Economia circolare

Imprese italiane che innovano sul sentiero dell’economia circolare

29 Giugno 2019

La transizione verso un’economia autenticamente circolare richiederà grandi sforzi da parte di imprese e centri di innovazione, ma anche un poderoso intervento del legislatore, e un profondo cambiamento di mentalità a livello individuale. Questa una delle conclusioni raggiunte dai sette speaker che hanno preso parte al tavolo “Circular Thinking: produrre e innovare per un’economia sostenibile”, tenutosi durante il Brains Day organizzato da Gli Stati Generali il 21 giugno negli spazi della Fondazione Feltrinelli. Come nella tradizione di questo giornale, si è trattato di sette intelligenze con background culturali e professionali diversi, ma accomunate da forti competenze e da una grande attenzione per i temi della sostenibilità e della circolarità: Marco Allocco, presidente di SEAcoop; Giulio Bonazzi, presidente e AD di Aquafil Group; Ilaria N. Brambilla, geografa; Paolo Buonsanti, Country EcoStruxure Transformation Manager di Schneider Electric; Alessandro Grampa, co-fondatore di Hexagro Urban Farming; Carlos Veloso dos Santos, AD di Amorim Cork Italia; Andrea Quartieri, vicepresidente di Packtin.

Bonazzi ha raccontato la storia (ormai studiata a livello internazionale) di Aquafil, produttrice di fibre sintetiche con sede ad Arco, ameno borgo trentino sul lago di Garda, ma attiva in tutto il mondo, e leader nel riciclo, attraverso un processo hi-tech sviluppato in house. «La materia prima con cui lavoriamo deriva dal petrolio, e nell’immaginario collettivo non ha nulla a che vedere con la sostenibilità – ha osservato l’imprenditore, che ha aggiunto –. La poliammide 6 tuttavia è una molecola con una proprietà straordinaria: può essere riciclata all’infinito. E noi siamo in grado di eseguire un riciclo chimico attraverso la purificazione dello scarto di nylon, facendolo tornare al monomero, che diventa la base per produrre nuovo materiale perfetto, identico a quello derivato dal petrolio».

Si dia ad Aquafil un chilo di scarto di poliammide 6 (nota ai profani con il nome di nylon 6), e il gruppo restituirà un chilo di poliammide 6 vergine rigenerabile un numero infinito di volte. Si tratta dell’Econyl, filo con cui realizzare calze da donna, giacche a vento, costumi da bagno, tappeti. A tutto vantaggio dell’ambiente, ma anche della competitività del gruppo trentino, quotato in borsa, con diciassette stabilimenti in otto paesi, e un fatturato superiore al mezzo miliardo di euro. «Non è stato facile arrivare sin qui – ha ricordato Bonazzi –. Abbiamo dovuto superare problemi tecnici complessi. E non è mancata la diffidenza del sistema finanziario e delle banche».

Da sinistra: Carlos Veloso dos Santos, Giulio Bonazzi, Paolo Buonsanti

La vicenda di Aquafil dimostra come anche in un settore tendenzialmente appannaggio dei grandi gruppi, in cui le sfide della chimica si sommano a complessità logistiche e normative imponenti, il made in Italy possa farcela. Ma solo a patto di captare prima degli altri i nuovi trend macroeconomici e di saper fare innovazione non solo di prodotto, ma anche di processo. E se Aquafil è nota per il suo futuristico Econyl, Amorim Cork punta su un materiale antico e totalmente ecologico: il sughero. In Portogallo, e in particolare nella regione dell’Alentejo, prosperano maestose sugherete, da cui Amorim ricava la materia prima per i tappi che andranno a chiudere bottiglie di Porto, Gewürztraminer o Nero d’Avola.

«Quando parlo di sughero io dico sempre che è come il maiale: non se ne butta via niente, perché tutto ciò che preleviamo dalle nostre sugherete viene poi utilizzato nel corso del processo produttivo – ha dichiarato Santos, AD di Amorim Cork Italia, con sede nel distretto del prosecco di Conegliano –. Il nostro gruppo ha la cosiddetta integrazione verticale della produzione: il 70% del nostro business riguarda i tappi, ma su cento chili di sughero solo il 30% si trasforma in tappi, il resto diventa sfrido, e con esso noi produciamo tutto ciò che può essere prodotto con questa fibra vegetale, compresa la polvere di sughero. Com’è noto il sughero non brucia, ecco perché bruciamo la polvere di sughero con le pigne (il Portogallo è un importante produttore di pinoli). Insieme, polvere e pigne sono un materiale combustibile davvero molto potente, e dalla combustione di questo mix traiamo ben il 95% del nostro fabbisogno energetico».

