Trump, il grande negoziatore, il re del deal, provò a inizio carriera anche con lo sport americano per eccellenza, il football. Lì, però, il deal non si chiuse

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Donald Trump, il “grande negoziatore” che col football americano fallì malamente

Il presidente americano non perde occasione di accreditarsi come un fuoriclasse delle trattative. A giudicare però dalle sue esperienze di imprenditore sportivo, non si può fare a meno di dubitare delle sue capacità negoziali

17 Aprile 2025

Nel 1984, poco dopo aver edificato la torre omonima a Manhattan, Donald Trump rimase colpito da un articolo su di lui per niente lusinghiero scritto dal giornalista Tony Schwartz e lo ingaggiò perché redigesse la sua biografia di ambizioso e rampante tycoon; il libro fu intitolato The art of the deal, tradotto in italiano con “L’arte di fare affari”. In The apprentice, la pellicola che descrive la vertiginosa ascesa del presidente degli Stati Uniti nel firmamento dei magnati a stelle e strisce, il giovane Trump dice al suo medico che le anfetamine gli hanno tolto l’intralcio del sonno e ora può fare affari 24 ore su 24. Nel violento e inedito attacco a Volodymyr Zelensky, andato in scena nello Studio Ovale il 28 febbraio scorso, Trump ha più volte pronunciato la parola “deal”, accusando il leader ucraino di volersi sottrarre immotivatamente all’intesa che porrebbe fine alla guerra scatenata da Putin tre anni fa. Nella caotica sarabanda di annunci e sospensioni di dazi commerciali, il presidente americano ha addirittura dichiarato che i paesi lo chiamano per “baciargli il c..o” e implorarlo di… make a deal.

Se c’è qualcosa di cui Trump va fiero, è la capacità che si attribuisce di saper fare affari e di chiudere accordi. Per lui, ogni cosa è un deal; si considera uno specialista nel fare deal e ritiene che l’abilità nel negoziare sia la qualità più importante di un presidente: in campagna elettorale, proclamò che gli USA «hanno bisogno di un leader che ha scritto The art of the deal». I principi negoziali cui si attiene, da lui stesso enunciati, sono quattro: trattare con il capo, pensare fuori dagli schemi, far pesare i rapporti di forza e seguire l’istinto. Che questi principi siano validi e che garantiscano il successo in ogni trattativa è per lo meno dubbio, così come è tutto da verificare che siano applicabili tanto al mondo degli affari che a quello della politica e della diplomazia. Soprattutto, è da stabilire se Trump sia un efficace negoziatore. A giudicare dai tentativi che compì negli anni ‘80 per entrare da protagonista nell’empireo sportivo americano, si sarebbe tentati di rispondere negativamente.

Trump con il suo mentore e avvocato Roy Cohn

Venerato dai giornali dell’alta finanza e idolatrato da intere legioni di yuppies, Trump sentiva di non riscuotere tutta l’attenzione che meritava. Nel 1983, secondo un piano d’azione che in Italia conosciamo bene, decise di comprare i New Jersey Generals e ne apprezzò subito le conseguenze: «Ho chiamato un manager per condurre un’azienda da un miliardo di dollari e i giornali non hanno scritto una riga; assumo un allenatore e mi tempestano di telefonate per intervistarmi». I Generals erano una squadra mediocre che militava nella neonata United States Football League (USFL), il cui modello di business era quanto di più semplice si potesse immaginare: occupare lo spazio di calendario lasciato libero dalla National Football League (NFL), l’assai più vetusta, prestigiosa e lucrosa lega di football del paese. Poiché la NFL si disputa da settembre a febbraio, la USFL sarebbe andata in scena in primavera e in estate, occupandone le arene e i palinsesti televisivi, e secondo i promotori in capo a una decina d’anni avrebbe potuto diventare un investimento redditizio.

