Mobilità

G. Rinaldini: “Sovranisti immobili, sull’auto decidono Berlino e Parigi”

16 Febbraio 2019

Intervista a Gianni Rinaldini, ex segretario generale FIOM CGIL

Negli USA General Motors ha annunciato migliaia di esuberi giustificandoli come frutto di una riorganizzazione orientata a produrre auto meno inquinanti investendo sull’elettrico. L’ex numero due di Confindustria Bombassei qualche settimana fa, in un’intervista al Sole24Ore, ammoniva che l’elettrico mette a rischio un milione di posti di lavoro in Europa, uno su tre nel settore auto. Quando si parla di auto elettrica c’è chi la vede come la soluzione di tutti i problemi e chi all’opposto come una minaccia. Per capire che cosa sta realmente succedendo e quale impatto avrà la rivoluzione dell’elettrico sul mondo del lavoro e sulla mobilità ci siamo rivolti a Gianni Rinaldini, ex segretario generale della FIOM CGIL, al timone del sindacato metalmeccanico quando Sergio Marchionne arrivò al Lingotto. Rinaldini ci ha parlato del futuro a partire da una ricostruzione storica della vicenda FIAT, da cui ovviamente non si può prescindere parlando dell’auto in Italia.

Cosa sta succedendo all’industria automobilistica?

Come sempre il settore dell’auto è un paradigma di processi più generali e nell’auto oggi siamo a un passaggio che mette insieme innovazione tecnologica, digitalizzazione, robotizzazione e comporta un profondo cambiamento del prodotto. Oggi non si può non fare i conti con la questione ambientale. Se la Cina o altri paesi asiatici, che oggi rappresentano i mercati in maggiore espansione, crescono producendo auto con le caratteristiche che abbiamo conosciuto fino a oggi non reggono sul piano ambientale. Non a caso la Cina si è buttata sull’elettrico. Cinque anni fa i cinesi hanno salvato e acquisito la Volvo, una delle aziende automobilistiche più avanzate, ereditandone anche il know how. Volvo ha annunciato che dal prossimo anno produrrà solo auto elettriche e questo avviene perché il mercato cinese ha fatto una scelta precisa, anche grazie a misure del governo che spingono in quella direzione.

Come cambia la produzione con l’elettrico?

Ovviamente ci sarà un periodo di transizione: i modelli a benzina e diesel non scompariranno da un giorno all’altro, ma assisteremo a una crescita dell’elettrico e dell’ibrido. L’elettrico cambia profondamente il prodotto e in particolare gli effetti della transizione si misureranno sulla filiera. Tieni conto che oggi l’80%-85% dell’auto è costituito dalla componentistica, ma l’auto elettrica non ha bisogno tutti i componenti necessari a produrre i modelli a combustibile. Ciò pone un problema enorme, soprattutto in un’Europa che è la patria del diesel. E perciò tutti si stanno riposizionando, dando vita a nuove alleanze e a operazioni di fusione che servono perché la transizione all’elettrico richiede investimenti consistenti. Pensa a Volkswagen e all’alleanza che ha iniziato con la Ford, un’enormità dal punto di vista delle risorse che potranno usare e con cui Volkswagen entra nel mercato USA e Ford in quello europeo. E poi ogni settimana c’è una novità. Renault-Nissan è un’altra alleanza strategica. A fine anno l’ad Carlos Ghosn è arrivato in Giappone ed è stato arrestato con l’accusa di frode fiscale, ma è chiaro che, aldilà delle accuse formali, il problema è un altro: in Giappone si giudica lo scambio di azioni tra Renault e Nissan, con cui si è suggellata l’alleanza, troppo sbilanciato sul versante francese. Insomma, come risultato finale di queste trasformazioni il prodotto auto sarà sempre più tecnologico, digitale, connesso. Poi c’è l’altro aspetto, che riguarda la ridefinizione delle forme di mobilità, ad esempio la proprietà dell’auto, l’idea che in futuro l’auto diventi un mezzo condiviso, un po’ come i taxi. E infine c’è addirittura chi già guarda oltre l’elettrico. La Toyota sta già lavorando sull’auto a idrogeno e si trova già in fase di sperimentazione.

L’Europa come reagisce a queste novità?

