Beni comuni
Perché buttiamo via un terzo del cibo che produciamo, e la nostra intelligenza
La natura non ama le forme perfette.
L’imperfezione delle linee è alla base di quasi tutto ciò che nasce, cresce, si muove: insomma di ciò che è naturale. Un’imperfezione che nulla ha a che vedere con il concetto di difetto, e che anzi rende tutto più seducente, caratteristico, unico, vero.
Questa filosofia, purtroppo, sembra non applicarsi al cibo che finisce sulle nostre tavole.
Triste a dirsi, uno studio condotto dall’Università di Edimburgo e recentemente pubblicato sul Journal of Cleaner ha evidenziato come un terzo dell’ortofrutta coltivata in Europa venga cestinata in quanto “sgradevole a vedersi”.
Avete capito bene. La buttiamo perché è brutta.
Stiamo parlando di 50 milioni di tonnellate di cibo perfettamente commestibile scartato via dai grandi distributori perché “non conforme” agli standard estetici richiesti dalla stragrande maggioranza dei punti vendita.
Questo spreco si traduce in un danno ambientale enorme. La frutta irregolare, o leggermente ammaccata, ha avuto bisogno di essere lavorata, irrigata, trattata, raccolta, trasportata proprio come quella “esteticamente accettabile”. Buttarla via vuol dire gettare alle ortiche le risorse economiche ed idriche che sono servite per produrla, la quantità di terreno fertile che è stato impoverito per farla crescere, l’anidride carbonica che è stata inutilmente immessa nell’atmosfera per trasportarla (e che andrà ad aggravare l’effetto serra), l’energia utilizzata dalle macchine e dai lavoratori per raccoglierla e così via.
La generazione dei nostri nonni, se avesse saputo che avremmo perpetrato questo spreco, avrebbe gridato niente meno che al delitto, e, diciamocelo, non si sarebbe lesinata nel distribuire schiaffoni.
In un paese di lunghissima tradizione agricola come il nostro, questo “storcere il naso” di fronte ai difetti estetici di frutta e verdura è un fenomeno molto recente, ed è una delle tante conseguenze nefaste delle leggi della grande distribuzione degli alimenti, ormai completamente scollegate dalla realtà ambientale come dalle esigenze dell’ambiente stesso.
“E’ il mercato, bellezza!” mi risponderanno con la classica citazione strafottente i soliti cinici, obiettando che, se questo è il modello di business che si è imposto, evidentemente è il modello vincente.
E invece no, è solo un modello idiota. Buttare via il cibo buono è una pratica irrispettosa, immorale, economicamente svantaggiosa ed ormai non più sostenibile dal punto di vista ambientale. E se pensate che quello dell’ortofrutta sia uno spreco inevitabile, che se funziona così è perché nessun consumatore comprerebbe mai delle melanzane brutte o delle carote bitorzolute, beh, vi sbagliate di grosso.
Lidl, il gigante tedesco dei supermercati, ha recentemente lanciato la campagna Too Good To Waste (“Troppo buono per essere sprecato”). In cosa consiste? In alcuni dei suoi punti vendita, Lidl offre a prezzo ridotto delle cassette piene di frutta leggermente deformata o danneggiata, ma inalterata nel sapore e nei valori nutrizionali. Ebbene i consumatori, conti alla mano, hanno dimostrato di preferire questo tipo di ortofrutta a quella esteticamente normale; i risultati dell’iniziativa sono stati così positivi che altre catene di supermercati stanno cominciando ad imitarla.
Questo, comunque, non è che uno dei tanti modi nei quali è possibile intervenire. In attesa che iniziative del genere diventino la norma, il cibo esteticamente danneggiato dovrebbe essere regalato o donato alle associazioni che si occupano di persone in difficoltà, o magari impiegato nelle preparazioni dove gli ortaggi sono ridotti in pezzi. Semplici regole di buonsenso che tuttavia non trovano applicazione. La legislazione dei paesi comunitari in tal senso viene continuamente aggirata, e non è abbastanza stringente.
Qualcosa si è mosso anche in tal senso, a dire il vero, ma in Europa si fa ancora troppo poco, e con troppa lentezza, quasi fosse un problema di poco conto.
Intanto altri milioni di tonnellate di cibo vanno al macero ogni mese, causando danni incalcolabili all’ambiente e, in tutta onestà, anche alla reputazione e all’intelligenza del genere umano.
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