Clima
Uso dei terreni e cambiamenti climatici: il problema e proposte per il futuro
di Anna Laura Rassu e Jacopo Bencini
Con una conferenza stampa online seguita giovedì da circa 18.000 persone da tutto il mondo – diremmo un record, per un evento dal tema tanto specifico e complesso – il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), organismo scientifico composto da centinaia di scienziati di tutto il mondo, ha presentato un nuovo ambizioso rapporto sull’interazione tra i cambiamenti climatici ed il modo in cui noi umani utilizziamo la prima delle nostre risorse, la terra stessa, con attenzione particolare a desertificazione, degradazione del suolo, sicurezza alimentare ed al rapporto fra uso del suolo ed emissioni.
Il rapporto, redatto con la stretta collaborazione dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) e approvato nella giornata di mercoledì dalle delegazioni nazionali che compongono il panel, era stato commissionato nel 2016 come secondo in ordine di tempo dopo quello, uscito nello scorso ottobre, sulle traiettorie per rimanere entro +1,5C° gradi di riscaldamento globale medio e in questi tre anni ha visto al lavoro 107 scienziati di fama mondiale provenienti da 52 paesi, dei quali donne per il 40% e per il 53% proveniente da paesi in via di sviluppo. Il gruppo dei 107, per la prima volta nella storia non a maggioranza occidentale, in questi anni ha vagliato e confrontato più di 7000 studi scientifici sul tema, accettando e commentando più di 28.000 commenti di revisione da parte di altri membri della comunità scientifica globale e delle delegazioni governative incaricate di seguire il processo. Il risultato è uno studio ricco di analisi, spunti e proposte di politiche articolato in sette macro-temi, pensato sì per la comunità scientifica, ma soprattutto per la più ampia comunità politica globale, nella speranza che i suoi contenuti possano ricevere la stessa attenzione data al precedente report da parte di governi e istituzioni intergovernative verso un 2030, e poi un 2050, non così lontani.
Messaggio chiave dell’intero lavoro è la stretta sinergia, o concatenazione, fra l’uso del suolo e gli effetti nefasti dovuti ai cambiamenti climatici: come “usiamo” il pianeta può essere parte della soluzione se politiche di sostenibilità climatica, sociale, ambientale verranno veramente messe in atto. Ad oggi, mantenendo le politiche attuali sull’uso di suolo, esso rischia invece di divenire sempre più parte del problema, nonostante quello che sarebbe un naturale ruolo di catalizzatore della presenza di CO2 nell’atmosfera. Rispetto all’effettiva importanza dei terreni per la vita umana ed il loro utilizzo complessivo, i dati ci parlano di un pianeta oggi altamente antropizzato ed inestricabilmente legato al nostro modello di vita nella corsa verso il baratro. Le attività di noi esseri umani insistono sul 70% delle superfici emerse non ghiacciate (principalmente per la produzione di cibo, mangimi e pascoli, fibre ed energia) e un quarto delle stesse risulta oggi in condizione di degrado ambientale.
Se da un lato terreni già degradati riescono con più difficoltà ad assorbire la CO2 presente nell’atmosfera, quindi vanificando il proprio potenziale mitigante, dall’altro gli effetti dei cambiamenti climatici causati da più alte quantità di CO2 ed altri climalteranti nell’atmosfera – quali surriscaldamento, desertificazione – degradano ulteriormente i suoli ancora sani: di nuovo, un circolo vizioso difficile da rompere senza interventi di vasta scala. Sempre secondo il report, l’insieme dei terreni produce circa il 23% delle emissioni globali, in particolare a causa delle emissioni di metano e protossido d’azoto (due gas ad effetto serra molto forte) in ambito di agricoltura industriale. Una percentuale altissima, capace di fornire a chi legge la dimensione del problema.
Come atteso, il grande protagonista della presentazione è stato il tema dell’alimentazione. Esso è strettamente connesso alle nostre abitudini e responsabile da solo del 25-30% delle emissioni – oltre alle percentuali direttamente imputabili alle attività produttive agricole si devono infatti considerare anche quelle indirette derivanti dai settori si trasformazione e trasporto. Il nuovo rapporto mostra ancora una volta quanto esso risenta pesantemente degli effetti dei cambiamenti climatici, ma anche che allo stesso tempo una sua corretta governance possa rappresentare una una soluzione.
Il rapporto prosegue con una disamina delle più recenti scoperte rispetto al nesso suolo-clima. Risalta il dato riguardo l’aumento medio della temperatura, che sulle terre emerse è già aumentata di circa 1,5°C rispetto all’era preindustriale, quasi il doppio rispetto alla media globale che comprende anche gli oceani. Vengono registrati come in aumento i fenomeni meteorologici estremi come siccità e inondazioni, e in particolar modo paiono accentuarsi fenomeni di desertificazione, a colpire aree che al momento ospitano complessivamente più di 500.000 persone. Le conseguenze dei cambiamenti climatici sull’alimentazione a livello globale, già evidenziate da precedenti studi, richiedono oggi interventi rapidi e su vasta scala: rese minori dei raccolti portano a conseguenti aumenti dei prezzi, il contenuto nutritivo delle derrate diminuisce (in presenza di un’atmosfera più ricca di anidride carbonica, infatti, decresce il contenuto proteico di determinate specie agricole come il grano) e come già citato, in un mondo più caldo si riduce la capacità di sistemi agricoli e forestali di assorbire il carbonio presente in atmosfera.
