Clima
Cambiamento climatico: quanto (poco) parliamo di salute?
La stretta relazione che esiste tra cambiamento climatico e salute fatica a trovare spazio sul piano della ricerca scientifica. Lo afferma un recente articolo apparso su Global Health Action. Per giungere a questa conclusione, alcuni ricercatori del Centro Virchow-Villermè di Parigi hanno sviluppato un’idea interessante: contare il numero di articoli a tema salute e cambiamento climatico apparsi sui principali database scientifici e analizzarne l’andamento in un arco di tempo di circa 15 anni.
Gli stessi ricercatori, hanno pensato di focalizzare l’attenzione anche sui rapporti stilati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) – l’organo tecnico e scientifico che ogni sette anni aggiorna i governi sui rischi indotti dal cambiamento climatico – contando il numero di volte in cui appare la parola “health”.
I dati parlano chiaro: nonostante i risultati confermino un trend in aumento e in costante accelerazione, siamo ancora lontani dal poter definire la salute al centro dell’agenda della lotta al cambiamento climatico. Se il primo rapporto IPCC del 1990 non conteneva nemmeno un capitolo riguardante la salute, nell’edizione 2014 il termine chiave è stato utilizzato più di duemila volte. E, dal 2006 la produzione scientifica sull’argomento è cresciuta in modo esponenziale, passando da 5.651 articoli a 23.474. I passi avanti ci sono ma, anche se la strada è in salita, bisogna accelerare.
Quando si afferma che per colmare il gap informativo servirebbe ancor più ricerca sulla connessione clima-salute, non si intende dire che non vi siano prove sufficienti a testimoniare il grave impatto che il climate change ha sugli esseri umani. Se si pensa a come l’aumento delle temperature porti con sé uno stravolgimento della distribuzione degli agenti patogeni che abitano le diverse latitudini, influendo così sulla diffusione delle malattie infettive, o alle patologie respiratorie connesse all’inquinamento, appare evidente che i rischi abbracciano ad ampio spettro vari campi del sapere medico. Come la malnutrizione, ben connessa alla crisi alimentare o, ancora, la salute mentale, minacciata dall’aumento di casi di disturbo post traumatico da stress, episodi di ansia e depressione come conseguenza di eventi estremi (ad esempio, alluvioni, siccità o uragani), come riportato sul Climate and Health Assessment 2016.
I dati fanno riflettere. Sono 12.6 milioni all’anno i decessi causati dall’inquinamento, di cui 60.000 da disastri ambientali. Inoltre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima ulteriori 250.000 morti per anno, tra il 2030 e il 2050, a causa di patologie come la malaria o dovute a diarrea e malnutrizione e direttamente collegate all’aumento dei livelli di CO2 e al riscaldamento globale.
Vero è che, spesso, le storie spiegano molto più di quanto possano fare i dati. E’ l’esempio dell’epidemia da antrace che ha colpito la penisola siberiana di Yamal a inizio agosto. Gli scienziati sono concordi nel ritenere il cambiamento climatico responsabile di quello che l’epidemiologia ambientale Hilary Bambrick ha definito uno “scenario da Games of Thrones”. L’aumento delle temperature di 0,43°C negli ultimi dieci anni unito a un picco estivo di 35°C, ben 5°C sopra la media, ha portato allo scioglimento del permafrost della regione, causando la liberazione del Bacillus anthracis da parte delle carcasse di animali che si trovavano nel sottosuolo. L’epidemia ha causato la morte di un bambino di 12 anni, e l’ospedalizzazione di altre 72 persone.
Laddove la conoscenza scientifica migliora, un grande vuoto informativo sulla relazione clima-salute sembra invece restare una costante del mondo mediatico, oltre che di quello politico. Due attori che, invece, potrebbero contribuire ad aumentare la consapevolezza dei cittadini di fronte all’urgenza di contrastare quella che è ormai ampiamente riconosciuta essere la più grande minaccia del XXI secolo.
di Samantha Pegoraro
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