Infrastrutture

“Il lavoro manuale di domani? Sarà creativo e sconfiggerà l’alienazione”

23 Maggio 2018

Il «piacere di veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse servirà a qualcuno che tu non conosci e non ti conosce». Di questo piacere parla Primo Levi, ne “La Chiave a Stella”, e proprio questo piacere è al centro di Cyclopica, esposizione aperta alla Triennale di Milano fino al prossimo 3 giugno, che raccoglie foto e video di oltre un secolo di vita della Salini Impregilo, gruppo italiano specializzato nella costruzione di grandi infrastrutture e leader globale nel “water sector” (dighe, centrali idroelettriche, sistemi idraulici).

Parallelamente alla mostra Cyclopica, è stato pubblicato un omonimo libro fotografico (edizioni Rizzoli/Mondadori Electa) che raccoglie le immagini storiche di grandi opere simbolo della modernità in tutto il mondo: dalle prime dighe realizzate in Italia nella prima metà del Novecento (Sabbioni, Morasco e altre) ai grandi progetti in Africa (dighe di Kariba, Akosombo, Gibe) e in Asia (Tarbela, Ertan), passando per la gigantesca Ferrovia Trans-Iraniana e il salvataggio dei Templi di Abu Simbel in Egitto. Ne abbiamo parlato con Stefano Cingolani, autore della prefazione al libro “Cyclopica”.

Il lavoro manuale è al centro della sua introduzione del libro dedicato a Cyclopica. Non è una visione inattuale, in un tempo in cui il lavoro in generale e il lavoro manuale in particolare sembrano meno centrali nello sviluppo dell’economia e delle società?

Il libro illustra il lavoro del Novecento e in quel secolo il lavoro dipendente e il lavoro manuale erano dominanti, tuttavia inviterei a superare barriere artificiose; fin dai primordi, fin dall’uso dei primi strumenti di lavoro, la componente intellettuale è stata determinante, dalla caccia e pesca alla pastorizia o naturalmente all’agricoltura, l’uomo ha trasformato se stesso e l’ambiente circostante con l’applicazione dell’intelletto non con funzioni solo “materiali” come se fosse una macchina. Prendiamo il mestiere di giornalista considerato lavoro intellettuale, quando ho cominciato c’era il tipografo, il correttore di bozze, il dimafonista, il grafico, la dattilografa, la segretaria, ecc. L’inviato speciale dettava gli articoli al telefono, oggi il giornalista ha assorbito tre o quattro mestieri e deve svolgere molte funzioni materiali. Se lei, più in generale, si vuol riferire al dominio della tecnica, ai robot, alla intelligenza artificiale, alle macchine che lavorano e all’uomo che ozia, le ritengo favole poetiche che contraddistinguono ogni utopia, ma non corrispondono alla realtà per lo meno a quella che conosciamo finora.

Lei è profondo conoscitore del capitalismo italiano, sia nella sua componente industriale sia in quella finanziaria. La finanziarizzazione e managerizzazione dell’industria italiana hanno accompagnato nel modo migliore lo sviluppo del sistema Italia?

Credo che in Italia ci sia stata finora poca finanziarizzazione. La banca legata al territorio funziona solo per la picola industria protetta. Lo stesso vale per la proprietà che vuole anche gestire l’azienda. Il protezionismo e la ri-nazionalizzazione non sono solo due errori, ma due illusioni. Ci vuole più finanza e più managerialità. Quando l’Italia era una grande potenza, per citare un libro di Giorgio Ruffolo, aveva banchieri che finanziavano l’intera Europa, mentre i mari erano solcati da professionisti della navigazione e dei commerci. Così Firenze teneva per la “strozza” le grandi corti europee, mentre Venezia e Genova dominavano il Mediterraneo.

Nel suo testo che accompagna Cyclopica sembra “guidato” da Primo Levi. Quanto è stato importante per la coscienza civile del nostro paese che molti intellettuali italiani del Novecento, come Levi, abbiano avuto “un lavoro vero”?

Levi ha cambiato la prospettiva: mentre era senso comune che l’icona del lavoro del Novecento fosse lo Charlot dei Tempi Moderni, Levi ha introdotto Faussone e il rapporto simbiotico con il mestiere. Il romanzo “La chiave a stella” è stato pubblicato proprio quando si diffondeva la ideologia del rifiuto del lavoro. Allora poteva essere considerata una rivolta contro “la fabbrica caserma”, poi divenne un nuovo senso comune che ha finito per logorare l’etica del lavoro. Poeti e narratori nella prima metà del Novecento lavoravano in azienda, poi fecero per lo più gli insegnanti, adesso sono protagonisti del circo mediatico-politico. Anche questa è una conseguenza della caduta del lavoro che Levi concepisce come la cosa più vicina all’essenza umana.

Cyclopica è un libro che raccoglie fotografie e immagini di grandi opere. Chi partecipa alla loro realizzazione, alla creazione di “manufatti” così grandi rispetto a un singolo uomo, può davvero sentirsi parte di un processo produttivo, ed orgoglioso di aver contribuito a realizzarlo?

Il grande e il piccolo sono relativi, e lo dimostra proprio il personaggio di Levi. Basta leggere le pagine sulla enorme gru collocata in mezzo al mare. Nelle grandi opere molto spesso il rapporto con la propria funzione è più diretto che in un grande fabbrica automatizzata. In ogni caso tutta la moderna organizzazione del lavoro, che dal modello giapponese in poi tende a superare il taylorismo, verte proprio sulla rivalutazione del mestiere e della partecipazione. Un obiettivo che non sempre riesce, ma oggi basta entrare in una fabbrica moderna per vedere che l’alienazione del lavoro “manuale” viene affrontata non solo sussumendo il lavoro nelle macchine come diceva Marx, ma restituendo all’operaio, singolo o in squadra, una funzione attiva e molto spesso creativa. Anche questo dato di fatto smentisce molti luoghi comuni. Tecnici, impiegati, ingegneri, a loro volta tendono a essere parte integrante di questo processo che si rinnova in continuazione, all’opposto di quel che avveniva nella industria fordista basata sulla standardizzazione e la ripetizione infinita della stessa funzione.

Logaritmi, robotica, etica del lavoro: come si mescolano questi elementi in un tempo di cambiamenti così radicali?

Siamo davanti alla versione contemporanea di un’applicazione antica della scienza e della tecnica che non sono destinate a soppiantare l’uomo; non sono mai stato convinto di una impostazione che risale al pensiero nichilista e antiscientifico. Il lavoro cambia proprio attraverso una continua dialettica tra manuale e intellettuale. Non è la tecnica a spiazzare l’etica del lavoro. È la cultura intesa in senso ampio; sono i pregiudizi e le ideologie negative diffuse da chi, come direbbe un noto politico italiano, non ha mai lavorato, o riduce il lavoro soltanto a uno dei tanti modi per procurarsi da vivere.

 

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