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Il cerchio di Lebron

21 Giugno 2016

Alla fine ha chiuso il cerchio. Con l’ennesima tripla doppia della sua carriera 27 punti-11 assist-11 rimbalzi, lui – passato dalla palestrina del liceo di St.Vincent-St.Mary ad Akron nell’Ohio alle arene del piano di sopra – ha portato davvero ‘a casa’ il titolo Nba. Il terzo personale, il primo per i Cavaliers di Cleveland. Il ‘mistake on the lake’, su tutte le cartine geografiche degli Stati Uniti, che da oggi, grazie a Lebron James, è un po’ meno ‘mistake’. E ha di che andare orgogliosa.

Portato per un po’ il suo talento a South Beach – giusto per lucidare al sole di Miami un paio di anelli messi al dito con la più che gentile collaborazione di Dwyane Wade e Chris Bosh – ‘The Chosen One’, ha cancellato, in una notte, tutte le frustrazioni della sua città. Mai vincente nel basket, ancorata a quella vittoria dei Browns, nel football Nfl, datata 1964. Ha sciacquato via, con un colpo di spugna, la rabbia dei suoi tifosi, finiti a bruciare la sua canotta con il 23 quando girò il muso della macchina in direzione Florida. Riconquistati, azione dopo azione, fino a inchiodare Golden State, trascinata nella Gara 7 senza domani, dopo essere finito sotto 3-1.

La più dolce e veemente delle rimonte. La più irreale – mai nessun team era risalito nelle Finals Nba da un simile baratro – di fronte alla squadra che, in stagione regolare, si è tolta lo sfizio di cancellare il record di vittorie dei Chicago Bulls di Jordan alzando l’asticella fino a 73 Doppie Vu. Di fronte al gioco da Playstation di Steph Curry – votato Mvp  del campionato all’unanimità, altro record di una stagione zeppa di primati – e del sodale Clay Thompson, senza contare il talento difensivo di Igoudala e i muscoli della stella nascente di Draymond Green.

Invece, alla fine, King James ha chiuso il cerchio. Diventando, con l’addio di Kobe, quanto di più jordanesco in circolazione. Ha chiuso il cerchio, vendicando la sconfitta dello scorso anno contro i gialli dell’Oracle Arena – rimediata senza l’apporto di Irving e Love – e pure quella contro i San Antonio Spurs, che spazzarono via, qualche annetto fa, i Cavs senza tanti complimenti. Forse la ferita più dolorosa. Ricucita a dovere.

Ora l’anello prende la via del Lago Erie, spinto dal quattro volte Mvp della Regular Season e tre volte Mvp delle Finals – con quella giocata ieri notte – che, se vorrà restare ancora un po’ sull’uscio di casa, potrebbe pure avviare una dinastia, nell’Ohio, insieme a Kyrie Irving, a comporre un duo alla Jordan-Pippen e Kevin Love, a interpretare un Horace Grant – terzo violino di quei Bulls leggendari – meno fisico ma con mano più rotonda.

Sempre che, il fenomeno di Akron – prima scelta assoluta nell’ormai lontano draft del 2003 – non ritenga di aver saldato il suo debito morale con i Cavaliers, trascinati sul tetto del mondo, per tentare un’altra missione. Come risollevare i Lakers, magari. Orfani di Bryant, fuori dai play-off, ma dal fascino infinito. Ché misurarsi con i miti del passato, remoto e recente, può essere buon pane per i denti di un Prescelto.

Uno che al debutto sui legni della Nba, alla Arco Arena di Sacramento nell’ottobre del 2003, scrisse 25 punti, 9 assist, 6 rimbalzi e 4 recuperi. Lasciando i cronisti del circo della palla arancione ad aggiornare le statistiche dei giganti: ‘His Airness’, Michael Jordan, alla prima uscita con i ‘Pro’, nella retina avversaria, di punti, ne aveva imbucati 18.

L’ultima recita – per ora – va in archivio con la ‘solita’ tripla doppia cosa che, in una Gara 7 di Finale, era riuscito solo a Jerry West e a James Worthy. Si, Lebron, il suo cerchio, l’ha bell’e chiuso.

 

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