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da CM Punk a Hillary Clinton, il declino del sogno americano

13 Settembre 2016

Quasi completamente sconosciuto al grande pubblico italiano, l’ex wrestler CM Punk (all’anagrafe Phil Brooks da Chicago) e’ una celebrità americana unica nel suo genere.

Ex campione WWE, la federazione di wrestling più grande del pianeta, dove nel 2012 e’ riuscito nell’impresa di tenere il titolo per un anno consecutivo attorno alla vita (non accadeva dai tempi di Hulk Hogan), Brooks e’ anche apprezzato autore di fumetti per la Marvel, ospite ricorrente di numerose trasmissioni televisive di successo, protagonista su Youtube in una web-serie da lui ideata.

Per dirla con Twitter, uno da 2,6 milioni di followers.

La ragione di questo successo si spiega in parte con il carattere atipico di Brooks: un tizio che di mestiere fa il wrestler, ma che si presenta sui social come “ateo sociopatico” e in TV mentre parla di X-Men infila una citazioni filosofica dopo l’altra, negli Stati Uniti non passa certo inosservato. Un tizio destinato a dividere: chi lo apprezza per la sua sincerità e il suo parlare sempre chiaro – si tratti di politica, del suo movimentato passato o dei tanti lati oscuri del business del wrestling americano – e chi lo detesta per un modo di fare dichiaratamente arrogante (del resto il suo slogan nel wrestling e’ sempre stato best since day one – il migliore fin dal primo giorno).

Come se non bastasse, a dicembre 2014 dopo pesanti dissapori con la dirigenza WWE, Punk ha abbandonato l’assai redditizia carriera di wrestler per realizzare un sogno che, a suo dire, covava da decenni: combattere sul serio nell’ottagono della UFC la federazione di Mixed Martial Art che – benché i giornali italiani continuino ad ignorare – sta riscontrando nel mondo un’ascesa inarrestabile, prova ne sia il recente acquisto della stessa da parte di un colosso dell’intrattenimento hollywoodiano per la cifra-monster di 4 miliardi di dollari.

A 36 anni suonati, e senza alcun background in nessun tipo di lotta reale, CM Punk e’ stato raccontato dai media come l’ultima incarnazione dell’American Dream, il singolo individuo che,  contro ogni pronostico, armato solo della propria volontà, realizza il proprio sogno.

Per quasi 24 mesi – perché tanto ha richiesto l’allenamento necessario a combattere nella lega dei migliori –  la storia di Brooks ha tracimato in un crossover mediatico senza precedenti –  perché senza precedenti e’ la figura di CM Punk – trovando spazio ora nei siti specializzati, ora sui canali sportivi via cavo, ma anche sulle colonne del Chicago Tribune o in TV da Jimmy Fellon, Conan O’Brien, Marc Maron e altri nomi che a chi conosce la TV americana dicono moltissimo. Un lungo reality in cui una parte di America, attraverso le immagini di Brooks sudato e malmenato in palestra, eppure sempre pronto a rialzarsi, ha intravisto il lato di se’ che adora (al netto dei fan della disciplina, che hanno sempre visto l’affare-Punk come mero business).

Poi, sabato notte, finalmente Phil Brooks/CM Punk ha debuttato, durante l’evento UFC 203 a Cleveland.

Ed e’ stato un disastro.

Il suo avversario, il semisconosciuto e più giovane Mickey Gall, ha impiegato pochi secondi a metterlo al tappeto. Poi gli e’ saltato sopra, tempestandolo di pugni in testa e infine lo ha comodamente sottomesso con una presa al collo, obbligandolo a “cedere per dolore”, come diceva Dan Peterson su Tele+2.

Tutte le chiacchiere, le aspettative, i titoli, i tweets,  sono evaporati in poco più di due minuti: Brooks era a terra senza essere riuscito nemmeno a sfiorare il suo avversario.

In termini sportivi, e’ accaduta la stessa cosa che accadrebbe se il Chievo Verona andasse a giocare al Camp Nou senza portiere: un massacro. Eppure Brooks si e’ alzato, e grondando sangue, microfono alla mano, ha gridato al mondo di non sentirsi sconfitto, anzi. La sua storia e’ comunque la storia di un vincente, perché lui, almeno, ha avuto la forza di provarci. E il suo discorso sembra avere convinto una buona parte dell’opinione pubblica a stelle e strisce dal momento che centinaia di migliaia di persone tra ieri e oggi hanno condiviso le sue parole, come in una grande seduta motivazionale collettiva.

Ora: gli sport di combattimento sono, da sempre, grandi metafore dell’esistenza. E’ da li che devono il loro enorme successo. Dietro Ali che dopo essere stato sconfitto torna e rivince il titolo, o Tyson che dal ghetto di Brownsville arriva alla cintura nel modo più devastante possibile, c’e’ la voglia di rivalsa di tutti i poveri diavoli di questo mondo.

E’ per questo che anche la storia di Phil Brooks trascende i confini dell’Ottagono e ci mette davanti a una domanda che soprattutto in un’epoca, la nostra, dove l’insoddisfazione data dalla stagnazione sociale ci porta spesso a pensare di mollare tutto e metterci alla prova in un ambito diverso da quello dove normalmente lavoriamo, di darci una seconda occasione per provare a pareggiare i conti con la vita, prima o poi finiamo per chiederci tutti.

