corti alla veneranda età di 30 anni [3].

Una fotografia di Amber Miller lungo il percorso della maratona

Amber Miller, per tornare alla protagonista di questa storia, non aveva il problema di mostrare le gambe a 27 anni, ma quando il 9 ottobre 2011 si presentò alla partenza della maratona, col pancione di 39 settimane ben in evidenza, non era proprio sicura di cosa aspettarsi. Era abituata agli sguardi indagatori, perché – sotto il controllo del proprio medico – non aveva mai cessato di correre. In febbraio, lei e il marito Joe avevano pagato l’iscrizione e pochi giorni dopo Miller aveva appreso che sarebbe stata mamma per la seconda volta. Correre era una passione fortissima, cui non avrebbe mai rinunciato. Aveva alle spalle sette maratone, una disputata proprio all’inizio della prima gravidanza, ma stavolta pensava che non avrebbe potuto prender parte alla corsa, dato che Caleb, il primogenito, era nato con tre settimane in anticipo e il termine della nuova gestazione era previsto sette giorni dopo la maratona. Tuttavia, era in buona salute, si sentiva bene, come anche la vita che cresceva dentro di lei: non c’era stata la minima complicazione. Verso la fine di settembre, aveva corso una ventina di chilometri senza sforzo e la sera prima della maratona decise che sarebbe partita, alternando la corsa al passo, come le aveva suggerito il medico. Era rilassata: il tempo era quasi scaduto, se anche le fossero venute le doglie, sarebbe stato perfettamente naturale. All’alba, insieme a Joe, si mescolò alla folla gaudente che attendeva il proprio turno per partire: mettere in marcia 45.000 podisti non è cosa che si sbriga in pochi attimi.

La giornata era ideale, tiepida ma non calda e ai bordi della strada i genitori erano venuti a sostenerla e ad accudire Caleb. Nessuno aveva esercitato alcuna pressione su di lei, Amber conosceva il suo corpo e sapeva fin dove poteva spingersi. La coppia se la prese comoda, godendo la città, il percorso, la brezza e soprattutto le persone che intasavano ogni strada, gareggiando o guardando. Quasi subito ricevette felicitazioni e incitamenti. La notizia passava di bocca in bocca, risaliva il serpentone variopinto che sciamava sul tracciato e anticipava i passaggi di Amber. Dopo qualche chilometro, Joe rallentò e Amber se lo lasciò alle spalle, vincendo il fastidio di qualche vescica. A metà gara, smise di correre e proseguì camminando, dopo aver avvertito qualche contrazione. Non raggiunse mai i suoi limiti. Col sorriso sulle labbra e l’applauso del pubblico tagliò il traguardo dopo quasi sei ore e mezzo, in pratica il doppio del suo personale. Dopo una ventina di minuti giunse anche il marito e si sedettero in un’aiuola; le contrazioni si fecero più frequenti. Passò da casa per mangiare qualche sandwich e infine si diresse all’ospedale, dove faticò a convincere i sanitari che aveva appena terminato la maratona. In capo a quattro ore, ben prima di mezzanotte, June vide la luce, lo stesso giorno in cui la madre aveva concluso la gara più prestigiosa dei Giochi olimpici: le televisioni e i giornali accorsero per testimoniare l’eccezionalità dell’evento.

Amber e Joe con la neonata June

Anche la primatista mondiale Paula Radcliffe aveva continuato ad allenarsi durante la gravidanza e subito dopo la nascita del primo figlio, così da trionfare alla maratona di New York ad appena dieci mesi dal parto. Amber Miller aveva probabilmente una tempra e un fisico eccezionali, come convennero i diversi medici interpellati dai giornali, ma ormai da diverso tempo sappiamo che l’esercizio fisico, anche in gravidanza, è caldamente consigliato, pur nel rispetto dei limiti prescritti caso per caso dalla medicina. Le prime evidenze scientifiche attestano che, a fronte di rischi minimi, l’attività motoria è suscettibile di migliorare la salute della gestante e del feto, per esempio abbassando la pressione sanguigna o riducendo l’incidenza del taglio cesareo. Proprio nel 2011, la Women’s Sports Foundation, creata dalla ex tennista Billie Jean King per promuovere l’attività atletica fra le ragazze e le donne di ogni età, ha pubblicato delle linee guida per ricordare alle autorità sportive che non esiste un momento predefinito durante la gravidanza in cui un’atleta dovrebbe smettere di competere; ogni decisione in merito deve essere riservata all’atleta stessa in accordo con chi le fornisce l’assistenza sanitaria.

Qualche anno dopo quella straordinaria giornata, Amber Miller tornò a parlarne. In conclusione, raccontò che June era ormai una bambinetta cui erano state spiegate le singolari circostanze della sua nascita. Nell’occasione, la madre, pur essendo ancora un’appassionata runner, le aveva spiegato che per partorire non è necessario correre prima una maratona!

 

[1] Pivato, S., Storia sociale della bicicletta, il Mulino, 2019

[2] Bruschi, P., Essere campioni è un dettaglio, Scatole parlanti, 2018

[3] Ibidem

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