Ciclismo
Fausto Coppi. Quando nacque l’Airone
Il 15 settembre del 1919 nasceva Fausto Coppi, cento anni fa.
È vero quello che scrissero di lui: non sapeva camminare, stare al mondo come i suoi simili; sembrava un pinguino, un anatroccolo. Poteva solo salire sulla bici.
Montanelli così lo tratteggia nel giro del 1949 :”Coppi è quasi un rachitico. Soltanto il torace ha sviluppato è largo come quello di un boxeur, ma le sue braccia sono esili, la vita sottile, il profilo aguzzo di una faina. La forza di Coppi è la sua fragilità: è un’antilope e ne condivide tutte le bizze. Un fuscello può farlo scartare bruscamente”(Indro al Giro, pag.100)
Un altro scrittore- giornalista Orio Vergani che per il Corriere della Sera aveva seguito Coppi in tutta la sua formidabile carriera, in un libro bellissimo a mo’ di romanzo così ne dipinge la figura:”Fu sotto la pioggia che veniva giù mescolata alla grandine, che io vidi venire al mondo Coppi. Ne avevo visti di scalatori…ma adesso vedevo qualcosa di nuovo: aquila, rondine, alcione, non saprei come dire, che sotto alla frusta della pioggia e al tamburello della grandine, le mani alte e leggere sul manubrio, le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili,come ignorando la fatica, volava, letteralmente volava su per le due scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo”(Orio Vergani e Guido Vergani Caro Coppi pag.12).
Ha vinto tutto: cinque Giri di Italia, due Tour de France, quattro volte campioni del mondo su strada e per due volte record dell’ora, per non dire delle classiche. Se non ci fosse stata la guerra avrebbe vinto tutto quello che era in palio.
Aveva un cuore da leone;se ne accorse Biagio Cavanna il cieco che saggiava i grandi campioni: un primo conteggio portava 36 battiti in un minuto,ma erano troppo pochi per essere veri, troppo fuori dalla norma: una cosa del genere all’orbo dei corridori non era mai capitata. Così Cavanna chiese di nuovo a Coppi di conteggiare 60 secondi, ma stavolta i battiti divennero 34. Non c’era bisogno di altre misurazioni.
Cavanna allenerà Coppi anche per i suoi muscoli tipici del grande scalatore.”Da domani iniziamo a lavorare subito. Tu mi porterai farina e fagioli del campo dei tuoi genitori, io ti garantirò vitto e alloggio”lo rassicurò Cavanna.
Mentre Bartali era un calcolatore ed una vittoria o sconfitta era di per se’ programmata, Coppi aveva estro,fantasia ed era capace di fare una fuga anche di 200 chilometri e solitario scalare le più impervie montagne come quelle dell’ Izoard o il Passo dello Stelvio, il Passo Gavia , il Sestriere,il Pordoi, il Tourmalet.
Aveva classe perché non si scomponeva nella scalate proibitive, era ieratico,regale costumato nelle movenze delle ginocchia che mulinavano perfette sui pedali; in pianura era il miglior passista. Un corridore completo.
Era mite, aveva tristezza nell’anima perché non era capace di fare altro che pedalare, doveva sentire il respiro della natura,il canto degli uccelli, avvertire il silenzio delle montagne, lo scroscio della pioggia e la bianchezza della neve.
Per questo era un alieno: solo in bici era capace di mandare il suo messaggio al mondo.
Di lui era innamorato Gianni Brera che nel libro che ne costituisce la sua biografia nata anche dai racconti di Coppi così ne descrive la figura mitica : “Congegno di muscoli.La struttura morfologica di Coppi, se permettete, sembra un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta. Coppi in azione non è più un uomo, del quale trascende sempre i limiti comuni. Coppi inarcato sul manubrio è un congegno superiore, una macchina di carne e ossa che stentiamo a riconoscerci simile. Allora persino i suoi capelli che il vento relativo scompiglia, paiono esservi per un fine preciso: indicare la folle incontenibile vibrazione del moto”(Coppi ed il diavolo).
La sua vita privata fu sconvolta dall’amore per la dama bianca-Giulia Occhini- che lo amava alla follia. Si racconta che prima del campionato del mondo su strada a Lugano nel 1953 Coppi che aveva trascorso una notte d’amore con la dama bianca, desiderò che tutti la vedessero, perché a lei fu dedicata la vittoria. È così avvenne . Si disse Coppi e l’iride d’amore. Dietro a Coppi in maglia iridata c’è una donna fatale: Giulia Occhini, la Dama Bianca. Un’altra storia incomincia. La parabola di Coppi, raggiunto l’apice, incomincia a scendere.
Ebbe le sue tragedie: prima la morte del fratello Serse che segno’ per la vita il Campionissimo,poi la denuncia per adulterio del marito della dama bianca. La coppia finisce sotto processo nel marzo del 1955 ed entrambi vengono condannati, per Coppi due mesi di carcere e per la Occhini tre. La pena in seguito fu sospesa. Fu costretto a sposarsi in seconde nozze in Messico.
Morì di malaria che incredibilmente nel capodanno del 1960 non fu capita dai medici, eppure era grossolano diagnosticarla attesa la sua vacanza di caccia in Africa.Bastava il chinino.
Così scrisse Brera: “Il mondo intero piange Fausto Coppi. Gli amici si disperano per sentirsi incapaci anche di rabbia. La fatalità è stata chiaramente propiziata ma, ahimè, alla morte non v’è rimedio. Troppo intensamente aveva vissuto per poter reggere ancora alla vita. In quarant’anni ha letteralmente bruciato anche se stesso. Ha sofferto l’esistenza dei poveri e le si è ribellato con sacrifici di epica imponenza. Ha inventato il ciclismo moderno e al suo stesso epos si è immolato con la precisa coscienza di immolarsi. Dirò di Fausto Coppi che non era mai nato nel nostro paese e forse neppure nel mondo; e quando ha capito che sopravvivere a se stesso non era impossibile ma certo sconveniente, per uno come lui, con infinita tristezza ha deciso di abdicare e lasciarci. Il destino beffardo gli ha consentito di evitare il suicidio offrendogli una scappatoia impensata. E i medici, che del destino sono umili strumenti, si sono diligentemente prestati all’esecuzione.Del resto, gli eroi autentici vanno per tempo rapiti in cielo. non possono vivere tra noi, al nostro mediocre livello. Così il leggendario Fausto Coppi da Castellania”.
Orio Vergani nella cronaca della sua morte avvenuta il 2 gennaio del 1960 annotò che “il grande Airone ha chiuso le ali”.
Il mito è intatto nella storia del ciclismo: resta il suo sguardo triste e melanconico, perché era felice solo sulla bici.
Biagio Riccio
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