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Dove sei andato, Joe DiMaggio?
Il 25 novembre 1914 vide la luce uno dei più grandi giocatori di baseball della storia, nella cui parabola può essere letta in controluce la vicenda dei tanti italiani che migrarono negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso
Alla vigilia del voto presidenziale, i media americani hanno criticato Kamala Harris per aver snobbato un invito della National Italian American Foundation, avanzando l’ipotesi che questo le sarebbe costato la Casa Bianca. Qualche giorno prima, Robert Allegrini, presidente dell’associazione culturale che rappresenta i quasi venti milioni di statunitensi che dichiarano origini italiane, aveva pronosticato la scelta elettorale degli italo-americani: «Quando un gruppo etnico migliora la propria condizione, i suoi componenti iniziano a preoccuparsi delle aliquote fiscali e tendono a diventare repubblicani». I nostri discendenti a stelle e strisce sono oggi sopra la media nazionale quanto a titoli di studio, qualità degli impieghi e livelli di reddito pro-capite, ma il quadro non è sempre stato così idilliaco [1].
Alla fine dell’Ottocento, quando un poverissimo pescatore lasciò l’Isola delle Femmine per cercare fortuna a San Francisco, gli italiani – specialmente se meridionali – non erano affatto i benvenuti in America. Posò rotaie e piantò chiodi per dieci centesimi l’ora fino a che poté costruirsi una piccola barca per pescare al largo del Golden Gate, come i suoi avi avevano fatto per tempo immemore nel Golfo di Carini. Dopo quattro anni, pagò il viaggio alla moglie e a Nellie, la figlia che non aveva ancora conosciuto, e con la ricongiunzione la famiglia si moltiplicò. Il 25 novembre 1914, vide la luce l’ottavo dei nove figli, che il padre – quasi del tutto inetto all’inglese – avrebbe sempre chiamato Giuseppe, ma che sarebbe stato universalmente conosciuto come Joe DiMaggio.
Come superstar del baseball e idolo di legioni di appassionati del national pastime, Joe avrebbe riscattato la povertà familiare, ma cominciò col fornire una cocente delusione al genitore, il quale si aspettava che tutti i figli l’avrebbero aiutato sul peschereccio. Joe era invece disgustato dal fetore che impregnava la barca e non sembrava vocato a nessun impiego. Per raggranellare qualche spicciolo, faceva lo strillone o imbottigliava succhi di frutta. Quei pochi soldi li spendeva con suprema parsimonia, così come le parole, di cui era ancora più avaro. Neanche la scuola gli andava a genio, con grande costernazione del patriarca, che disperava di cavare qualcosa di utile da quel figlio allampanato, che gli amici avevano ribattezzato “coscialunga”.
Né il contesto poteva aiutarlo, giacché i siciliani, bollati dal marchio dell’inferiorità, si raggruppavano in quartieri auto-reclusi – le note little italies –, che in breve si contraddistinsero per degrado e criminalità. Sul New York Times, nel 1909, si poteva leggere che il criminale italiano è una persona tesa ed eccitabile, non ladro o borseggiatore, ma accoltellatore e assassino [2]. Nel 1912, Woodrow Wilson, il leader democratico che sarebbe passato alla storia come uno dei presidenti più progressisti del secolo, descriveva la “feccia” italiana che affollava i porti orientali come «uomini dalle cui file non traspare né qualificazione o energia, né iniziativa, né intelligenza sveglia» [3].
Con altri nugoli di picciotti, Joe passava il tempo a battere una palla con una mazza, suscitando ulteriore biasimo da parte degli anziani, i quali non nutrivano nessun interesse per quello sport così yankee. Nessuno di quei ragazzi si sarebbe sognato di giocare al calcio, la recente voga che giungeva dal paesello avito: sarebbero stati più che mai associati alle detestate preferenze culturali degli immigrati dall’Europa del Sud, vanificando le già ridotte chance di integrazione nel Nuovo Mondo. La lotta per l’accettazione impegnava assiduamente i nati in America dagli immigrati italiani e, in special modo per bambini e ragazzi, gli sforzi profusi nell’impresa, costantemente a rischio di essere vanificati da banalità come una parola mal pronunciata, un paio di calzoni rammendati o una merenda difforme dai canoni alimentari dominanti, erano una costante fonte di frustrazione e di lacerante conflitto interiore. Soprattutto a scuola, la prima arena della battaglia per l’integrazione, era loro proibito di parlare in italiano, figurarsi in siciliano, e tanto era sufficiente a intrappolarli in un dilemma irresolubile: se si uniformavano agli standard del mondo esterno, tradivano i loro genitori e la loro storia; se invece respingevano i valori veicolati dalla scuola, restando fedeli alla tradizione familiare, si condannavano all’insuccesso nel sistema americano.