È un’azienda con quasi un secolo e mezzo di vita, la portoghese Amorim Cork. Nata nel 1870, quando il Portogallo era ancora una monarchia, e l’Italia era unita solo da nove anni, è una multinazionale da quasi un miliardo di fatturato, giunta alla quarta generazione. «Si tratta di un gruppo familiare quotato in borsa, che detiene il 75% dell’azienda, dal fatturato di quasi 800 milioni di euro. Ci piace considerarci un connubio tra essere umano e natura, dato che riusciamo a utilizzare la natura senza deturparla» ha osservato Santos.

Buoni propositi a parte, l’attenzione alla sostenibilità sembra costituire un tonico per la vitalità di un’impresa. Lo ha confermato nel corso della conversazione Buonsanti, manager di Schneider Electric, colosso con quartier generale a Parigi specializzato nella gestione dell’energia e dell’automazione, che ha in Italia uno dei suoi principali mercati. «Noi siamo produttori di tecnologia. Sino a qualche anno fa producevamo, ad esempio, quadri elettrici per applicazioni industriali. Nei primi anni 2000 però abbiamo capito che il tema dell’energia era fondamentale e strategico. Dovevamo imparare ad assumere un altro tipo di ruolo. Ed è stato in quel periodo che abbiamo iniziato a cambiare pelle e diventare uno specialista globale nella gestione dell’energia e dell’automazione, e a creare dei dipartimenti dedicati alla sostenibilità. Da qualche anno ormai abbiamo degli indicatori interni ed esterni per capire quanto siamo sostenibili».

Entro il 2030 la multinazionale francese ha l’obiettivo di usare solo energie rinnovabili, e l’80% entro il 2025. Un obiettivo senz’altro ambizioso, ma che può ispirare altre grandi realtà produttive. «Oggi l’umanità consuma 1,7 volte le risorse del pianeta, e nel 2050 arriverà a quattro volte. L’economia circolare è un obbligo, e un traguardo a cui tutti devono arrivare» ha detto Buonsanti, che ha poi sottolineato come gli edifici siano uno dei principali orizzonti d’intervento. «Gestire in modo intelligente gli edifici, che incidono per il 40% sul consumo energetico globale di tutto il mondo, avrebbe delle ricadute significative in termini di risparmio energetico fino al 30%. Attraverso l’IoT si può, per esempio, monitorare e controllare una struttura dal punto di vista energetico e del confort, per poi ottimizzarne il consumo».

Ma non sono soltanto i grandi e i grandissimi player dell’economia a muoversi. In un paese come l’Italia, composto soprattutto da PMI non sempre troppo propense a investire in R&D, è alquanto confortante sapere dell’esistenza di startup come Packtin. Spin-off dell’Università di Modena e Reggio Emilia, Packtin vuole affrontare diversi problemi irrisolti dell’industria agroalimentare. A cominciare da quello degli sprechi.

Il tavolo “Circular Thinking: produrre e innovare per un’economia sostenibile” durante il Brains Day

Focalizzata sulla sostenibilità anche Hexagro Urban Farming, startup con il quartier generale a Milano e Zurigo. Il suo co-fondatore Alessandro Grampa ha raccontato agli altri speaker: «la nostra startup cerca di produrre cibo senza terra e senza acqua, in qualunque tipo di spazio interno. Lavoriamo con la tecnologia aeroponica, che vede le radici direttamente all’interno di una speciale “camera d’aria”. La tecnologia è stata sviluppata dalla NASA negli anni ’80, e noi l’abbiamo ripresa. Grazie a essa è possibile produrre con il 98% d’acqua in meno, cioè con la nebulizzazione di acqua e nutrienti, e ottenere una varietà molo maggiore rispetto ai classici metodi dell’agricoltura verticale».

E dato che la natura è circolare per definizione, gli startupper di Hexagro Urban Farming si avvalgono della biomimesi. «Andiamo a recuperare dei pattern già esistenti in natura, con la consapevolezza che in natura nulla si distrugge, tutto si ricicla. Seguendo lo stesso principio abbiamo realizzato un sistema completamente modulare che permette di riportare il verde all’interno degli spazi indoor, come uffici e hotel, coltivando erbe medicinali e aromatiche». Ma, come nel caso di Packtin, anche qui l’orizzonte è anche più ambizioso: a mano a mano che le installazioni si moltiplicheranno, la startup intende costruire, nei diversi centri urbani, delle vere e proprie smart grid, per sostenere la produzione alimentare locale.

