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Il valore dei numeri due

26 Marzo 2020

Ultimamente tutti scriviamo del Coronavirus. Di quanto nuovi infetti ci sono, di quanti nuovi deceduti, della mancanza dei dispositivi di protezione individuale (i famosi DPI), delle ricerche su come si comporta questo virus, sul perché colpisce alcuni e non altri, sui possibili e potenziali farmaci per curare la malattia. Penso serva parlare anche di altro, dare modo al proprio cervello di svagarsi, staccare almeno per cinque minuti la spina da questo reality del dolore in cui siamo stati tutti catapultati. Su Twitter una decina di giorni fa Mauro De Marco, una delle tante persone che lavora per Radio DeeJay, si chiedeva se fosse “giusto o meno l’intrattenere le persone a casa nonostante il dramma vissuto da tanta altra gente”. Io dico di si. Per questo oggi, grazie al tanto tempo libero dato dal dover stare in casa (e mi raccomando, stateci) vi voglio parlare dei cosiddetti “numeri due”. Anzi, di un “numero due” che avrebbe potuto essere un indiscusso “Numero Uno” Mondiale.

Tutti conosciamo il concetto di “numero uno”: il leader, il vincente, il caposquadra, il capitano, il frontman, quello che sta sotto i riflettori e si prende gloria e prime pagine dei giornali. Pensate alle corse automobilistiche, quando un pilota diventa Campione noi siamo li a incensarlo, dimenticando spesso i “numeri due” che hanno reso possibile tutto questo: l’ingegnere che ha creato la vettura, l’aerodinamico che l’ha disegnata, i meccanici che l’hanno assemblata e preparata sulle richieste del pilota, il collaudatore che l’ha sviluppata fino a renderla la macchina più veloce. Ma del resto come canta Cesare Cremonini, “in questo mondo di eroi, nessuno vuole essere Robin”. Nessuno vuole essere il numero due dietro le scene, quello conosciuto solo in ristretti ambiti specifici anche se il suo contributo è stato determinante per raggiungere la gloria di cui altri, sotto i riflettori, si stanno beando. Un po’ come i tanti medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario, persone sconosciute che stanno lottando contro questo virus senza ricevere interviste o rilasciare dichiarazioni o ricevere onori personali. Ma avevo detto di non voler parlare del virus, non distraiamoci.

Ad esempio, cosa mi dite se vi chiedo chi è Aldo Costa? Il suo è un nome abbastanza famoso. È stato ingegnere Ferrari dal 1995, dal 1998 diventa assistente capo progetto di Rory Byrne, l’ingegnere che progetterà la Ferrari dei record di Schumacher, quella in grado di vincere cinque mondiali di fila. Nel 2004 diventa capo progetto, nel 2006 capo Direzione Autotelaio, nel 2008 Direttore Tecnico. A lui si devono le auto vittoriose del 2007 e del 2008. Nel settembre 2011 passa alla Mercedes, dove vi rimane fino allo scorso anno: è lui a progettare l’auto che ha comandato in F1 in questi anni. E se vi chiedessi chi è Ken Miles? Probabilmente il nome vi dice qualcosa non tanto per ciò che ha fatto, quanto per il film “Le Mans ’66 – La Grande Sfida” in cui è interpretato da Christian Bale. Inglese, dopo la Seconda Guerra Mondiale inizia a correre in auto in corse locali inglesi, finché nel 1951 si trasferisce negli Stati Uniti. Anche qui inizia con gare locali guidando una MG, ottiene il primo podio nel 1952 a Stockton e la prima vittoria nel 1953 correndo a Pebble Beach. Inizia a correre anche con altre vetture in altre categorie, nel 1955 conquista una vittoria con una Maserati 150S, e nel 1956 passa a correre con una Porsche 550 arrivando poi, sulla base di questa vettura, a correre con un’auto da lui costruita, la Cooper Miles R3. Corre e vince con entrambe le auto. Nel 1957 la sua prima gara importante, una 12 Ore di Sebring: arriva nono assoluto, in coppia con Kunstle. L’anno successivo continua a usare Porsche ma anche una Jaguar D-Type, e a Sebring arriva ottavo in coppia con Jack McAfee. No, non quello dell’antivirus, del resto siamo nel 1958. Continua a migliorare finché nel 1961 vince il Campionato USAC Road Racing con una Porsche 718 RS. E qui la sua carriera svolta.

