Economia circolare
In Italia la bioeconomia vale 345 miliardi di produzione e 2 milioni di occupati
Quando parliamo di bioeconomia ci riferiamo a un’economia basata sull’uso sostenibile di risorse naturali rinnovabili e sulla loro trasformazione in beni e servizi finali o intermedi. Pertanto, comprende non solo settori tradizionali come l’agricoltura, la pesca, l’acquacoltura e la selvicoltura, ma anche settori economici molto più moderni e in via di sviluppo come quelli delle biotecnologie e delle bioenergie.
Ma quanto vale la bioeconomia nel nostro paese? In Italia il settore ha raggiunto 345 miliardi di euro di produzione e oltre 2 milioni di occupati nel 2018. Peraltro, la pandemia causata dal Coronavirus ha evidenziato ancora di più il bisogno di ripensare il modello di sviluppo economico in una logica di maggiore attenzione alla sostenibilità e al rispetto dell’ambiente. Il ruolo della bioeconomia, come sistema che usa le risorse biologiche terrestri e marine, così come gli scarti, per la produzione di beni e di energia, è molto importante. La sua natura fortemente connessa al territorio, la sua capacità di creare filiere multidisciplinari integrate nelle aree locali e di restituire, grazie a un approccio circolare, importanti nutrienti al terreno la pongono come uno dei pilastri del Green New Deal lanciato dall’Unione europea.
Nel 2018 l’insieme delle attività connesse alla bioeconomia in Italia ha generato un output pari a circa 345 miliardi di euro, occupando oltre due milioni di persone. Secondo quanto stimato dal Rapporto “La Bioeconomia in Europa”, giunto alla sua sesta edizione, redatto dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, il valore della produzione della bioeconomia nel 2018 è cresciuto di oltre 7 miliardi rispetto al 2017 (+2,2%), in particolare (ma non solo) grazie ai comparti legati alla filiera agro-alimentare.
L’Italia si posiziona così al terzo posto in termini assoluti per valore della produzione, dopo Germania (414 miliardi) e Francia (359 miliardi), e prima di Spagna (237 miliardi), Regno Unito (223 miliardi) e Polonia (133 miliardi). Anche per quanto riguarda il numero di occupati nella bioeconomia il nostro paese si posiziona terzo nel ranking, con poco più di 2 milioni di occupati, dopo la Polonia, che occupa 2,5 milioni addetti (soprattutto nel settore agricolo) e la Germania (2,1 milioni di occupati).
Un ruolo importante lo giocano anche le start-up innovative. L’aggiornamento al febbraio 2020 delle stime basate sul Registro delle Start-Up Innovative attribuisce alla bioeconomia una quota dell’8,7%, pari a 941 dei soggetti innovativi iscritti, con una continua crescita, tanto che la quota nei primi due mesi del 2020 raggiunge circa il 17%. Molte start-up della bioeconomia sono attive nella R&S e nella consulenza, comparto che, da solo, rappresenta oltre il 50% del complesso dei settori, con ben 496 start-up innovative. Subito dopo c’è il settore dell’alimentare e bevande con 119 soggetti e il mondo dell’agricoltura (con 81 start-up innovative pari all’8,6%), confermando la centralità della filiera agri-food nel mondo della bioeconomia.
Il settore dell’agro-alimentare è uno dei pilastri della bioeconomia e genera più della metà del valore della produzione e dell’occupazione e svolgendo, oltre alla funzione primaria della nutrizione e della salvaguardia della salute, un ruolo fondamentale per la protezione della biodiversità, la cura del territorio e la trasmissione dell’identità culturale. La filiera agro-alimentare risulta altamente integrata. Nel tempo si è assistito ad un suo allungamento, con l’ingresso dei paesi asiatici, degli Stati Uniti e del Brasile. Al contempo, però, si sono intensificati i legami interni all’Unione Europea.
L’Europa, così, occupa una posizione di rilievo, con una quota di valore aggiunto che confluisce nella produzione agrifood globale (Global Value Chain Income) del 16,8%, che sale al 20,4% nel caso della fase di trasformazione dell’alimentare e bevande, risultato che ci pone al vertice della classifica internazionale, davanti a Cina (18,9%) e Stati Uniti (15%).