Ilaria N. Brambilla, geografa e co-autrice del saggio “Che cos’è l’economia circolare”, ha da parte sua spiegato l’evoluzione di un concetto (quello di economia circolare) di cui oggi si parla sempre di più, ma non sempre in modo accurato. «Si tratta di una nozione relativamente giovane. La prima occorrenza risale agli anni ’70, quando Walter Stahel inventa l’economia ciclica. In realtà tutto l’impianto concettuale dell’economia circolare fa grande affidamento sul concetto di sviluppo sostenibile, istituzionalizzato nel 1987 a seguito di una serie di conferenze europee, e delle Nazioni Unite, sull’ambiente».

Senza dimenticare, ovviamente, il background dello shock energetico del 1973. «L’idea di economia circolare scaturiva anche da quindici anni di presa di coscienza dell’immenso tema dell’inquinamento (pensiamo solo alla popolarità che ebbe “Primavera silenziosa”) e di quello della scarsità delle risorse, grazie soprattutto al rapporto Meadows, commissionato al MIT dal club di Roma» ha ricordato Brambilla.

Molto interessante poi il punto di vista di Marco Allocco, presidente della torinese SEAcoop, società tra professionisti specializzata in gestione, pianificazione e valutazione del territorio. Esperto di scienze forestali, Allocco ha posto l’accento sul fatto che i diversi mondi (quello dell’impresa, della finanza e dell’agricoltura) tendono a non dialogare tra loro, anche quando si parla proprio di economia circolare e sostenibilità. «Il tema del cambiamento climatico è collegato anche alla mancanza di confronto tra questi mondi. Ciascuno di noi purtroppo crede che quello che fa ricada solo sull’ambiente ristretto dove opera, senza ulteriori conseguenze. Ma non è così, naturalmente» ha sottolineato Allocco.

Un ponte tra i mondi può essere, secondo Allocco, la valutazione in termini economici delle attività dei gestori del territorio. Nello specifico «si tratta di introdurre i principi della valutazione del capitale naturale e dei servizi ecosistemici. Si tratta di una metodologia valutativa elaborata alla fine degli anni 2000 da economisti e ingegneri ambientali che sono riusciti a dare un valore economico a cose che prima non ne avevano. Ad esempio, quanto vale il paesaggio; quanto valgono, in euro, il ruolo dell’agricoltore nella gestione del territorio, la gestione forestale, la biodiversità e così via».

Allo stesso modo, è possibile determinare il valore economico dell’impatto che le imprese e le varie attività hanno sul paesaggio, sulla biodiversità o sul consumo e la qualità dell’acqua. «Il ruolo compensativo dei gestori del territorio rispetto a questi impatti può diventare la chiave di volta di un approccio innovativo all’economia circolare» sottolinea Allocco. La società che presiede, attiva dal 1982, sta andando in quella direzione: introdurre pure in Italia nuovi strumenti di valutazione del capitale naturale, sfruttando anche la recentissima creazione di norme ISO ad hoc in grado di rendere certificabile il tutto.

Da sinistra: Andrea Quartieri, Ilaria N. Brambilla, Alessandro Grampa e Marco Allocco

Fare impresa in modo sostenibile, o addirittura circolare, non è facile, e i partecipanti al tavolo lo hanno riconosciuto con una certa nettezza. Specie quando si opera in un paese, l’Italia, che non brilla per sostegno all’imprenditoria innovativa. Ne sa qualcosa Quartieri, co-fondatore di Packtin: «Passando dall’università all’impresa ci siamo scontrati con molte difficoltà di tipo burocratico di cui prima non avremmo neanche immaginato l’esistenza. Ad esempio, ora sappiamo che è assai più facile riciclare i sottoprodotti industriali dei rifiuti domestici: quando qualcosa in Italia è classificato come “rifiuto” non può essere utilizzato in alcun modo perché non esiste una normativa che lo consente».

Per Grampa è cruciale il mercato dove si va a operare, anche dal punto di vista culturale. «In Europa centrale e del nord c’è forte interesse per la nostra tecnologia, idem qui a Milano. Progressivamente cercheremo di portare la nostra filosofia anche negli uffici e negli hotel di altre regioni d’Italia. Quando nelle aziende si inizia a capire che si lavora meglio negli spazi dove c’è del verde, e dove si respira un’aria di una certa qualità, allora si innesca un desiderio di cambiamento reale».

