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Joe Frazier, una vita all’ombra di Muhammad Ali

7 Novembre 2021

A dieci anni dalla morte, causata da un fulmineo tumore al fegato, qualsiasi ricordo di Joe Frazier non può che passare per la strettoia che conduce a Muhammad Ali. Informato del decesso il 7 novembre 2011, e lui stesso quasi paralizzato dal morbo di Parkinson che l’avrebbe ucciso meno di cinque anni dopo, Ali si spese in un sincero elogio dell’antico rivale, tributandogli rispetto e ammirazione, due sentimenti che in vita Smokin’ Joe non percepì mai dal più acclamato avversario.

Muhammad Ali al funerale di Joe Frazier

Per quanto il tempo avesse smussato gli spigoli più acuti, la relazione fra i due era rimasta problematica, controversa e segnata da un’incomprensione destinata a non riconciliarsi. La ruggine risaliva agli stupefacenti anni ’70, all’epoca in cui la categoria dei pesi massimi era popolata da un ristretto manipolo di personaggi di ineguagliata levatura, che fecero della boxe uno degli sport più seguiti del pianeta. Nel 1967, quando Muhammad Ali fu squalificato e privato della corona per aver rifiutato di andare a combattere in Vietnam, Frazier era il primo della lista e l’anno seguente si laureò campione del mondo ai danni di Buster Mathis, l’unico da cui aveva perso da dilettante. Fu allora che cominciò il tormentato e turbolento rapporto con Ali. Quest’ultimo si definiva il “campione del popolo” e legioni di neri lo adoravano. Affermava, a ragione, che nessuno l’aveva mai battuto e poteva attribuire il suo bando alla vendetta dei bianchi, che l’avevano punito per la sua adesione alla Nation of Islam, per la sua conversione religiosa, per aver ripudiato Cassius Clay, il suo “nome da schiavo”, per il suo appoggio al movimento per l’emancipazione degli afro-americani. Dal punto di vista caratteriale, tecnico, politico e sociale, il contrasto non poteva essere più stridente: Ali aveva la parlantina sciolta e una personalità istrionica, Frazier rispondeva a monosillabi e non accendeva la fantasia degli appassionati; The Greatest volteggiava come una farfalla e pungeva come un’ape, Smokin’ Joe incedeva a capo chino e sbuffava come un bisonte sino a che i guantoni non fumavano nel vortice del combattimento; il primo era una spina nel fianco dell’establishment bianco, il secondo espresse il suo sostegno all’impegno militare nel Sud-est asiatico come un atto di patriottismo [1].

In principio, Frazier non esitò a finanziare Ali, che non poteva combattere, che aveva perso tutti i contratti pubblicitari e che doveva accontentarsi di quello che guadagnava parlando nei college della sua obiezione di coscienza alla guerra, dei diritti civili e della sua fede religiosa. Tale comprensione derivava dal fatto che Frazier ricordava bene come l’ex campione Floyd Patterson fosse solito liquidarlo ai tempi in cui pochi dollari avrebbero fatto la differenza fra mangiare e digiunare [2]. Non di rado, Frazier e Ali uscivano insieme in auto. Sceglievano una vecchia carretta per non esser riconosciuti e giravano per la città facendo lunghe conversazioni. Ali gli parlava del suo impegno per il popolo di colore e della Nation of Islam, senza riscontrare alcun interesse. Frazier era un devoto battista, non credeva nel separatismo razziale propugnato dai musulmani neri e non avrebbe mai accettato che la Nation of Islam gestisse le sue borse, come faceva con quelle di Ali. Eppure, permaneva uno strato di diffidenza. Nel 1970, durante un lungo viaggio verso New York e mentre i rapporti erano più distesi del solito, Ali si propose come sparring partner per un paio di centinaia di dollari a settimana. Frazier restò scettico e lasciò cadere la proposta: chi sarebbe stato lo sparring partner di chi? [3]