In Italia quasi l’80% del valore aggiunto è di derivazione nazionale, considerando non soltanto gli input prodotti internamente ma anche l’apporto degli altri settori. I contributi più rilevanti arrivano dalla chimica, dalla gomma-plastica, dai prodotti in metallo, dagli intermedi in vetro/ceramica, dai prodotti in carta/cartone e in legno (sughero) e dai servizi legati al trasporto ed alla distribuzione.
Se guardiamo solo agli input interni al settore dell’alimentare e bevande, per quanto riguarda il nostro paese, il contributo domestico è pari al’80% per le materie prime agricole e sale al 95% per gli input alimentari, a testimonianza del forte radicamento della produzione alimentare a livello locale nel nostro paese.
Nell’agricoltura, silvicoltura e pesca, tra le prime quindici regioni europee per valore aggiunto ben 6 sono italiane: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Sicilia, Puglia e Campania (contro 3 regioni spagnole, quattro francesi, una olandese ed una tedesca). Registriamo il primato delle certificazioni DOP/IGP e il terzo posto mondiale in termini di quota di mercato sui prodotti del food di alta gamma.
Il sistema agro-alimentare in Italia si posiziona ai primi posti in Europa, con un peso sul totale europeo del 12% in termini di valore aggiunto e del 9% in termini di occupazione.
Il settore agricolo italiano presenta una elevata frammentazione del tessuto produttivo (la dimensione media per azienda agricola è di circa 11 ettari in Italia, contro gli oltre 60 di Francia e Germania) ed una minor superficie agricola utilizzata (12,6 milioni di ettari di SAU in Italia, mentre Francia e Spagna hanno a disposizione per l’utilizzo agricolo superfici estese circa il doppio). Il nostro sistema agricolo, inoltre, è caratterizzato da una grande varietà delle produzioni. Le imprese che si occupano della fase di trasformazione alimentare e delle bevande sono mediamente più piccole rispetto al contesto europeo, a cui si affianca un nucleo ristretto di medi e grandi operatori altamente competitivi. L’alimentare e bevande italiano si caratterizza per un’elevata diversificazione di prodotto, data dalla presenza di nicchie basate sulla ricchezza espressa dalla tradizione eno-gastronomica del paese. L’Italia è il primo paese in Europa per numero di produzioni DOP/IGP, sia sul lato food (che comprende anche le tipicità agricole) sia su quello dell’industria delle bevande, con un totale complessivo di 862 prodotti.
«L’analisi della filiera agro-alimentare mette in evidenza come il modello italiano, basato su realtà più piccole e ben radicate nei territori e nelle tradizioni locali, sia stato in grado di esprimere una forte attenzione all’innovazione coniugata ad una crescente sensibilità ambientale, elemento imprescindibile nel mondo post-pandemia», ha dichiarato Stefania Trenti di Intesa Sanpaolo.
Negli ultimi anni, infine, è fortemente aumentata la propensione all’export: a livello globale l’Italia è il sesto esportatore del settore, con una quota di mercato (calcolata a dollari correnti) che raggiunge nel 2018 il 3,9%. Il nostro paese è il terzo esportatore mondiale per l’alto di gamma alimentare con una quota pari a 5,8% (dopo Stati Uniti e Paesi Bassi).
Quanto all’innovazione, secondo i dati dell’ultima inchiesta comunitaria sull’innovazione l’Italia si colloca in seconda posizione tra i grandi player europei anche per quanto riguarda la percentuale di imprese dell’alimentare e bevande che hanno introdotto innovazioni di prodotto e di processo (49,2%).
Se guardiamo invece alla biodiversità, il nostro paese vanta una quota di superficie dedicata a bosco e molti terreni dedicati al biologico. L’Italia, infatti, ha quasi 2 milioni di ettari di terreni già convertiti o in corso di conversione al biologico, un’estensione di poco inferiore a Francia e Spagna ma in percentuale molto maggiore sulla superficie agricola utilizzata (15,2%). Le regioni più “bio” d’Italia sono Sicilia, Calabria e Puglia, che detengono il 47% dei terreni e il 53% delle aziende convertite al biologico. Inoltre, le imprese con certificazioni biologiche registrano una crescita del fatturato del 46% tra il 2008 ed il 2018, quasi doppia rispetto al +25% delle imprese senza certificazioni.
