Clima
Barbante: Il mondo visto dall’Antartico, tornare al carbone non è la soluzione
In Antartide, nel campo remoto di Little Dome C, poche settimane fa si è conclusa con successo la prima campagna di perforazione del progetto Beyond Epica Oldest Ice, una sfida senza precedenti per gli studi di paleoclimatologia. L’obiettivo è di tornare indietro nel tempo di 1 milione e mezzo di anni, alla scoperta delle temperature e della concentrazione dei gas serra del passato, attraverso l’analisi di carote di ghiaccio estratta dalla profondità della calotta. Finanziato dalla Commissione europea con 11 milioni di euro e da significativi contributi da parte delle nazioni partecipanti, il progetto avviato nel 2019 è coordinato da Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche e professore all’Università Ca’ Foscari Venezia. Chimico di formazione, Barbante, 59 anni, ancora fresco di studi ha preferito gli impegni accademici sul clima e sull’ambiente rispetto alle applicazioni industriali. Si è specializzato nelle ricostruzioni climatiche, ambientali e nello sviluppo di metodologie analitiche innovative in campo ambientale e biologico. Fino al 2020 ha rappresentato l’Italia nel Comitato del programma europeo Horizon 2020 su ‘Climate Action, Environment, Raw Material and Resource Efficiency’. Parla poco, appare zero, a esprimere il suo pensiero e l’importanza del suo lavoro restano le oltre 290 pubblicazioni su riviste scientifiche considerate ad alto impatto. Non disdegna però la divulgazione, a gennaio è uscito ‘Scritto nel Ghiaccio’ (Il Mulino 2022, Euro 15,00) il racconto della straordinaria spedizione nel campo di Little Dome C, circa 40 chilometri dalla stazione Concordia, in Antartide a oltre 3.200 metri sul livello del mare dove le temperature, anche in estate non vanno oltre i -35 gradi e possono toccare i -60. Qui ha passato mesi a estrarre carote di ghiaccio. Ha accettato qualche domanda su clima e attualità da parte de Gli Stati Generali.
Non piove da mesi, è preoccupato?
Sulle Dolomiti, una delle zone più piovose d’Italia, sono caduti 36 millimetri a gennaio e 36 a febbraio, finora zero a marzo per un totale di due giornate piovose in quasi tre mesi. Certo che sono preoccupato. È un fenomeno legato alla estremizzazione degli eventi. Perché alla fine dell’anno, probabilmente, non sarà caduta meno pioggia, ma si saranno concentrati gli eventi con precipitazioni fortissime alternate a lunghi periodi di siccità e temperature alte. Sono tutti fenomeni che si legano tra loro e hanno un impatto significativo sulla vita dell’uomo, anche con conseguenze drammatiche. Già oggi in molte aree del meridione italiano registriamo periodi lunghi di temperature molto alte. L’uomo è una macchina termica, al di fuori di determinate condizioni di umidità e calore, non sopravvive.
Per capire il clima e i suoi cambiamenti lei e il suo team siete andati al Polo Sud. La spedizione ha avuto un certo risalto sui media internazionali, BBC, Reuters, il Guardian. Perché è così importante?
Le grandi calotte glaciali racchiudono delle informazioni importantissime. Sono di fatto degli enormi archivi climatici e ambientali. Studiandole riusciremo a conoscere quali sono state, nel passato, le concentrazioni chimiche nella composizione dell’aria. Possiamo arrivare fino a diverse centinaia di migliaia di anni. È come una memoria intrappolata nel ghiaccio e più si scende in profondità, più si va indietro nel tempo.
Come avviene lo studio?
Preleviamo delle carote di ghiaccio, facendo dei buchi nella calotta polare e poi le analizziamo. Il giacchio racchiude bollicine d’aria intrappolate da millenni. La loro composizione ci restituisce un quadro preciso del clima ad una certa data e, tutte insieme, la sua evoluzione. Ogni bollicina è una piccola capsula del tempo che registra il contenuto dell’atmosfera nell’antichità.
E state prelevando campioni di ghiaccio anche sulle Alpi e sul Gran Sasso in quella che mi sembra di capire sia diventata una corsa contro il tempo.
Esatto. L’aumento delle temperatura pone a serio rischio la ‘lettura’ di questi ghiacciai. Riscaldandosi i ghiacci fondono e mescolano gli strati perdendo irrimediabilmente ogni informazione contenuta. Un po’ quello che succede immergendo un manoscritto nell’acqua. Prima che questo succeda andiamo in questi siti e preleviamo carote di ghiaccio e le conserviamo in Antartide, che è un frigorifero naturale. Sarà l’archivio per il futuro dell’umanità.
Dove esattamente?
Alla stazione Concordia, una postazione congiunta italo francese, nel plateau antartico.
Cosa si comprende dallo studio dei ghiacci?
Nel nostro futuro c’è molto del nostro passato. Noi cerchiamo i ricorsi storici nell’evoluzione del clima, gli intervalli tra riscaldamento e raffreddamento della terra. Adesso stiamo uscendo da questa traiettoria perché il riscaldamento climatico è legato alle emissioni di gas serra.
Qual è la concentrazione di gas serra tollerabile dal pianeta e qual è quella attuale?
