Clima

La crisi climatica richiede un nuovo approccio

8 Agosto 2021

Nei prossimi giorni un’ondata di caldo anomala si abbatterà sul nostro paese. La Protezione Civile ha già avvertito che i giorni che ci aspettano saranno impegnativi, con il termometro che arriverà a toccare i 45 gradi. L’allerta per incendi è massima. Volgendo lo sguardo a est, la Grecia è già in fiamme come la Turchia. Anche la Finlandia sta combattendo contro la più grave emergenza incendi da almeno mezzo secolo.

Una situazione che appare ancora più grave se pensiamo che stiamo vivendo l’estate più fredda dei prossimi cinquanta anni. Il futuro che ci aspetta è questo: eventi atmosferici estremi che hanno ricadute non solo sulla salute ma anche sull’economia. Incendi, inondazioni, grandinate distruggono raccolti, abitazioni, vetture. Spesso a esserne più colpiti sono le persone meno abbienti. Quelle persone, cioè, che vivono nei luoghi più suscettibili, che non possiedono assicurazioni sui loro beni, che non hanno abbastanza denaro.

Nonostante la gravità della situazione, la politica sembra tergiversare. Il ministro della Transizione Ecologica Cingolani dichiara che la normativa europea potrebbe cancellare la Motor Valley, che la transizione climatica sarà un bagno di sangue, seguito da Giorgetti. Una posizione simile è oggi il nostro più grande nemico per combattere la crisi climatica, come ha scritto Ed Milliband sul The Guardian.

 

La politica ritiene che una transizione ecologica troppo radicale potrebbe portare a un’elevata disoccupazione o addirittura compromettere gli standard di vita raggiunti nei paesi industrializzati. Una sorta di ritorno alla natura primitiva paventato da giornali conservatori-reazionari come Il Foglio.

Un approccio di questo tipo, seppur celato dietro una dose di falso raziocinio, porterebbe diretti alla catastrofe climatica.

 

Nonostante a questa narrazione piaccia dipingere coloro che sostengono una transizione radicale e immediata come ideologizzati privi di idee, il dibattito economico e scientifico ha da lungo tempo intrapreso una riflessione sugli strumenti da utilizzare.

La politica industriale è sicuramente tra questi. Per anni, dopo il trentennio di consenso keynesiano, la politica industriale è stata malvista dagli economisti. O almeno quella orizzontale. Secondo questa narrazione lo Stato non sarebbe in grado di scegliere i campioni nazionali: a prevalere sarebbero quelle aziende legate alla politica attraverso rapporti clientelari. È esattamente quello che è successo nel nostro paese.

Il colosso industriale dell’IRI, da motore dello sviluppo economico nel dopoguerra, si è trasformato in una macchina a disposizione della politica, utilizzata per piazzare amici e alleati. Presto questo modello è andato incontro al fallimento, portando a una delle più colossali privatizzazioni del mondo occidentale.

Questo scetticismo nei confronti della politica industriale si è però incrinato a seguito della Grande Crisi del 2008. Quei paesi in cui il settore manifatturiero pesava di più sulla composizione del PIL sono usciti dalla crisi meglio degli altri, come ha osservato Rainer Walz.

Con la crisi indotta dalla diffusione del virus e la produzione dei vaccini il tema è diventato ancora più scottante.

 

Tra gli strumenti che stanno destando l’attenzione della comunità economica i Mission Oriented Project occupano una posizione di rilievo. Questo approccio infatti diparte dall’idea che il ruolo dello Stato sia quello di intervenire per correggere i fallimenti di mercato. Un’interpretazione statica della situazione, nonostante il processo economico sia intrinsecamente dinamico e trainato dalla forza della distruzione creatrice, come ha insegnato Schumpeter. Il ruolo dello Stato, invece, deve essere quello di individuare un obiettivo e di funzionare come catalizzatore: è così che ad esempio è nato il distretto tecnologico che oggi chiamiamo Silicon Valley, attraverso l’interazione tra il governo Federale, l’università di Stanford e il settore privato.

 

John Van Reenen, in una sua recente proposta per l’Hamilton Project, ha proposto la creazione di un fondo federale per contrastare la crisi climatica e allo stesso tempo revitalizzare la produttività negli USA, stagnante da anni. Un ritorno quindi dell’intervento dello Stato nell’economia dopo anni di feticismo del mercato.

 

Il tema della crisi climatica si innesta però su problematiche che colpiscono i nostri sistemi economici da decenni. Oltre a una produttività stagnante e una progresso tecnologico che appare fiacco, il tema salariale giocherà un ruolo fondamentale.

 

Negli ultimi anni il peso della quota lavoro è andato diminuendo in tutti i paesi occidentali. Una caduta che è stata attutita dalle retribuzioni dei top manager e che, altrimenti, sarebbe ancora più decisa.

 

Questo ha ovviamente delle ricadute sui consumi e sugli investimenti. Noi tutti vogliamo un futuro fatto di macchine elettriche, di abitazioni ecosostenibili e via discorrendo. Senza intervenire sul sistema economico che favorisce i redditi più alti, però, questo futuro apparirà sempre più lontano: possiamo escogitare ogni incentivo statale, ma se non ci sono i soldi la gente non compra macchine elettriche.

 

Per questo la soluzione alla crisi climatica passa anche attraverso una nuova serie di battaglie per la giustizia sociale. Ad esempio rinforzando il potere contrattuale dei sindacati, garantendo aiuti economici più sostanziosi in caso di licenziamento e appunto una nuova politica industriale.

 

Nessuno sostiene quindi che la transizione ecologica non comporti dei costi, anche ingenti. Quello che ci troviamo davanti è un panorama complesso e incerto, da affrontare tenendo sempre presente la possibilità di fallimento. Invece un approccio troppo pavido, paventando prospettive primitiviste, porterà sicuramente al fallimento.

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