Le polveri si accesero quando Ali ottenne il permesso di tornare sul ring e fu organizzato il “match del secolo”: per la prima volta nella storia il titolo mondiale sarebbe stato messo in palio fra due pugili invitti. Come pronosticato da Ali, che argutamente aveva dichiarato di vedere una montagna di soldi tutte le volte che guardava Frazier, la borsa raggiunse livelli mai toccati e i due pugili si spartirono la bellezza di cinque milioni di dollari. Se lo strabiliante giro d’affari raggiunse l’esorbitante cifra di 30 milioni di dollari, molto fu dovuto alla solita campagna propagandistica orchestrata da Ali, che si eresse a paladino degli afro-americani, esacerbò le differenze con Frazier e lo perseguitò col nomignolo di “zio Tom”. Benché nel libro “La capanna dello zio Tom”, la scrittrice Harriet Beecher Stowe avesse infuso nel personaggio principale i tratti di un autentico eroismo cristiano, negli anni l’espressione si era mutata in un terribile epiteto con cui si soleva descrivere «un negro servile, sottomesso e ipocrita, che è disposto ad adattarsi alla struttura del potere bianco e a occupare un posto subordinato nella società americana» [4].

Pur con un pollice fratturato, Frazier vinse l’oro olimpico battendo in finale il tedesco Hans Huber

Era un insulto che Frazier non poteva digerire. Cassius Clay era nato nel 1942 a Louisville nel Kentucky, uno stato che non aveva aderito alla Confederazione durante la Guerra civile americana e dove la segregazione era generalmente applicata senza le punte di estrema ferocia del profondo sud. Il padre Cassius senior si guadagnava da vivere come decoratore e pittore e la madre Odessa prestava saltuariamente servizio come donna delle pulizie: non navigavano nell’oro ma avevano abbastanza denaro per nutrire e vestire adeguatamente i due figli. A differenza di molti pugili provenienti dai bassifondi, che avevano varcato la porta di una palestra per reazione alle mortificazioni subite da bambini, Ali e il fratello non avevano mai dovuto assistere al fallimento dei propri genitori [5]. Di due anni più giovane, Frazier era invece originario della Carolina del Sud, dove il padre lavorava come mezzadro un infame appezzamento di terra, che non poteva alimentare i suoi dodici figli [6]. La fame insistente e giornaliera era una sensazione con cui Joe aveva convissuto anche dopo essersi trasferito a Philadelphia, anche dopo aver conquistato l’oro ai Giochi di Tokyo del 1964, mentre scalava faticosamente il ranking dei pesi massimi e accettava i più disparati lavori per mettere insieme il pranzo e la cena. Frazier sentiva intimamente di essere più “negro” di Ali, di aver sofferto le violenze e le ingiustizie cui gli afro-americani erano soggetti in modo assai più acuto di Ali. Per quanto non avesse intrapreso alcuna crociata politico-sociale, non poteva tollerare di essere descritto come l’amico dei bianchi oppressori, non poteva accettare che i suoi figli venissero canzonati a scuola perché Ali aveva detto che il padre era uno “scimmione” [7]: l’astio era tale che in qualche occasione avevano cercato di menarsi anche in televisione.

Vero è che Frazier non aveva mai accettato il cambio di nome di Ali, continuava a chiamarlo Cassius Clay, negando il percorso di affermazione e di liberazione interiore che era simboleggiato dal nuovo battesimo. Eppure, i neri che in maggioranza parteggiavano per Ali, e lo stesso Ali che trattava con disprezzo il suo avversario, non si fermarono mai a riflettere sulla crudele ironia insita nelle offese rivolte a Frazier. Erano gli stessi insulti con cui per secoli i bianchi avevano ridicolizzato, vittimizzato e violentato i neri, convincendoli che la loro condizione di subalternità era iscritta nelle leggi di natura.