Trump non perse tempo e partì subito in quarta. Per comporre il team delle cheerleader, organizzò in grande pompa una selezione alla Trump Tower, chiamando Andy Warhol fra i giudici che dovevano scegliere le ragazze più belle. Ottenne di disputare le partite casalinghe nella mitica arena dei New York Giants e con una serie di onerosi ingaggi attirò le migliori promesse in uscita dall’università e affermati campioni dalla NFL: i Generals passarono dall’essere una franchigia perdente a una vincente, anche se per due volte furono estromessi al primo turno dei playoff. Gli altri proprietari pensarono che questa inedita capacità di spesa avrebbe aumentato l’interesse intorno alla USFL, ma il nuovo arrivato covava ben altre ambizioni: il suo scopo era prendersi una fetta del colossale giro d’affari della NFL e comparire da protagonista al Super Bowl (la finale del campionato), il singolo evento sportivo più guardato dai telespettatori statunitensi.

Mentre godeva della visibilità fornitagli dai buoni risultati dei Generals, Trump tramava per andarsene. Allo scopo, chiese di incontrare Pete Rozelle, il commissioner che aveva fatto della NFL una delle leghe sportive di maggior successo al mondo. Pagò una lussuosa stanza di albergo e quando gli fu davanti lo investì come un fiume in piena. Rozelle fu schifato da un uomo che gli apparve come un bullo dalla parlantina assordante e uno sbruffone senza un briciolo di eleganza: disse che finché avesse rappresentato la NFL, Trump non avrebbe mai posseduto una squadra.

Il fallimento spinse Trump a cambiare strategia. Propose allora di entrare in rotta di collisione e di spostare la USFL in autunno, così da fare diretta concorrenza alla NFL. Gli altri proprietari tergiversarono, le spese erano elevate e i margini di profitto risicati. Formarono un comitato per valutare lo scenario e suggerirono di procrastinare la decisione, citando dei sondaggi di opinione che avevano registrato la preferenza degli appassionati per il calendario primaverile.

Trump non sentì ragioni e dichiarò che se Dio avesse voluto il football in primavera, non avrebbe creato il baseball, lo sport che in America si gioca nella bella stagione. La USFL modificò quindi la programmazione e il primo ostacolo che incontrò nell’ottobre 1986 fu la trasmissione in diretta delle partite, dato che tutti gli orari erano occupati dal campionato maggiore. Trump impose di andare avanti con una causa anti-trust da 1,7 miliardi contro la NFL e fornì la batteria di legali, capeggiata dal sulfureo Roy Cohn, l’avvocato che negli anni ‘50 era stato il consulente del senatore Joseph McCarthy nella campagna contro le presunte infiltrazioni comuniste nella società americana e che di lì a poco sarebbe stato radiato dall’albo per condotta “non etica, non professionale e, in certi casi, particolarmente riprovevole”. L’obiettivo era costringere la NFL a una fusione o, alla peggio, intascare un gigantesco risarcimento.

L’assegno di 3,76 dollari aspetta ancora di essere incassato

Il dibattimento fu un evento nazionale. A un certo punto, Trump fu accusato di pagare i camerieri e i facchini per spiare i proprietari della NFL quando alloggiavano nei suoi alberghi. Dopo 42 giorni di aula, di testimonianze controverse e di camera di consiglio, la giuria produsse una sentenza in favore della USFL, stabilendo però che le difficoltà della lega erano in gran parte il risultato delle sue proprie azioni. Fu quindi riconosciuto un misero indennizzo per un totale di tre dollari, che la USFL impugnò di fronte alla Corte Suprema. Quattro anni dopo, il pronunciamento definitivo del massimo organo giudiziario statunitense confermò la sentenza di primo grado e, a causa degli interessi legali, adeguò a 3,76 dollari quanto la NFL avrebbe dovuto pagare a compensazione dei danni procurati.

La USFL, che aveva sospeso il campionato durante il processo, non disputò più una partita. L’assegno invece è ancora custodito presso una banca di Memphis e nessuno si è mai presentato a incassarlo.

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