Infrastrutture
Piste ciclabili: la strada verso la sostenibilità e l’integrazione sociale
Si sente spesso dire che la bicicletta sia il mezzo del futuro ma, nonostante l’uomo pedali da più di 200 anni, non si vedono segnali che confermino la consapevolezza delle potenzialità delle due ruote.
Per certi versi, questo mi ricorda quando andavo a pescare con mio nonno: lanciavo la lenza molto lontano e lui mi rimproverava dicendomi che i pesci più grossi erano sotto la riva.
Forse per strada, così come sul fiume, la soluzione è più vicina di quanto si pensi.
Enzo Ferrari definì la bicicletta “la macchina perfetta: democratica ed efficiente”, affermazione lusinghiera da parte di chi ha creato i gioielli dell’automobilismo. Eppure, della bicicletta abbiamo spesso una visione limitata e parziale. È un peccato perché il mondo della mobilità dolce è pieno di piacevoli sorprese.
Nel suo report “A Bi Ci | Rapporto sull’economia della bici in Italia e sulla ciclabilità nelle città”, Legambiente ha calcolato il cosiddetto PIB, il Prodotto Interno Bici, somma della produzione di bici e accessori, delle ciclo-vacanze e dell’insieme delle esternalità positive generate dai biker. Ebbene, il PIB italiano è di 6 miliardi di euro: molti, moltissimi, il doppio del fatturato di Ferrari (con buona pace di Enzo).
L’analisi delle singole voci del rapporto ci permette di avere una visione chiara del fenomeno.
L’Italia è il maggior produttore di biciclette in UE con un market share europeo del 18%; sono legate al settore 3045 imprese e 7815 addetti. Un confronto con il comparto dell’automobile esalta l’impatto della mobilità dolce sull’occupazione: a fronte di un milione aggiuntivo di fatturato abbiamo 10 nuove assunzioni nel settore ciclistico contro le 2.5 assunzioni del settore automobilistico. Un milione di investimento in infrastrutture per la mobilità dolce genera 11 nuovi posti di lavoro contro i 7 a seguito di un pari investimento per infrastrutture automobilistiche. Se ci focalizziamo invece sul cicloturismo, i miliardi di euro di fatturato generati in Europa sono 44 dei quali 3.2 in Italia, cifra insoddisfacente se consideriamo l’importanza del nostro patrimonio culturale e paesaggistico, che sconta tuttavia una grave mancanza di infrastrutture e servizi.
La mobilità sostenibile ha però un effetto positivo e importante anche a livello locale. Uno studio di ECF (European Cyclist Federation), intitolato “Cycling and Local Economies”, dichiara che se venisse raddoppiata la quota di ciclabilità in Europa si avrebbe un aumento del fatturato dei negozi di zona di 27 miliardi di euro (dei quali 4 solamente in Italia). Per ogni punto percentuale aggiuntivo di mobilità ciclabile si ha un incremento del 0.2% di fatturato dei piccoli negozi di zona: i ciclisti comprano meno ma lo fanno più spesso, il che determina una maggiore spesa aggregata.
Consideriamo ora il tema salute: dati aggiornati ci suggeriscono che il 33% della popolazione italiana è sedentario e la sedentarietà è responsabile del 14.6% di tutti i decessi che avvengono nel nostro paese. La sedentarietà, sempre lei, pesa per 9.4 miliardi di euro, tra costi diretti e indiretti, sul sistema sanitario nazionale mentre, a livello europeo, si raggiunge la cifra di 80 miliardi di euro. Un fardello che corrisponde al 6.2% dei costi per la sanità pubblica comunitaria. I costi relativi alla sedentarietà verrebbero eliminati se tutti i cittadini pedalassero 20 minuti al giorno. Un esempio: in Francia è stato introdotto l’IKV (Indemnité Kilometrique Velo), un incentivo economico al chilometro per chi si reca al lavoro in bicicletta. I costi della manovra sono interamente coperti dal risparmio dello Stato sulle spese sanitarie.