Frazier era inoltre sopraffatto dal carisma del rivale, dalla sua scioltezza verbale, dalla disinvoltura con cui ipnotizzava gli interlocutori, dall’abilità teatrale con cui incantava i bianchi. Avrebbe voluto tenergli testa, avrebbe voluto esser capace di rispondergli per le rime, ma tutto quello che sapeva rispondere erano minacce e battute grevi. Fu emblematica la vicenda del film “Rocky”, uscito nel 1976: Sylvester Stallone aveva forgiato il suo personaggio sulla figura di Smokin’ Joe, sul suo stile grezzo e sulla sua incrollabile determinazione. Anche Balboa viveva nella città dell’amore fraterno, veniva dal ghetto ed era un rifiuto della società, cui il campione Apollo Creed, per avvenenza e caratteristiche tecniche assimilabile a Muhammad Ali, concedeva un’insperata chance per il titolo. Stallone attinse persino al passato di Frazier come operaio dei macelli, nella sequenza in cui Balboa prende a pugni un quarto di bue, e chiese e ottenne che Frazier accettasse di interpretare se stesso nella pellicola. Tuttavia, l’anno successivo, fu Muhammad Ali a fare coppia con l’attore italo-americano in una gag durante la cerimonia degli Oscar.

La rivista “Time” affidò allo scrittore Norman Mailer il resoconto del match, corredandolo con le fotografie scattate da Frank Sinatra

Frazier vinse alla quindicesima ripresa il match del secolo del marzo 1971, ma tutte le stelle hollywodiane che affollavano il Madison Square Garden erano accorse per Ali e Joyce Carol Oates individua proprio nella sconfitta contro Frazier il più grande incontro di Ali e cita il primo solo per accostarlo al secondo [8]. Lo stesso copione seguì il terzo capitolo della saga fra i due pugili, il celebre “Thrilla in Manila” che il dittatore Ferdinando Marcos volle organizzare nelle Filippine e che vide prevalere Ali nel match che schiere di osservatori ed esperti hanno considerato il più brutale e selvaggio della storia della boxe, quello che Ali in persona definì l’esperienza più vicina alla morte che avesse mai provato. Ali rubò la scena, ricoprì d’insulti il rivale e fu lui che ricevette da Imelda Marcos, la moglie del despota filippino, l’invito a ballare al ricevimento dopo il match, dovendo però rinunciarvi tanto era malconcio alla fine delle quattordici riprese.

Frazier dimostrò di non aver sotterrato l’ascia di guerra neanche quando Ali era ormai stato trasformato in una specie di santino dall’America benpensante. Allorché il barcollante e tremolante Ali accese il tripode in mondovisione alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, Frazier non ebbe paura di sortirsene con commenti impopolari e disse che se avesse salito la scalinata con l’ex rivale l’avrebbe volentieri spinto nel braciere. Né mancò di evidenziare malignamente l’incipiente infermità di Ali, che aveva già cominciato a perdere la lotta con il Parkinson [9]. Frazier non accolse le scuse che ambasciatori e pacieri gli recapitavano periodicamente da parte di Ali, e peraltro non ebbe mai la soddisfazione di sentirsele porgere direttamente. Non valsero a smuovere Frazier neanche le parole al miele che Ali gli rivolse dalle pagine del New York Times nel 2001, o nel 2002 l’invito a percorrere insieme il red carpet in occasione della premiere del film Ali: Smokin’ Joe ringhiò che se quel figlio di buona donna voleva fare la pace doveva venire a scusarsi di persona [10].

Il dileggio e la derisione in favore di telecamera avevano guadagnato a entrambi montagne di quattrini, ma il livore che aveva accumulato Joe Frazier non poteva essere cancellato da nessuna somma di denaro.

 

[1] Kaliss, G., Ali–Frazier 1: Black Gladiators, White Promoters, and the Economics of Big-Time Boxing, The International Journal of the History of Sport, 2017, Vol. 34, n. 11, 1003–1019

[2] Kram, M., Smokin’ Joe: The Life of Joe Frazier, Ecco Pr, 2019

[3] Ibidem

[4] Cassara, E., The rehabilitation of uncle Tom: significant themes in Mrs. Stowe’s antislavery novel, CLA Journal, Vol. 17, n. 2

[5] Remnick, D., Il re del mondo. La vera storia di Cassius Clay, alias Muhammad Ali, Feltrinelli, 2019

[6] Kaliss, G., Op. cit.

[7] Kram, M., Op. cit.

[8] Oates, J.C., Sulla boxe, 66thand2nd, 2015

[9] Kram, G., Op. cit.

[10] Ibidem

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