Porsche-Cooper Miles R3

Per il 1963 Miles viene contattato da Carroll Shelby per entrare nel suo team come collaudatore. Inizia correndo con le Cobra e nel 1964 fa il suo debutto alla 24 Ore di Le Mans proprio con una Cobra. Va male, si ritira. Nel 1965 Shelby viene contatto dalla Ford per sviluppare la loro GT40, che l’anno prima a Le Mans era naufragata lasciando la Ferrari a dominare incontrastata. La GT40 era l’arma che Henry Ford II voleva usare per vendicarsi della Ferrari, dopo che Enzo Ferrari aveva fatto saltare nel 1963 la trattativa per cedere la piccola azienda di Maranello al colosso americano. La Ford si rivolse a Shelby, vincitore della Le Mans nel 1959, sicura di vincere. Ma anche il 1965 si rivela avaro di soddisfazioni: Miles dopo aver vinto alla 2.000 km di Daytona, essere arrivato secondo alla 12 Ore di Sebring, terzo alla 1.000 km di Monza, si ritira a Le Mans. Tutte le GT40 si ritirano lasciando che il podio sia tutto Ferrari, anche se non con le auto ufficiali della scuderia di Maranello. Il 1966 è però il suo anno: l’auto sembra essere a posto, è velocissima, finalmente stabile, la Gt40 MkII sembra destinata a grandi cose. Infatti con essa Miles, in coppia con Ruby, vince la 24 Ore di Dytona e poi la 12 Ore di Sebring. A Le Mans corre con Denny Hulme dato che Ruby è infortunato, si deve fermare al primo giro perché a causa di uno scontro non gli si chiude la portiera, ma poco importa: alla quarta ora è già al comando della gara. Perde poi il comando ma nella notte le Ferrari si ritirano e lui torna saldamente al comando. Ford però vuole un arrivo in parata, un segno di supremazia verso la Ferrari, quindi impone a Miles di rallentare. Lui, il numero due che vorrebbe diventare il numero uno, il campione, obbedisce. La coppia “preferita” dai vertici Ford, composta da Bruce McLaren e Chris Amon è subito dietro. La terza Ford GT40 MkII guidata da Bucknum e Hutcherson li raggiunge: ecco l’arrivo in parata. Ma McLaren all’ultimo da un colpo di gas, sopravanza Miles e va a vincere. Miles, che sognava di diventare immortale, l’unico pilota in grado di vincere in un anno Daytona, Sebring e Le Mans, viene scalzato. Viene rimesso al secondo posto. Del resto lui era un collaudatore, fra i piloti ufficiali lo volle Shelby, fosse stato per la Ford avrebbero scelto un altro pilota. Deluso ma rincuorato da Shelby continua a lavorare sullo sviluppo della J-Car, quella che l’anno successivo verrà ribattezzata GT40 MkIV, anche se rispetto alle GT40 precedenti era completamente differente. Una vettura in grado di vincere le uniche due gare che corse, la 12 Ore di Sebring e la 24 Ore di Le Mans. Ma senza Ken Miles, morto durante uno dei test di sviluppo nell’agosto del 1966. Una storia incredibile la sua. Per lo più sconosciuta prima del film.

Come è incredibile la storia di Stefan Bellof, che si sviluppa quasi vent’anni dopo, negli anni ottanta. È di lui che voglio parlarvi. Su di lui non sono stati girati film di successo, almeno non ancora, quindi è comprensibile se non lo avete mai sentito nominare. Eppure è, o dovrebbe essere, molto famoso. È il pilota che stabilì il record del giro più veloce in assoluto sul vecchio tracciato del Nurburgring, un risultato inavvicinabile per oltre trent’anni. Bellof, tedesco, iniziò la sua carriera a metà degli anni settanta sui kart, passando nel 1980 alla Formula Ford nazionale vincendo il campionato al primo colpo. Nel 1981 replica, stavolta vincendo l’edizione Internazionale. Ottiene un volante per la Formula 3 nelle ultima sette gare di stagione, e alla terza partecipazione vince la gara. Vince poi altre due volte. Nel 1982 passa alla Formula 2 ottenendo subito alcune vittorie di gara e nel frattempo inizia a correre anche nel Campionato Sportprototipo. In questa categoria nel 1983 arriva quarto nel Mondiale, correndo per la squadra ufficiale Rothmans Porsche. Nel 1984 vince il titolo Mondiale. È sulla cresta dell’onda. Nel 1983 partecipa a dei provini effettuati dalla McLaren per cercare nuovi piloti per la F1: era lo stesso test a cui partecipò anche Ayrton Senna. Loro due furono i più veloci, con tempi abbastanza vicini. Bellof però era sotto contratto con la Posche ma soprattutto con la Rothmans, e quest’ultima non si sarebbe mai sognata di lasciare un asso del genere a una scuderia sponsorizzata da una diretta rivale, la Marlboro. E allora ecco il veto per la McLaren, ma un posto in F1 arriva grazie alla Tyrrell. E qui si compie una delle sue magie, quelle che soltanto un “numero due” che aspira alla gloria riesce a compiere. E lui era un numero due alla Rothmans Porsche, nonostante fosse velocissimo, perché l’asso di punta e la prima guida era pur sempre l’indiscutibile Jackie Ickx.