Ora veniamo alla tematica ambientale, la più intuitiva probabilmente: inforchi la bicicletta e non produci CO2 né PM2.5 o PM10. Ma in quale misura? Quale impatto ha la scelta quotidiana della bicicletta? Immaginiamo che domani Milano passi dal 5% di mobilità ciclabile al 30% (ripartizione modale di Amsterdam). In un anno verrebbero risparmiate 75500 tonnellate di CO2, la quantità assorbita, all’incirca, da 4350 ettari di bosco, i quali corrispondono all’area compresa all’interno della circonvallazione esterna: è come se Milano ottenesse, di colpo, il parco urbano che ha sempre desiderato e la qualità dell’aria conseguente.
Ma ora, galvanizzati da questa serie di benefici ci chiediamo perché non venga costruita l’infrastruttura per promuoverla.
Le piste ciclabili italiane scontano la compresenza problematica di quattro tematiche principali: 1) la mentalità, 2) la sicurezza stradale, 3) il tessuto urbano e 4) la mancanza di fondi. Difficile additare uno di questi fattori come il principale colpevole ma interessante è chiamarli tutti al banco degli imputati.
È indubbio che l’Italia sia un paese innamorato delle quattro ruote: con 0.84 macchine per abitante è il terzo paese al mondo per numero di auto per abitante.
Anche la sicurezza stradale lascia poco spazio a interpretazioni. Solo in Lombardia ogni anno si contano, tra i ciclisti, più di 4000 feriti e 50 decessi. Uno studio condotto da Lonen Consulting riferisce che il 43% degli intervistati userebbe la bici se le infrastrutture ciclabili fossero più sicure.
Inoltre, la pista ciclabile non è un’entità a sé stante ma rientra nelle complesse dinamiche del tessuto urbano (che in Italia per caratteristiche storiche è ancor più difficoltoso e meno malleabile che all’estero). Tra il 2008 e il 2015 le infrastrutture ciclabili in Italia sono aumentate del 50% ma la percentuale dei ciclisti è rimasta immutata. Per essere efficaci, le piste ciclabili devono essere ben inserite nel contesto: continue, collegate e affiancate dalle cosiddette zone 30 km/h. Un inserimento di tracciati ciclabili senza un contesto adeguato implica solamente conflittualità tra gli utenti della strada.
Quanto all’ultimo punto dell’elenco, in generale è innegabile che siano gli interessi economici che smuovono investimenti ed opportunità. Se le piste ciclabili non si costruiscono è perché non ci sono sufficiente fondi dedicati. A Milano, ad esempio, la ricerca e lo stanziamento di questi fondi occupa 3 dei 5 anni necessari alla costruzione di un nuovo tracciato. Le piste ciclabili non hanno la priorità e viene destinata loro una piccola percentuale del budget comunale.
Manca insomma una valorizzazione economica e sociale dell’investimento in mobilità dolce: non se ne comprendono infatti le piene potenzialità.
Se si ideasse, intorno alle piste ciclabili, un circolo virtuoso che permetta di generare reddito dall’utilizzo delle stesse e se in questa rivoluzione dolce le aziende si affiancassero all’Amministrazione Pubblica per fornire i fondi necessari e acquisire visibilità sostenibile, allora la mobilità dolce potrebbe contare su fondi, strategia e rigore. Insomma, ciò che sarebbe socialmente etico rientrerebbe anche in una logica di capitale.
Infine, pare necessario soddisfare quel desiderio di capitalismo umanistico che si è iniziato a percepire in questo ultimo decennio: si fornisca allora ai privati la possibilità di contribuire alla conversione della polis verso modelli più sostenibili e si dia loro l’opportunità di guadagnare il favore del mercato grazie a questi investimenti.
Yezers, con il Team di Ricerca Piste Ciclabili, si è posto esattamente questo obiettivo e ha ideato un business model per il Comune di Milano, che gli permetta di rientrare, grazie all’apporto di capitali privati, dei 17 milioni necessari a costruire sei tracciati ciclabili. Del resto, le metropoli possono diventare il campo di prova per innovative collaborazioni pubblico-privato che definiscano l’inizio di un nuovo percorso economico.
Il lavoro del Team di Ricerca è ormai in via di definizione: dopo l’estate pubblicheremo un nuovo articolo in cui illustreremo in dettaglio la nostra proposta.
Andrea E. Ramella
Team Leader TdR Piste Ciclabili
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