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L’uomo che incastrò Lance Armstrong

11 Ottobre 2015

Il peggior nemico di ogni sognatore è il sospetto di star vivendo un’illusione. Il sospetto, non la certezza, perché la consapevolezza arriva piano, si infila dentro i dettagli, si presenta inevitabile come risposta a tante domande. I cronisti sportivi sono i sognatori per definizione, almeno in ambito giornalistico. Loro possono, anzi devono, raccontare storie che hanno sempre il sapore dell’epica, nella vittoria e nella sconfitta.

Cosa succede però quando si comincia a sospettare che tutto sia una presa in giro? Quanto si può credere ai propri occhi? E quanto certe domande meritano davvero di rimanere senza risposta per non rovinare lo spettacolo? David Walsh negli anni ’90 seguiva il Tour de France per il Sunday Times. Il 1998 è l’anno dello scandalo Festina: si dopavano tutti in quella squadra, orrore e raccapriccio. Anno 1999, dopo lo choc, la retorica giornalistica conia il termine «il Tour della rinascita», quello finalmente pulito. Quell’anno trionfò a sorpresa un americano uscito vincitore dalla tremenda battaglia contro unl tumore ai testicoli: Lance Armstrong era il suo nome.

L’impresa aveva un sapore leggendario, una storia magnifica di caduta e resurrezione, l’uomo che sconfigge la malattia, un esempio, un eroe. Walsh però comincia a domandarsi: come ha fatto un bravo ciclista a diventare un fenomeno? Prima della malattia Armstrong era un onesto corridore, bravo sulle gare in linea, passabile alle crono, non un granché quando cominciavano ad arrivare le salite. Nel 1999 quello che attraversa con la maglia gialla i Campi Elisi di Parigi non è lo stesso ciclista, è un mostro di bravura, una forza della natura, uno in grado di divorare gli avversari, non solo di sconfiggerli. Walsh lo scrive sul suo giornale, sbatte i suoi dubbi in prima pagina con la tenacia del cronista vero. Continuerà a farlo per i successivi sei anni, quando Armstrong vinse altre sei volte il Tour.

Non era una voce isolata, quella di Walsh, ma soltanto pochissimi altri coraggiosi giornalisti stavano con lui, mentre gli altri erano troppo impegnati a scrivere pezzi magnifici su un personaggio che era troppo un eroe positivo, troppo grande, troppo bello, troppo perfetto. Troppo. Lui no, lui era un amante deluso, frustrato, distrutto da un amore (quello per lo sport) che in realtà era una truffa colossale portata avanti a colpi di Epo: più ossigeno nel sangue, maggiore resistenza in salita. Altro che eroi, questi stanno fottendo tutti, pubblico ed esperti: una leggenda tossica, altroché. Ma come fai a dirlo? Come puoi prendertela con un ex malato di cancro? Andrai all’inferno, caro David. Più o meno così dicevano i suoi detrattori più benevoli. I più cattivi accusavano il cronista di essere un bastian contrario per interesse.

Aveva ragione lui, ovviamente: alla fine della fiera Armstrong è stato squalificato a vita dal mondo del ciclismo, i sette Tour vinti gli sono stati revocati e, in una drammatica serata davanti a Oprah Winfrey ha ammesso infine che sì, lui aveva sempre fatto uso di sostanze illecite: ormone della crescita, cortisone, eritropoietina, steroidi e testosterone. Walsh l’aveva sempre saputo, ma quando la verità è venuta a galla non ha esultato comunque. In fondo, quella conferma era la morte dei suoi sogni. L’annuncio ufficiale della fine dell’innocenza, al di là di ogni ragionevole dubbio.

Il tono un po’ astioso dell’ex innamorato pervade tutte le 420 fittissime pagine di «The Program», il libro in cui Walsh racconta i suoi anni all’inseguimento di Armstrong, edito in Italia dalla sempre sia lodata Sperling & Kupfer. Un’inchiesta vera, anzi, la storia di come si fa un’inchiesta vera: prendere nota per il futuro.

In questi giorni, al cinema, c’è anche il film di «The Program», diretto da Stephen Frears (Alta Fedeltà, Philomena), con un sorprendente Ben Foster nella parte di Armstrong. Un lavoro dal piglio documentaristico che è lo specchio del libro di Walsh: sulle pagine la storia era quella del giornalista, sulla pellicola la vicenda ruota intorno al corridore, alla sua storia, alle sue ossessioni, al suo carattere complicato. Una regia ipercinetica e una fotografia pulitissima restituiscono per immagini la storia di una disfatta, una discesa agli inferi del noir fatta di imbrogli e ricatti, ossessioni e illusioni. Menzione speciale per Guillaume Canet nella parte del mefistofelico dottor Michele Ferrari, gran maestro del doping ciclistico e non solo, con i suoi occhialoni tartaruga da italiano scaltro e i suoi tic da maestro dell’espediente e dell’imbroglio: «Ho avuto una visione para­di­siaca come quando Dio parlò a Paolo. Lacrima Chri­sti».

Le conclusioni di libro e film, comunque, sono le stesse: il mazzo è regolare perché il tavolo è truccato. Per anni l’Epo non era tracciabile nelle analisi e nei controlli, si verificava solo che non ci fosse troppo ossigeno nel sangue. Una rete dalle maglie troppo ampie perché tutto potesse essere controllabile, e infatti Armstrong per anni ha ripetuto in giro che lui non era mai «risultato positivo ad alcun controllo». Cosa ben diversa rispetto al dire che non aveva mai fatto uso di sostanze dopanti. Una questione di sfumature: tecnicamente lui non mentiva, eludeva, passava oltre. Il resto lo facevano i dirigenti del suo team, costruendo una narrazione eroica intorno a lui e, contemporaneamente, escludendo ogni voce contraria. Colpisce, in tutto questo, il clima da caserma tra i ciclisti: nessuno parlava, farlo voleva dire danneggiare tutto il movimento. E’ lo stesso Foster/Armstrong, a un certo punto, a dire la verità: «Non è facile vincere una gara in cui ci sono 180 atleti dopati». Così fan tutti, signora mia, e noi che siamo? I più fessi?

Rispetto al libro, nel film scompare una figura fondamentale, quella di Sandro Donati, ex allenatore della nazionale italiana di atletica leggera. Fu lui a spiegare a Walsh i meccanismi malati (clinicamente) dello sport. Ed è sua la citazione che serve a spiegare come stanno le cose in realtà: «Seguo le Olimpiadi, ma non mi sforzo più di ricordare i nomi degli atleti. E’ come il teatro, che però preferisco, perché lì il rapporto tra attore e spettatore è chiaro. Nel teatro dello sport, invece, fingono entrambi che tutto sia vero».

Walsh è deluso, capisce di aver vissuto in una finzione per gran parte della propria carriera, ma non per questo smette di fare il giornalista, quasi un pistarolo in fin dei conti: «Chiediti sempre che cosa ci hanno fatto con l’oro Giuseppe e Maria». Fossero stati ciclisti ci avrebbero comprato il doping.

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