Infrastrutture

Le lobby che vogliono prendersi i porti italiani

12 Marzo 2019

Fiumi di inchiostro sono stati versati sulla adesione italiana, durante la prossima visita del presidente Xi Jinping, alla Belt&Road Initiative (BRI), più popolarmente conosciuta come nuova “Via della Seta”, e sugli interessi cinesi per i nostri porti, Trieste e Genova in primis. L’interesse, però, è tutt’altro che nuovo, ha solo relativamente a che fare con la BRI intesa come progetto geopolitico cinese per modificare gli equilibri atlantici e i protocolli in gestazione nei due scali sono assai diversi.

L’Autorità Portuale di Trieste firmerà un memorandum of understanding relativo al progetto Trieste Integrated Rail Hub, uno dei due inseriti dall’Italia nella lista stilata dalla commissione europea lo scorso luglio in occasione del vertice eurocinese. La cornice, quindi, sarà quella definita da Bruxelles e, in base all’accordo, i cinesi sottoscriveranno semplicemente l’interesse a finanziare il potenziamento dell’infrastruttura ferroviaria retroportuale triestina. Il presidente del porto Zeno D’Agostino ha dissipato ogni dietrologia sul porto franco triestino e chiarito che ogni potenziale investimento cinese seguirà le regole tracciate per chiunque altro.

Fra essi c’è la trattativa in fieri di China Merchant Group per l’acquisizione di Piattaforma Logistica di Trieste, società che sta realizzando l’omonimo terminal multimerce. Primo tassello, nel piano regolatore portale triestino, della realizzazione di un nuovo terminal container (Molo VIII) probabile obiettivo primario dei cinesi. Ma la cosa ha più di commerciale che di geopolitico e, se avverrà, sarà semplicemente il passaggio di mano di una concessionaria del porto di Trieste secondo le ordinarie regole che disciplinano la materia.

Sebbene la nuova diga foranea di Genova sia la seconda opera italiana inserita nella summenzionata lista, l’accordo coi cinesi annunciato dal presidente del porto di Genova Paolo Emilio Signorini avrà invece tutt’altra natura. L’Autorità Portuale costituirà con la cinese CCCC una newco che “ci aiuterà nelle fasi di appalto di alcune grandi opere del porto di Genova”. Un’iniziativa poco chiara e fuori dal perimetro tracciato da Bruxelles. Tanto da finire sotto attacco della deputata PD Raffaella Paita, che ha evidenziato l’irritualità e la possibile illiceità della scelta arbitraria da parte di un organo statale di un partner privato per la progettazione di opere di interesse pubblico.

Stessi rilievi mossi da Confcommercio-Conftrasporto, che ha inviato una lettera al Governo invitandolo “alla massima prudenza sull’accordo Italia-Cina”. La firma era quella dei presidenti Carlo Sangalli e Fabrizio Palenzona, ma gli interessi sono quelli del patron di MSC Gianluigi Aponte, ‘socio’ forte delle aderenti Federlogistica e Assarmatori (criticare il governo su un accordo economico coi cinesi per conto di un tycoon svizzero, però, stonava).

Per Aponte, alleato coi danesi di Maersk, i cinesi sono l’unica minaccia al dominio mondiale nel traffico di container, sicché ogni incursione in porti presidiati (lo sono soprattutto Genova e Trieste, ma anche Venezia, dove CCCC ha sottoposto all’Autorità Portuale il progetto di un nuovo terminal container; meno Ravenna dove CMG si sta interessando all’offshore energetico adriatico) è una stilettata.

Particolarmente sentita nel capoluogo ligure, dove MSC ha allignato. Forse per questo Toti, inusualmente silente sull’accordo con CCCC, si è precipitato a Ginevra a ‘promettere’ un secondo terminal crociere a Genova per MSC, a compensazione di un’iniziativa spinta dal sindaco e commissario per il Morandi Bucci e dal viceministro Rixi, cui il fido Signorini (ex segretario generale della Regione) si sarebbe prestato solo su pressione dei due. Che con CCCC avevano avuto a che fare in quanto aspirante ricostruttore del ponte.

Forse per questo e per il fatto che il marito, Luigi Merlo, ex assessore regionale e ex presidente del porto in quota PD, è passato prima alle dipendenze dirette di MSC e poi alla guida di Federlogistica, Paita ha stigmatizzato il protocollo sino-genovese ma non la contromossa dell’arcinemico Toti, pur essendo facile eccepire sull’impossibilità, ex lege, di assegnare due terminal (peraltro demanio statale e non regionale) per la stessa funzione a MSC, già concessionaria della Stazione Marittima esistente.

A prescindere dalla politica, quella bassa delle conventicole locali o quella alta della BRI, ai cinesi interessa il business portuale, anche in Liguria. Ma per questo, come in Adriatico, scelgono canali tradizionali. Nello specifico l’acquisizione di una quota (49%, il resto è del colosso olandese-danese APM) della società che sta costruendo e gestirà il nuovo terminal container di Vado Ligure.

Insomma, l’interesse cinese per la portualità italiana è sostanziale, ma, sebbene da essa sarebbe rafforzato, si muove in parallelo e autonomamente dalla BRI, che primariamente va inquadrata come iniziativa geopolitica. E come tale trattata. Nei fatti la Cina si sta muovendo entro limiti identici a quelli di qualunque investitore. Nel bene e nel male, ma questa è un’altra storia.

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