È il giugno del 1984, Gran Premio di Monaco. Questa gara è scolpita nella memoria degli appassionati per l’incredibile rimonta di Ayrton Senna con la Toleman, una rimonta che stava ridicolizzando tutti, compreso quell’Alain Prost che guidava la McLaren-TAG Porsche e che perse il Titolo Mondiale per solo mezzo punto nei confronti del compagno di squadra Niki Lauda. Senna rimontava girando molto più velocemente di tutti, era partito tredicesimo e ora si trovava secondo a sette secondi da Prost. Ma dietro c’era Bellof: partito ventesimo ora era terzo a venti secondi da Prost, ed era il pilota che gira più veloce in pista. Più di Senna. Poi la gara venne interrotta, e successivamente la Tyrrell venne squalificata, levando a Stefan Bellof un risultato incredibile. Ma per un giovanotto che stava scalando le gerarchie dell’automobilismo tanto velocemente quanto era veloce in pista, questo non poteva essere un modo per abbattersi. Su quella gara a Monaco circolarono parecchi pettegolezzi, soprattutto alimentati dalla stampa brasiliana che sottolineò la vicinanza di Jacky Ickx con Alain Prost, dato che entrambi correvano con motori Porsche, pettegolezzi rinfocolati quando a luglio la FISA multò Ickx per aver interrotto la gara senza aver avvisato i commissari sportivi, revocandogli anche la licenza di direttore di corsa. Ma un altro pettegolezzo un po’ sotterraneo vedeva Ickx intenzionato a bloccare la gara anche per evitare il rischio di vedere Bellof vincitore in pista e coperto di gloria, dopo che già nella scuderia Porsche nel campionato Sportprototipi gli stava erodendo terreno. Erosione che si completò proprio quell’anno, con Bellof Campione del Mondo e Ickx solo terzo. Ma la sua vera magia, l’affresco che racconta della sua grandezza è un altro. Una cosa accaduta l’anno prima, nel 1983.

Torniamo indietro di un anno, siamo in Germania, al Nürburgring. Una pista resa tristemente famosa nel 1976 per il grave incidente occorso a Niki Lauda, un circuito lungo fra i 20 e i 25 chilometri, a seconda della configurazione, che è un insieme continuo di curve e lunghissimi rettilinei, saliscendi, alberi a bordo pista, condizioni meteorologiche spesso completamente opposte ai due capi opposti della pista. Un rebus per ogni pilota. Una scommessa. Un azzardo. Nel 1983 la configurazione era di 20,832 chilometri, e a correre c’erano le Gruppo C, auto velocissime ma anche molto pericolose. Quell’anno la battaglia era fra le Porsche 956 e le Lancia LC2. L’anno prima la Lancia con la LC1 guidata da Patrese aveva quasi stabilito il record nella configurazione a 23 chilometri della pista, prima di schiantarsi. Ma nel 1983 le favorite sono le Porsche: lo squadrone tedesco schierava piloti del calibro di Jochen Mass, Derek Bell, lo stesso Bellof, il Campione del Mondo di F1 Keke Rosberg e poi lui, l’asso indiscusso delle corse a ruote coperte, Jacky Ickx, colui che al Nürburgring aveva già vinto tre volte. Ickx che era il campione in carica della categoria, avendo vinto nel 1982 davanti alla Lancia di Patrese e alla Porsche di Bell. Ickx che vincerà anche il campionato 1983, per essere poi spodestato da Bellof nel 1984. Ma torniamo al Nürburgring, maggio 1983.

La Porsche 956 di Stefan Bellof

È il 28 maggio, l’estate si avvicina ma quella mattina fa freddo. Ci sono le qualificazioni e Stefan Bellof sfodera un giro che rimarrà nella storia per oltre trent’anni: 6’11”13. Una velocità media superiore ai 200 Km/h. Per rendere l’idea il secondo tempo era stato segnato dal suo compagno di squadra Jochen Mass, più lento di 5,7 secondi. La prima delle altre, cioè delle auto diverse dalla Porsche, era la Lancia LC2 di Patrese, che siglò il tempo di 6’41”17. Trenta secondi più lenta. Sono tutti sbalorditi, per primi quelli del team Porsche. Ma Bellof rientra, dice di non essere soddisfatto, ha incontrato una vettura che lo ha rallentato e poi ha fatto alcuni errori. Chiede di montare nuove gomme per provare davvero a fare un record ma il Direttore Sportivo lo blocca: troppo rischioso. Il Direttore vuole vincere, inutile rischiare un incidente alla ricerca di un record mentre l’avversario più diretto è già distante più di trenta secondi. Il giorno seguente c’è la gara, ha piovuto, quindi la pista non è in condizioni ottimali. Ma alla partenza Bellof scappa via comunque, prende la prima posizione e crea il vuoto dietro di se. Alla sosta cede il volante al compagno Derek Bell con un vantaggio sulla seconda Porsche molto consistente. Ma sull’altra vettura sale Ickx: il pilota belga recupera lo svantaggio, supera Bell e poi guadagna un distacco di trenta secondi. Ickx riconsegna la macchina nelle mani del compagno Mass da primo in classifica. Bell rientra e la consegna a Bellof da secondo. Il tedesco rientra in pista come un furia: in quattro giri mangia tutti i trenta secondi, supera Mass e in poche curve lo semina scomparendo dalla sua vista. Intanto ha smesso di piovere.