Discutendone. Tutti i paesi ne discutono. In Germania si discute sia di mobilità sia di elettrico. C’è una commissione con dentro governo, sindacati e industriali che se ne occupa e lo stesso succede anche in Francia. Tieni conto che i Länder sono dentro Volkswagen, così come il 15% di Peugeot è dello Stato francese (mentre il 15% è dei cinesi). In Italia invece ci si è limitati a favorire l’uscita degli Agnelli dal settore auto, ma nessuno si interessa del futuro. L’unica cosa certa è che nei prossimi due anni negli stabilimenti FIAT, con poche eccezioni, i lavoratori saranno in cassa integrazione in attesa che la proprietà decida cosa fare. Nel frattempo la cassa integrazione colpisce anche la componentistica e ieri davanti al MISE c’erano i lavoratori di Termini Imerese, dove FIAT formalmente non c’entra più, ma quello che vediamo profilarsi oggi, cioè la minaccia della chiusura, sono i cascami di scelte aziendali degli anni passati. Il risultato complessivo è che oggi, a proposito di sovranismo, all’Italia in campo industriale non rimane più quasi nulla, avendo liquidato siderurgia, elettrodomestici, per non parlare dell’auto, appunto, dove siamo a livelli imbarazzanti. CNH, Exor, la cassaforte degli Agnelli e FCA ormai sono localizzate tra Olanda, Londra e New York. Gli Agnelli hanno portato le proprie aziende all’estero, scegliendo i paesi in cui trovavano imposte più basse e regole societarie più favorevoli.

In che acque naviga la FIAT oggi?

FCA in questo momento ha due modelli che tirano: la jeep e i pick up, che vengono prodotti negli USA (in Italia è coinvolta solo Melfi), così come l’85% dei profitti viene dall’America. E’ un’azienda con alcune debolezze evidenti. Sull’elettrico non ci sono. Pochi mesi fa addirittura hanno venduto Magneti Marelli, un gioiello con 44mila dipendenti solo in Italia, incassando 6 miliardi, di cui 2 sono finiti in dividendi. Marchionne ha sempre dichiarato che non avrebbe mai venduto Magneti Marelli, ma la verità è che all’elettrico non ci credeva e FCA continua a non crederci. Anche il fatto che abbiano annunciato che nel 2020 uscirà la 500 elettrica è la dimostrazione di quanto gli interessi. L’altro elemento di debolezza è che FCA è assente in Cina e in India, dove invece sono presenti tutte le altre case automobilistiche. E’ per questo che ogni tanto sui giornali vengono fuori voci sui cinesi o i coreani che vorrebbero prendere alcuni stabilimenti italiani. Nell’ambiente tutti si chiedono che fine faranno questi impianti, così come ogni tanto emerge l’interesse di qualche gruppo straniero per marchi come Alfa e Maserati. Poi per quanto riguarda lo sviluppo dell’azienda non c’è nulla, aldilà di piani industriali che lasciano il tempo che trovano. Nel 2014 ad esempio avevano presentato un piano industriale che prevedeva la vendita di 400mila Alfa Romeo, previsione che hanno riproposto l’anno scorso, ma la realtà è che l’Alfa fa fatica a vendere i suoi modelli.

Tu come ti spieghi questo atteggiamento? Non ti sembra che la borghesia italiana ragioni un po’ come la borghesia di un paese semicoloniale, cioè: prendetevi tutto, basta che ci garantiate una rendita di posizione?

Guarda, la storia della FIAT è che la famiglia Agnelli ha deciso da tempo di uscire dall’auto e che Marchionne, che quando arrivò trovò un’azienda tecnicamente fallita, aveva come mission evitare il fallimento, che avrebbe coinvolto la famiglia, e raggiungere il pareggio di bilancio. Le condizioni erano che lui aveva carta bianca, ma gli Agnelli non avrebbero messo più un quattrino. Lui è morto prima, ma aveva già annunciato le dimissioni, proprio perché di lì a poco avrebbe annunciato il pareggio e riconsegnato le chiavi alla famiglia Agnelli lasciando loro la decisione sul da farsi. Ma è noto che loro vogliono abbandonare. Marchionne era consapevole che l’FCA da sola non poteva andare da nessuna parte e nel 2015 tentò una fusione con GM, dopo averci già provato in precedenza con Opel, che peraltro all’epoca era parte del gruppo GM. Se l’operazione fosse andata in porto la famiglia Agnelli avrebbe tenuto il 7% delle azioni. GM disse di no e Marchionne si lamentò perché l’ad di GM non aveva voluto neanche incontrarlo e reagì cercando addirittura di lanciare un’OPA ostile su GM e facendo infuriare gli americani. A seguito di quest’ultima iniziativa forse cominciarono a esserci anche problemi tra lui e John Elkann.

