Beni comuni

Lo spazio filantropico in Italia visto da Giulia Frangione (Italia non Profit)

24 Luglio 2021

È sotto gli occhi di tutti che, complici il Covid e la Riforma del terzo settore, la filantropia istituzionale sia diventata un tutt’uno con il resto degli enti non profit. A parte la “riserva indiana” delle fondazioni di origine bancaria – che non sottostanno alla nuova norma pur concorrendo al perseguimento del bene comune – gli altri enti filantropici entreranno nel RUNTS e sempre più assumeranno un profilo misto, quindi anche operativo e non solo erogativo. Non è la norma che lo richiede, ma è stata la recente pandemia che ha mosso le fondazioni a rendersi più operative, ad acquistare e spesso a distribuire direttamente beni e servizi di prima necessità, rispondendo ad una tale mole di bisogni ai quali le singole organizzazioni – impossibilitate nel raccogliere fondi nei modi tradizionali e spesso nell’operare – non riuscivano a rispondere, soprattutto nella prima fase dell’emergenza. Il 49% delle fondazioni italiane non si accontenta più di erogare ma pratica la coprogettazione.

È una filantropia che, almeno per un po’, ha abbandonato la logica progettuale in quanto di fronte ad un’emergenza improvvisa e che ha pervaso ogni aspetto della vita di persone ed istituzioni non si poteva andare tanto per il sottile; il problema era da risolvere lì ed in quel momento. Fare il contrario in una situazione emergenziale sarebbe come stare su un aereo che sta precipitando (pandemia catastrofi ambientali, crisi sociale, etc.), e preoccuparsi di efficientarne il moto di caduta per risparmiare carburante (efficientamento senza efficacia).

La filantropia delle aziende – pur comprendendo alcune lodevoli eccezioni – era molto attenta a far sapere ai propri clienti che donava anche se gli importi delle donazioni si misuravano in percentuali albuminiche rispetto a fatturati considerevoli. E anche in questo caso è mancata -in parte- quella voce comune e condivisa della CSR, capace di colpire le persone e di muoverle a loro volta.

C’è quindi una spinta a fare qualcosa di nuovo, forse anche in modo innovativo ma meglio coinvolgendo le persone. Forse servirebbero una filantropia e un Settore capaci di creare empowerment nelle persone (la consapevolezza di poter cambiare le cose) e di muovere e incanalare i desideri, le volontà donative, e persino il senso di sconfitta, in comportamenti donativi condivisi e collettivi.

È fuori di dubbio che lo sforzo della filantropia istituzionale sia stato e sia tutt’ora considerevole lo scorso anno e probabilmente lo si sta profondendo anche quest’anno per rimettere a posto i cocci di una situazione sociale che esce molto indebolita dal Covid-19. Ma a questo sforzo – ribadiamo, meritevole – ha fatto seguito un ripensamento profondo della ragione d’esistere e dei modelli d’intervento non solo sulle altre non profit ma sulla società in generale? I modelli di governance sono cambiati? Stiamo coltivando i meravigliosi talenti della generazione Z e Y che fanno volontariato o che lavorano negli enti con stipendi troppo bassi e spesso con ridotte prospettive di carriera in tempi umani? O proprio adesso che è cresciuto il numero di giovani che sentono il lavoro come elemento identitario e di responsabilità sociale li stiamo spingendo a brillanti carriere in altri settori? Si sta smontando la logica, importata dal capitalismo di relazione, di chiudersi nella comfort zone delle relazioni sicure, nel confrontarsi solo tra uguali o simili, oppure ci si apre a realtà nuove anche per ciò che riguarda la conduzione degli enti filantropici?

E la digitalizzazione, che ha subìto una forte accelerata grazie o a motivo della pandemia, si riduce a qualche post in più su Facebook, alle riunioni su Zoom, o si sta cambiando in profondità il modello di “produzione” della filantropia utilizzando la digitalizzazione?
Per essere chiari, anche il resto del non profit si trova in un momento delicato e deve rispondere alle sfide che Riforma, Covid-19 e Digitalizzazione presentano al suo cospetto. Deve capire se evolvere e verso quale direzione. Forse dovrebbe pensare di affrancarsi dai – finora – comodi lidi del volontarismo entusiasta che si affacciano sulle altrettanto artificiali coste del mito dell’efficienza economico-aziendalista. Sarebbe forse opportuno staccarsi da quelle situazioni dove il paternalismo o l’one man show reggono tutta la struttura, così come le aderenze ai network politici ormai non più frequentabili perché difficilmente sono rimasti come riferimenti delle comunità.

E per essere ancora più chiari, non si incoraggia qui una rottamazione e neppure si hanno formule magiche per il cambiamento. Ma alcune proposte, alcuni inviti a riflettere, questi sì, possono essere presentati. Con tutta la prudenza del caso, suggeriamo di ripensare la questione dell’impatto, non tanto come tecnica – peraltro ad oggi non ancora affinata né estendibile a tutti i settori -, ma come un obiettivo. E non per giustificare un’azione solidale che non ha bisogno di giustificazioni, ma per migliorare l’allocazione delle risorse e comprendere quali ambiti della società non ricevono abbastanza attenzione.

Questo misurarsi un po’ – ma non troppo – con la digitalizzazione; questo aspettare la Riforma senza chiedersi a cosa potrà portare. Questo non comprendere che la rivoluzione dell’intervento parte dalla volontà di cambiare dall’interno abitudini, comportamenti. E comunque continuare ad operare – per fortuna, aggiungiamo – per rendere questa società migliore.

Giulia Frangione
Italia Non Profit

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