La pista che si asciuga e i tempi sul giro che conseguentemente si abbassano sono il segno che aspettava Bellof, ancora probabilmente insoddisfatto per non aver potuto provare a fare un nuovo record il giorno prima. Rientra ai box chiedendo un cambio gomme, che ottiene. Rientra, si libera delle auto davanti, del traffico e intanto manda in temperatura gli pneumatici. Il muretto Porsche gli espone i cartelli “Slow”, tanto è inutile prendere eccessivi rischi. Il secondo, del resto, è distante un minuto e mezzo, a che serve spingere al limite? Ma a un certo punto si vede la Porsche di Bellof letteralmente catapultarsi sul rettilineo di partenza e lanciarsi in un tentativo di giro veloce. Al box Porsche probabilmente capiscono subito le intenzioni del pilota: vuole il record. Ma è impossibile, avranno pensato alla Porsche, la macchina è molto più pesante a causa del carico di benzina e poi c’è molto più traffico rispetto alle prove. Cosa vorrà fare? Cosa vuole ottenere? Lo scoprono tutti quando passa al rilevamento del primo intertempo: in condizioni di gara Bellof sta migliorando il tempo della sua stessa pole position. Alla seconda fotocellula il vantaggio è addirittura aumentato. Stefan Bellof sembra stia guidando un razzo. Finché durante un volo su un dosso la macchina si scompone un poco, atterra male su una ruota sola e finisce per schiantarsi contro il guard rail. I commissari di pista accorrono preoccupati ma il giovane tedesco esce quasi sorridendo dai rottami della macchina. La gara verrà vinta dal suo rivale Ickx, ma il record della pista resta comunque indissolubilmente suo. Ha dimostrato a tutti di poter fare la differenza, di non essere destinato a restare un “numero due”.

La vittoria del Mondiale dell’anno successivo lo proietta alla ribalta. Ma oltre che velocissimo non ha un carattere facile, e poi nello squadrone Porsche il capitano è pur sempre Ickx. Venne così allontanato dalla squadra ufficiale, passando al Team Brun dove corre sempre con le Porsche ma con il modello 956B, al posto delle nuove ufficiali 962C. A inizio settembre c’è la 1.000 Km di Spa, in testa c’è Ickx ma Bellof con una macchina più datata e teoricamente più lenta riesce a recuperare terreno, fino a raggiungerlo. Prova a sorpassarlo in uno dei punti più difficili della pista, l’Eau Rouge. Le due auto entrano affiancate, si toccano, schizzano verso l’esterno della pista. La macchina di Ickx va in testacoda e impatta col posteriore senza creare danni al pilota, ma quella di Bellof no. Esce dritta a oltre 260 Km/h, la macchina si demolisce, prende fuoco. Ickx è tra i primi a prestare soccorso ma non c’è nulla da fare: Stefan Bellof muore a Spa, prima dell’arrivo in ospedale. Un “numero due” col talento per essere l’indiscusso numero uno, ma che non ha mai potuto esserlo fino in fondo. Un talento che ha però segnato un giro record mostruoso, battuto solo nel 2018 dalla stessa Porsche in una sessione non ufficiale con la 919 Hybrid, l’auto che permise alla Casa tedesca di vincere tre Campionati Fia Wec e tre 24 Ore di Le Mans fra il 2015 e il 2017.

Ken Miles, Sefan Bellof, nomi pressoché sconosciuti al grande pubblico, oscuri alla ribalta, conosciuti solo da una parte degli appassionati, numeri due senza essere mai riusciti a diventare i front man, i numeri uno. Elementi essenziali e imprenscindibili nella costruzione di una mitologia che ha fatto la fortuna delle gare automobilistiche. Numeri due senza cui, probabilmente, non ci sarebbero state auto così forti e vincenti, o record così incredibili e audaci. Questo pezzo lo dedico a tutti i numeri due, quelli che non vengono ricordati, quelli che non ricevono mai gli onori della cronaca, quelli che non ricevono mai direttamente il premio, quelli però il cui lavoro è insostituibile per raggiungere la vittoria, quelli che contribuiscono in un modo o nell’altro a ottenere risultati che poi passeranno alla storia. Grazie, di cuore.

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