Forse la spiegazione è che, appena arrivato alla FIAT, Marchionne aveva giocato un brutto scherzo a GM…

Sì, nel 2000 l’allora presidente Paolo Fresco aveva fatto un accordo che prevedeva che GM sottoscrivesse una partecipazione del 20% in FIAT, con la possibilità di salire successivamente fino al 100%. Fresco spiegò poi in un’intervista che Gianni Agnelli gli aveva dato mandato di realizzare una vendita differita nel tempo, che avrebbe dovuto concretizzarsi dopo la sua morte. In quell’accordo, che dal suo punto di vista fu un capolavoro, Fresco riuscì a far inserire la famosa put option, cioè la FIAT, a partire dal 2004 aveva l’opzione di sbarazzarsi del rimanente 80% cedendolo a GM. Marchionne, che come dicevo prima aveva ereditato un’azienda tecnicamente fallita, usò quell’opzione e offrì la FIAT a GM a costo zero, ma con dentro tutti i debiti e a quel punto GM dovette pagare un miliardo e mezzo di euro al Lingotto pur di non prendersela. L’anno successivo poi Marchionne si trovò col cosiddetto ‘convertendo’ in scadenza. In pratica se la FIAT non avesse pagato i suoi debiti con le banche sarebbe diventata di loro proprietà, ma Marchionne e gli Agnelli riuscirono a mantenere il controllo del gruppo con un’altra operazione finanziaria, questa volta si chiamava equity swap, e senza mettere un quattrino. Un’acrobazia che solo alla FIAT poteva essere consentita e che solo più tardi ebbe qualche strascico giudiziario.

Il sindacato cosa può fare?

La trasformazione del prodotto di cui parlavo all’inizio, con l’auto che diventa sempre più un prodotto digitale connesso alla rete, farà saltare i tradizionali confini delle categorie sindacali, ad esempio tra metalmeccanici e lavoratori dei servizi e di altri settori e questo è un elemento di cui tenere conto. Per il resto il problema è che qui in Italia, a differenza che in Francia e in Germania, non hai una controparte. Perciò non puoi che tentare di far diventare la questione dell’auto un terreno di battaglia sindacale, ma anche di aprire un confronto a livello politico.

Quanta gente lavora nel settore auto in Italia?

Tieni conto che il rapporto tra dipendenti delle case automobilistiche e dipendenti della componentistica è di 1 a 4.

Quindi se i dati pubblicati da LaVoce.info, che l’anno scorso parlava di 87mila dipendenti nel 2017, sono corretti, vuol dire che l’auto in Italia conta quasi mezzo milione di posti di lavoro?

Non siamo lontani da quelle cifre eppure qui da noi nessuno ne parla. Se in Europa gli unici a parlarne sono i francesi e i tedeschi vuol dire che il futuro del settore lo decideranno loro. Per questo dico che in Italia si pone un problema più generale di politica industriale per il paese e o lo affrontiamo o rischiamo di essere colonizzati, anzi per certi versi già lo siamo. Invece non solo non se ne occupa il governo ‘sovranista’, ma più in generale nel dibattito politico a cui assistiamo – che definire dibattito politico è una parola grossa – la questione non viene posta da nessuno, inclusa la sinistra. Insomma il lavoro è scomparso dall’agenda. Tutti hanno accompagnato questo processo di rimozione, che comprende anche la cacciata della FIOM dagli stabilimenti FIAT. Negli impianti FCA le sedi del maggiore sindacato metalmeccanico sono state chiuse e se oggi la FIOM può presentarsi almeno alle elezioni dei rappresentanti per la sicurezza (perché dalle RSU è esclusa), è grazie a una sentenza della Corte Costituzionale. Nessuno lo dice, ma a Melfi, dove i lavoratori, dopo 10 anni di messa al bando, hanno potuto di nuovo votare i candidati RLS della FIOM, le hanno dato il 32% dei voti. Così come alla Lamborghini la FIOM ha preso l’80% dei voti. Lo ripeto: in Italia il lavoro è scomparso dalla discussione e in un paese in cui il lavoro scompare può succedere di tutto.

L’intervista è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 15 febbraio.

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