Diciamo che il pianeta può sopportare di tutto, siamo noi esseri umani che non siamo pronti ad affrontare il futuro. In un passato remoto (ca 55 milioni di anni fa) le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera hanno sfiorato le 2000 parti per milione, cinque volte le concentrazioni attuali. Le temperature medie di allora erano di circa 15 °C più elevate di adesso e non esistevano le calotte polari.
C’è rammarico per un mondo scientifico che non ha saputo essere sufficientemente chiaro?
Non direi, ci hanno spesso tacciato di reticenza scientifica. La realtà è che sono oltre 30 anni che diamo allarmi ad alta voce. Alcuni dibattiti hanno contribuito ad allontanare l’adozione di misure di contenimento e oggi ci ritroviamo nella situazione di dover affrontare una crisi climatica vera e propria.
Cosa intende?
Abbiamo già raggiunto soglie di non ritorno e, alla luce dei trend degli ultimi trent’anni, molti sistemi sono compromessi, tra questi i ghiacciai delle Alpi e delle Dolomiti. Dobbiamo prendere misure di mitigazione ma anche cominciare ad adattarci a quanto sta accadendo e forse dovremo un po’ soffrire.
Sta dicendo che abbiamo esaurito il tempo?
Dovremo porci in stato di emergenza. Il tempo c’è ma dobbiamo agire subito. Non è tornando al carbone che risolveremo il problema.
Eppure ci sono vari esperimenti di protezione dei ghiacciai con coperture artificiali.
È un palliativo, ha un costo elevato di energia di risorse economiche, di lavoro. E poi i teli di plastica, tessuto non tessuto, o altro materiale alla fine inquinano. Può avere senso se c’è un obiettivo economico, come il mantenimento di una pista da sci, ma dal punto di vista della conservazione è come nascondersi dietro un dito. Non è la soluzione.
Come è arrivato a studiare i ghiacci?
Molto per caso. Mi sono laureato in chimica e ho cominciato a lavorare per un’azienda di materie plastiche. Lì ho capito subito che non era il mio posto. Allora ho mandato in giro il curriculum e sono entrato in contatto con l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ho iniziato come ricercatore e ho seguito tutta la carriera accademica. Sono ancora professore a Venezia, anche se in aspettativa dal 2019 per l’impegno l’Istituto di Scienze Polari.
Lei ha spinto molto per la nascita dell’ISP, perché?
L’ISP nasce da una ricerca relativa in ambito polare. Il nostro paese è ai poli da oltre 100 anni e vanta una lunghissima tradizione di ricerca in aree polari, basti ricordare le spedizioni del Duca degli Abruzzi del 1899 o quella di Nobile del 1928. In ogni caso ci rendiamo conto che i poli sono sempre più strategici dal punto di vista diplomatico e geopolitico. Il mare Artico, per esempio, è russo per tre quarti, anche lì abbiamo tutti degli interessi particolari e dobbiamo fare in modo che vengano preservati. Per non parlare delle risorse nascoste nel sottosuolo. Noi italiani abbiamo competenze molto forti, e in questi ultimi 40 anni da quando è stato rilanciato il programma di ricerca in Antartide abbiamo acquisito molto credito a livello internazionale.
In Antartide le missioni sono solo scientifiche, ma ci sono secondo lei avvisaglie di possibili esplorazioni a scopi militari o economici?
La minaccia è sempre alle porte. Deve essere valutata in maniera molto accurata. Ci sono trattati internazionali, come quello di Madrid del 1961 e altre azioni diplomatiche che tendono a bandire le esplorazioni geologiche. Però, visti gli stati attuali nulla è dato per garantito. Certo, l’Antartide è davvero l’ultima frontiera incontaminata del pianeta.
Ci sono rivendicazioni territoriali sull’Antartide?
Sì ci sono rivendicazioni territoriali, ma esse sono al momento ‘congelate’. Alcuni dei paesi più vicini, Australia, Argentina, Cile rivendicano zone di pesca. Nel 2016, nel mare di Ross è stata istituita la più estesa riserva marina al mondo, la prima internazionale. È una zona protetta essenziale per la salvaguardia della biodiversità, ma anche in questo caso è un segnale che non possiamo dare per scontata o garantita l’intangibilità del Polo Sud.
Intanto giusto venerdì scorso uno studio del Cnr avverte che l’equilibrio artico, cioè del Polo Nord è sempre più a rischio. Cosa significa?
L’Artico soffre di quella che si chiama ‘amplificazione artica’. Se la temperatura media sulla terra è aumentata di circa 1,2 gradi dall’era industriale a oggi, in Artico va a velocità più che doppia, quindi l’aumento di temperatura è di 3 gradi. L’amplificazione è dovuta ai processi di trasporto di temperatura che accelerano i fenomeni. E questo porta a conseguenze devastanti.
Chi può fare qualcosa per contrastare i cambiamenti climatici?
Tutti noi. Credo sia decisivo che le persone capiscano l’importanza strategica e climatica delle aree polari. Ma poi la governance e le policy devono stabilirle la diplomazia e i governi con il supporto delle informazioni tecniche e scientifiche che continuiamo a mettere a disposizione.
Tutte le fotografie di questo articolo sono gentile concessione del prof. Carlo Barbante
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