E i rifiuti? Quelli organici rappresentano una fonte importante di biomassa che deve essere opportunamente valorizzata sotto forma di biomateriali e bioenergia. A livello europeo i rifiuti agroalimentari prodotti dalla filiera ammontano a 87 milioni di tonnellate, pari a 171 kg pro- capite. Il settore che incide maggiormente è quello delle famiglie (33 milioni di tonnellate, pari al 38% del totale e a 65 kg pro-capite), segue la trasformazione industriale (24 milioni di tonnellate, pari al 28% del totale e a 48 kg pro-capite) e quindi il settore agricolo (17 milioni di tonnellate, 20% del totale della filiera e 34 kg pro-capite). Le famiglie producono in media europea 65 kg pro-capite di rifiuti organici. Germania e Italia mostrano i valori più elevati con rispettivamente 121 e 107 kg pro-capite. I rifiuti della trasformazione industriale sono pari a 48 kg per abitante e a 5,1 tonnellate per addetto a livello europeo. In Italia entrambi gli indicatori si attestano a meno della metà della media Ue (rispettivamente 15 kg pro-capite e 2 tonnellate per addetto). I rifiuti animali e vegetali vengono in larga parte riciclati: il 90% dei rifiuti trattati a livello europeo viene, infatti, riciclato e solo il 6% viene termovalorizzato, circa il 2% viene incenerito senza recupero energetico e un altro 2% viene smaltito in discarica. La maggior parte dei rifiuti organici viene riciclata sotto forma di compost; negli ultimi anni ha tuttavia acquistato rilevanza anche la produzione di biogas e di biomateriali.
La filiera agroalimentare ha un impatto significativo sia in termini di emissioni sia di consumi idrici. La produzione agricola, la trasformazione industriale, il trasporto e il consumo di cibo hanno impatti importanti sulle emissioni di gas serra. A livello europeo le emissioni complessive del comparto Agricoltura, silvicoltura e pesca nel 2018 sono state pari a 527 milioni di tonnellate di Co2 equivalente, pari al 15% del totale delle emissioni. Il comparto dell’industria alimentare ha prodotto complessivamente a livello europeo 64 milioni di tonnellate pari all’1,8% delle emissioni complessive.
L’Italia evidenzia sia una incidenza inferiore del comparto sul totale delle emissioni (12%) sia una minore intensità rispetto alla media europea (1.144 grammi per euro rispetto a 2.253 registrati a livello europeo).
Il settore agricolo, infine, è un grande utilizzatore di acqua sia a scopi irrigui che zootecnici. L’Italia si posiziona tra i paesi con la più elevata propensione all’irrigazione con una superficie irrigata sul totale della superficie agricola utilizzata pari al 20,2%.
L’adozione di politiche volte alla prevenzione, alla depurazione, al riuso e al riutilizzo, proprie dell’economia circolare, rappresentano un passaggio importante per diminuire lo stress idrico. Il settore agricolo giocherà un ruolo importante nel riuso, che oggi purtroppo risulta ancora molto limitato. La sostenibilità della filiera agroalimentare è strettamente legata sia al modello produttivo e di consumo sia alla riduzione degli sprechi e alla valorizzazione degli scarti.
La competitività e la sostenibilità dell’Europa non possono pertanto prescindere da un cambiamento graduale ma radicale dei processi produttivi e di consumo. La filiera agroalimentare può dare un contributo rilevante: fertilità dei suoli, preservazione della biodiversità, tutela degli ecosistemi sono centrali per conseguire una filiera sostenibile. Inoltre, bisogna agire su riduzione degli sprechi e valorizzazione degli scarti in una logica di riutilizzo circolare.
«La logica circolare è un fattore cruciale per lo sviluppo della bioeconomia. […] I rifiuti organici prodotti dalla filiera agroalimentare sono una fonte importante di biomassa e rappresentano una risorsa da valorizzare piuttosto che uno scarto da smaltire. La sostenibilità della filiera agroalimentare è strettamente legata sia al modello produttivo e di consumo sia alla riduzione degli sprechi e alla valorizzazione degli scarti. La dotazione di impianti e gli assetti normativi e regolamentari sono cruciali per garantire la chiusura del cerchio in modo sostenibile», ha commentato Laura Campanini di Intesa Sanpaolo.
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