Le zone maggiormente colpite da tali avversità risultano quelle tropicali e semitropicali: Asia meridionale, Africa occidentale (dove già risiede la metà delle popolazioni più vulnerabili) ed il bacino del Mediterraneo. Qui, e in più in generale in Europa meridionale, infatti, già negli ultimi anni si è registrata una diminuzione delle precipitazioni ed un aumento della frequenza degli eventi estremi (meno precipitazioni, ma più violente e concentrate) con conseguente maggiore erosione del suolo. Un trend destinato ad aumentare intaccando di conseguenza la produttività agricola, compresa quella del nostro paese. Altre aree, soprattutto nelle regioni artiche, potrebbero godere invece di un temporaneo beneficio: l’aumento delle temperature medie, infatti, allunga la stagione produttiva e rende il terreno più adatto a colture come mais, cotone, barbabietola; rimane comunque alto il rischio di malattie vegetali e altissimo il rischio incendi.
Come detto a più riprese nel testo, l’uso che facciamo della terra può rappresentare al contempo il problema o la soluzione: molte pratiche costituiscono un’ottima strategia sia di mitigazione sia di miglioramento dello stato economico e sociale delle comunità agricole. Molte di queste soluzioni, già citate nel precedente rapporto speciale sul riscaldamento a 1.5 gradi, vengono adesso illustrate con maggior chiarezza e anche per questo H.O. Portner, co-chair del Working Group II, indica questo secondo rapporto come un “seguito” di quello dello scorso ottobre. La notevole lunghezza del rapporto è data proprio dall’ampio spazio per la descrizione delle buone pratiche agricole: spesso già presenti nelle tradizioni delle comunità locali, esse vengono descritte in modo diversificato per ogni area geografica.
Su tutte, la pratica più citata è quella della diversificazione delle colture: utilizzare più specie contemporaneamente permette di contrastare la perdita di biodiversità in campo agricolo e di poter individuare le colture più resistenti a fenomeni come siccità e alte temperature. Risulta quindi necessario che nei paesi in via di sviluppo siano proprio quelle comunità locali ad avere accesso al credito, alle innovazioni tecnologiche e alla formazione in termini di costruzione di capacità locali, basate su saperi indigeni.
Di assoluto rilievo anche l’opzione di ripristinare e salvaguardare i sistemi forestali, vista la loro altissima capacità di stoccaggio di carbonio. Affinché un albero appena piantato possa accumulare anidride carbonica in modo adeguato, tuttavia, esso deve raggiungere un’età di almeno dieci anni. Anche per questo, il lavoro di ripristino non può in alcun modo essere scisso da quello di conservazione delle foreste esistenti nell’ambito delle più ampie politiche nazionali ed internazionali di salvaguardia.
Nonostante la grande varietà di temi affrontata dal rapporto, a catturare l’attenzione della stampa presente in sala è stato quello delle diete umane e dell’impatto che esse possono avere sulle emissioni climalteranti. Un aspetto, peraltro, che per sua natura conferisce possibilità di azione individuale ad ogni consumatore. Vari tipi di diete possono avere impatti diversi, ed appare oggi assodato che una dieta con un consumo di carne ridotta, specialmente rossa (il cui consumo è duplicato dal 1960 e la cui produzione è fortemente in competizione con il settore forestale) ha un impatto nettamente minore. Bisogna precisare che l’IPCC in quanto istituzione sottolinea di non avocare a sè la pretesa né l’autorità per “consigliare” al pubblico una dieta piuttosto che un’altra, limitandosi invece a documentarne gli effetti ambientali. Molte questioni riguardanti questo aspetto, dice Valerie Massone-Delmotte co-chair del Working group I, sono strettamente legate alle infrastrutture e agli aspetti culturali delle comunità, senza contare che anche il settore dell’allevamento per consumo umano può, attraverso pratiche adatte, ridurre notevolmente le proprie emissioni.
Quasi in chiusura della lunga conferenza stampa, il panel si è lasciato andare ad un raro commento politico sull’attualità. In risposta alla domanda di un giornalista sulla compatibilità della cosiddetta “nuova gestione” forestale del governo brasiliano guidato dal negazionista Jair Bolsonaro, un rappresentante del pool di scienziati ha sentenziato che tali politiche, costituiscono, semplicemente, “il contrario del messaggio che vogliamo comunicare con questo rapporto”.
Complessivamente, e come fu per il lancio del rapporto sulle traiettorie dello scorso ottobre, anche dal nuovo rapporto emerge forte il senso di urgenza. Urgenza di politiche, urgenza rispetto ad una catastrofe ormai già visibile. L’autorevole gruppo di scienziati incita comunità e governi ad agire, ed a farlo in modo precoce: le migliori azioni sono quelle intraprese subito, dato che – come provato da ricerche e dati – ogni singola frazione di grado, adesso, può davvero fare la differenza.
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