Secondo Brambilla, per promuovere l’economia circolare l’Italia potrebbe guardare ad altri paesi europei, magari meno virtuosi del nostro in aspetti come la gestione dei rifiuti, ma dotati di strategie di lungo periodo. «Qui in Italia possiamo contare su grandi imprese, PMI e startup pronte a portare avanti dei progetti veramente innovativi e circolari. Ma in altri paesi come la Francia è stata lanciata un’intera strategia di lungo periodo per la conversione dell’intero paese verso un’economia circolare. Senza una visione politica coerente e condivisa, le aziende italiane perderanno il vantaggio che hanno in questo momento».

Oltre a una politica industriale, al secondo paese manifatturiero d’Europa servirebbe dunque una politica della circolarità. In grado di apportare, ad esempio, una concreta semplificazione normativa. «Personalmente ritengo che la legislazione sia il primo elemento su cui intervenire per favorire una transizione verso l’economia circolare – ha dichiarato Bonazzi –. Non credo, e lo dico da imprenditore, che il sistema privato sappia, in tempi congruenti con i problemi e le risorse del pianeta, correggersi da solo. Purtroppo siamo troppo orientati al profitto, specie a breve termine, e non siamo disponibili a cambiare e rischiare. E, almeno nel mio settore, i player più grandi sono anche i più resistenti al cambiamento».

Bisogna cambiare la legislazione, e poi anche la cultura. Come in Norvegia, «dove si ricicla il 97% delle bottiglie perché esiste una normativa in tal senso – ha osservato Bonazzi –. C’è un deposito sulle bottiglie, ci sono i centri di raccolta e via discorrendo. Questo ha permesso di educare le persone, che ormai sono abituate al riciclo». La sfida, ha osservato dal canto suo Buonsanti, è ad esempio quella di «far capire alle PMI il valore delle nuove tecnologie per l’Industria 4.0, il risparmio energetico, l’efficientamento. Comunicare come tutto questo sia semplice e possa essere parte di un percorso scalare è sicuramente molto importante». Oggi la connettività di un prodotto non è più un optional ma una funzionalità nativa.

La voglia di circolarità del resto c’è. Non solo in grandi città “illuminate” come Milano o Torino, ma nelle periferie rurali e montane. Come ha osservato Allocco, «c’è una grande consapevolezza tra gli imprenditori agricoli e forestali. Oggi loro sono visti solo come fornitori di prodotti, quali latte o legname; tuttavia essi svolgono anche un ruolo cruciale nella gestione del territorio. Generano servizi, esternalità positive per la comunità che non gli vengono retribuite. Individuare una modalità per pagare questi servizi li aiuterebbe a vivere meglio, permettendogli di recuperare pratiche ormai perse, territori in abbandono, foreste al collasso».

E a proposito di foreste. Un antico proverbio dice che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. In questa fase di emergenza climatica gli alberi che stanno cadendo sono parecchi, ma è anche vero che stanno crescendo nuove foreste, ovunque. «Penso che imparare a utilizzare la natura senza deturparla, come cerchiamo di fare noi, sia la chiave del futuro – ha dichiarato Santos di Amorim Cork –. D’altra parte essere considerati dai consumatori un modello di business virtuoso in un mondo che sta cambiando, in cui cresce l’attenzione nei confronti delle aziende che impattano sull’ambiente, è una leva che permette di fare la differenza».

Per Bonazzi di Aquafil la chiave del futuro è la «riprogettazione dei prodotti e dei processi. Cosa che noi stiamo iniziando a fare in modo strategico con i nostri clienti, le associazioni di settore, e collaborando con Bruxelles dal punto di vista normativo». Per l’imprenditore veneto riprogettare prodotti e processi «è il solo modo per arrivare a una vera economia circolare». E per Buonsanti di Schneider Electric «il futuro è utilizzare la tecnologia per edifici intelligenti e per fabbriche digitali, interconnesse, sensorizzate, che sfruttino le grandi quantità di dati raccolti per produrre solo ciò che serve. Fabbriche che si possono controllare anche da remoto, e flessibili nella produzione». In modo da produrre solo ciò che serve, e non sprecare – possibilmente – nulla.

 

Immagine in copertina: Pixabay

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