Ecco perché Joe giocava a baseball, e fu la sua fortuna. Attirato nella squadretta del quartiere dalla prospettiva di camicia, pantaloni e scarpe nuove, elargite da un imprenditore che voleva pubblicizzare il suo olio d’oliva, dimostrò un’inattesa predisposizione per il gioco e si mise poi in luce nei San Francisco Seals. Gli osservatori dei mitici New York Yankees ne rimasero estasiati e lo ingaggiarono per una cifra che il padre non avrebbe messo insieme in cento vite.
Col profilo affilato, i denti sporgenti e l’introversione che rasentava la sociopatia, Joe non sembrava minimamente tagliato per il glamour della “Grande Mela”, ma il talento straordinario e una severa applicazione lo proiettarono nell’olimpo dello sport. L’America intera bramava l’emergere di un salvatore cui affidarsi per intraprendere la risalita dagli abissi della Grande Depressione e un eroe del genere poteva venire solo dal baseball, che stava allora vivendo un’autentica età dell’oro e che incarnava i più profondi valori della società americana.
DiMaggio ammassò titoli nazionali e record individuali ancora oggi insuperati, ma soprattutto stregò un paese intero con l’eleganza e la solennità, con la gelosa riservatezza e lo stile impeccabile, ispirando generazioni di intellettuali e artisti, da Ernest Hemingway a Woody Allen, da Billy Joel a Madonna. L’ascesa di DiMaggio, incarnazione del “sogno americano” e perfetto esempio di assimilazione, fu un balsamo per tutti gli italo-americani, cui bastava una minima trasgressione per essere inclusi nel novero dei delinquenti incalliti. L’odioso pregiudizio era al punto radicato che ancora nel 1939, la popolarissima rivista Life, pur col patente intento di lodarlo, scriveva di lui: «Joe parla inglese senza accento ed è ben adattato alla maggior parte dei costumi americani. Non si cosparge la testa di olio d’oliva o di grasso animale, ma si liscia i capelli con l’acqua. Non puzza mai di aglio e preferisce il pollo agli spaghetti».
Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, la posizione degli italo-americani si fece scottante. Persino Giuseppe e Rosalia, i venerandi e miti genitori, furono sottoposti a limitazioni della libertà. Il messaggio era chiaro: se neanche il padre e la madre del più osannato eroe americano erano ritenuti innocui, ogni immigrato italiano poteva ritenersi indiziato d’intelligenza con il nemico nazifascista. Per dissipare ogni sospetto, DiMaggio si arruolò e fu spedito alle Hawaii, dove il fuoriclasse da 50.000 dollari all’anno divenne il sergente Joe da 50 dollari al mese.
Dopo la ferma, guidò gli Yankees ad altre quattro vittorie nelle World Series e nel 1951 declinò l’ultimo contratto da 100.000 dollari: gli acciacchi avevano intaccato il suo splendore e l’orgoglio e la sconfinata autostima gli impedirono di accettare un livello di gioco inferiore alla perfezione. Era già smisuratamente ricco e ancora di più lo diventò, mettendo all’incanto la sua stessa immagine per reclamizzare ogni tipo di prodotto.
Rifiutò invece cifre colossali per raccontare la love-story con Marilyn Monroe. La gelosia patologica di Joe, i suoi maltrattamenti e le incomprensioni reciproche abbreviarono il matrimonio fra Mr. & Mrs. America ad appena dieci mesi, ma quando la diva morì, DiMaggio solo rispose alla chiamata del coroner. Si fece carico delle esequie e si assicurò che fiori freschi adornassero quotidianamente la sua tomba.
Alla sua morte, nel marzo del 1999, il New York Times ne chiese un ricordo a Paul Simon, che l’aveva eternato con i celebri versi “Where have you gone, Joe DiMaggio?” [4]: il cantante non poté fare a meno di piangere la dignità e il feroce riserbo del campione italo-americano.
[1] Pretelli, M., L’emigrazione italiana negli Stati Uniti, il Mulino, 2011.
[2] Stella, G.A., L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, 2003.
[3] D’Eramo, M., Il maiale e il grattacielo, Feltrinelli, 2020.
[4] Nel brano “Mrs. Robinson”, incluso nella colonna sonora del film “Il laureato”, le strofe dedicate a DiMaggio sono le seguenti: “Where have you gone, Joe Di Maggio? A nation turns its lonely eyes to you” (Dove sei andato Joe DiMaggio? Una nazione volge i suoi occhi desolati verso di te).
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