Davvero il solo provare basta per essere a posto con noi stessi?  Davvero e’ il tentativo, e non il risultato, quello che conta davvero?

Per buona parte dell’opinione pubblica americana, pare di si (anche se – va ripetuto – con l’eccezione di gran parte dei puristi delle MMA).

Eppure pensiamo a una storia che ha più di un punto in comune con la parabola di Brooks: quella di Rocky Balboa nel primo film della serie, vincitore dell’Oscar per miglior film e miglior regia nel 1977, quasi un film-preludio della futura America Reganiana.

La notte prima dell’incontro contro il campione Apollo Creed, lo sconosciuto e sfavoritissimo Rocky confessa alla fidanzata Adriana che il suo obiettivo non e’ vincere, ma “going the distance”, ovvero restare in piedi, fino alla fine, senza finire KO. Rocky sa di non avere alcuna possibilità contro un pugile infinitamente migliore, ma dopo essere stato mandato al tappeto dalla vita innumerevoli volte spera di rimanere in piedi almeno sul ring, per provare a se stesso di non essere un fallito.

Lo Stallone Italiano riesce nel suo intento: perde l’incontro, ma rimane in piedi e da li l’epicita’ della sua storia, una delle più iconiche rappresentazioni del Sogno Americano di tutti i tempi.

Ebbene: se Rocky fosse salito sul ring, avesse preso un sacco di botte perdendo alla prima ripresa, e alla fine, microfono alla mano, sputacchiando sangue avesse urlato “son contento lo stesso!” sarebbe stata la stessa cosa?  Probabilmente il pubblico avrebbe inseguito Stallone per strada chiedendo indietro i soldi del biglietto.

Certo, la realta’ e’ altra cosa rispetto alla finzione. Ma se io ho successo in un determinato mestiere, nel momento in cui lo cambio e dimostro di essere negato per quello nuovo tanto da farmi cacciare dopo il primo giorno di lavoro, sono a prescindere un eroe oppure semplicemente un disoccupato?

Eppure, quarant’anni dopo Rocky, con Phil Brooks, nella più infamante delle sconfitte, l’opinione pubblica americana e’ rimasta dalla sua parte, parlando di storia esemplare, di modello per la vita di tutti i giorni.

Possibile che un popolo che ha fatto della meritocrazia e dell’imperialismo il proprio marchio di fabbrica – esportato con successo in ogni angolo del mondo Occidentale – si scopra improvvisamente impregnato di etica decubertiana? Che la vittoria e perfino la sconfitta onorevole, il going the distance di Rocky Balboa, siano trascurabili dettagli?

Forse c’e’ qualcosa di tremendamente forzato in questo alone di santificazione che ha avvolto la vicenda di Phil Brooks, dall’epico inizio fino al tragicomico finale, qualcosa di tremendamente legato all’epoca che stiamo vivendo, esattamente come la parabola di Rocky era legata alla sua. La sensazione e’ che mentre la campagna per le Presidenziali entra nel vivo – una Campagna in cui i due candidati vantano l’indice di gradimento più basso nella storia dell’Unione – l’America abbia un disperato bisogno di eroi, di storie da raccontare e soprattutto raccontarsi per far finta di non vedere la realtà delle cose.

E allora va bene tutto, perfino CM Punk e il suo goffo tentativo di inventarsi fighter sulla soglia degli anta, se questa può servire a farsi coraggio, ad auto-convincersi che perfino il fallimento – il più roboante dei fallimenti – sia comunque un successo per il solo fatto di averci provato.

Un po’ come fanno i Repubblicani, quando provano a convincersi che Donald Trump sia l’uomo giusto per riportare il Paese agli antichi fasti, facendo finta di ignorare come il suo successo derivi in larga parte dalle leggi sulla bancarotta più ingiuste del pianeta.

Un po’ come fanno i Democratici, quando provano a convincersi che Hillary Clinton sia la persona giusta per cambiare il sistema – nonostante le tonnellate di denaro ricevute per decenni dai big di Wall Street – o un’icona tosta del femminismo moderno – nonostante non abbia mai battuto ciglio davanti agli scempi perpetrati dal marito a danno di decine e decine di donne.

Una nazione priva di uno story-telling convincente – ne sappiamo qualcosa in Italia – e’ una nazione destinata al declino: e non può essere un caso che negli ultimi anni le narrazioni americane più convincenti hanno avuto come protagonisti gli anti-eroi,  fosse un professore di liceo che si realizza diventando uno spacciatore di droga o un politico che dopo aver ammazzato donne e cani diventa Presidente grazie ad un complotto shakespeariano.

Così’, se nel 1977 l’American Dream era il viso sconfitto eppure fiero di Rocky Balboa, rimasto in piedi fino all’ultimo respiro, nel 2016 ha le sembianze del viso devastato di CM Punk, massacrato in cambio di un assegno da 500 mila dollari (il 95% in più del suo avversario, per una gigantesca pernacchia ai valori dello sport) e il tutto sembra un sinistro presagio per il prossimo futuro.

Forse l’unica lezione che ci lascia questa storia e’ la stessa che si ascolta nell’ultima puntata della prima stagione di True Detective per bocca di Rusty Cole (alias Matthew Mc Conaughey).

La vita e’ così breve che al massimo si diventa bravi in una cosa soltanto. Tocca sceglierla con attenzione. 

 

 

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