Infrastrutture

Basta Grandi opere. Come con Monti, arriva la depressione per decreto

12 Aprile 2015

Nel corpo di Graziano Del Rio si agita il fantasma di Mario Monti, uno degli uomini più depressivi del pianeta. Anche esteticamente i due sembrano virare in seppia, il tristo loden dell’uno è diventato il tristissimo impermeabile blu del novello ministro delle Infrastrutture. Pensando a quanto è corrotta l’Italia, i due hanno piazzato, a distanza di tempo, i loro sacchi di sabbia sulla collinetta della conservazione annunciando trionfanti: qui la modernità non passa!

Ricorderete la figura barbina di un presidente del Consiglio (Monti) che rinunciò a gareggiare per Roma Olimpica, con la pregevole giustificazione che questo è un Paese dove si ruba a man bassa e quindi non c’era nessuna garanzia che non lo si facesse anche per i Giochi Olimpici. Una certificazione notarile di debolezza, di un declino irreversibile, l’amara ammissione di non poter governare la macchina dello stato quando si confronta con le grandi opere, le grandi imprese, che danno la cifra culturale di un Paese, ma soprattutto l’annuncio ufficiale di un sentimento collettivo: italiani, siete un popolo di ladri e su questa certezza nulla si potrà costruire. «Cambiare verso» a questa oscena assenza di fiducia è stato uno degli obiettivi di Matteo Renzi. Il quale, come tutti sapete, ha riagguantato subito una possibile candidatura della Capitale per i Giochi 2024. Una mossa appena di buon senso.

Quando si parla di modernità, si parla inevitabilmente di grandi opere. Le grandi opere non sono solo un simbolo, rappresentano lo sviluppo culturale di una nazione, ne identificano la capacità di produzione di idee, colmano in certe occasioni un deficit strutturale accumulato negli anni. Per dire di un esempio a tutti noto: altrove non si sarebbero baloccati per decine e decine di anni con il Ponte sullo Stretto, lo avrebbero semplicemente costruito, magari dando anche una “sistematina” alla mafia già che c’erano. «Altrove» sono quei Paesi dove i fenomeni criminali o corruttivi si combattono per un tot con leggi un po’ speciali e poi con la modernità di buoni servizi sociali, con il sereno riconoscimento del merito, con la sicurezza che per chi ruba si butta via anche la chiave e altre piccole cose di civiltà.

Da noi, no. Prendiamo Del Rio. È al ministero delle Infrastrutture da un paio di minuti praticamente e ha già messo una lapide sulla speranza. Come Monti per i Giochi e proprio con le stesse motivazioni: «Basta con le Grandi Opere, solo così possiamo battere la corruzione», così a Repubblica. «Si torna all’ordinario – così ancora il ministro – alle regole semplici, europee. E faremo tutto ascoltando prima i cittadini e informandoli passo passo».  Traduzione: qui abbiamo una paura fottuta, ce la facciamo nelle mutande. Siamo in un ministero dove c’era una Cupola, dove si mangiavano letteralmente pezzi di autostrada, di ponti, di viadotti, per cui fermiamo tutto e mettiamo a posto, al massimo, i muri sbrecciati delle scuole elementari. Voi forse ridete, ma è un dramma. Ascoltate pure Del Rio. «Le uniche Grandi opere sono quelle utili, che possono essere anche riparare una scuola o mettere in sicurezza il costone di una montagna». No, gentile ministro. Queste non sono grandi opere, né tanto meno piccole. Queste sono le pre-pre-condizioni di un Paese quando vuole definirsi civile, mettere a posto le scuole, la sicurezza delle montagne, la questione idrogeologica, eccetera, eccetera. Le Grandi Opere collegano ciò che un tempo appariva come un sogno, un sogno che avrebbe risolto i problemi di molte e molte comunità di cittadini, con la speranza che tutto ciò un giorno possa tradursi in realtà. Ma da questo orecchio il ministro Del Rio neppure ci sente e ripete come un disco rotto la sua visione del mondo: «La nostra strada è un’altra, con noi finisce l’era delle grandi opere e si torna a una concezione moderna (l’età della pietra, giusto?, ndr). Dove le opere sono anche lotta al dissesto idrogeologico, la mobilità urbana, le scuole».

Brutta storia, questa, per il governo Renzi. Significa un paio di cose importanti: non avere autorevolezza, in pratica non riconoscersi la forza interna per dominare un ministero come quello delle Infrastrutture dove, fatto fuori uno come Incalza, rimane probabilmente una macchina interna assai poco gestibile o comunque gestibile a carissimo prezzo. Che vorrebbe dire: tolleranza zero. Questo passo il governo Renzi non lo vuole fare? Sembra proprio di no, dalle parole di Del Rio.  Ma questa visione ha anche un secondo aspetto drammatico. Che è il certificare, al pari di Mario Monti, la propria incapacità di fronte a processi produttivi molto intricati, che richiederebbero lotte durissime all’interno di certi ministeri. Sarebbe una buona cosa per i cittadini, sarebbe una buona cosa per l’Italia. Ci pensi, Renzi.

 

Nell’immagine di copertina, Giuliano Delrio subito dopo il giuramento come ministro delle Infrastrutture con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il Presidente del Consiglio Matteo Renzi – foto tratta dal profilo Flickr di Palazzo Chigi

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