Beni comuni
La pena detentiva, formazione ed attività lavorativa: evoluzione del carcerato
La strada può essere quella giusta.
Diciamo a doppio senso, da un lato un uso efficace della detenzione, dall’altro la formazione lavorativa come attività per il reintegro del detenuto.
Certo, non possiamo pensare di tenere questi uomini o donne con la divisa a strisce e la palla di ferro al piede, ma l’accordo firmato tra Autostrade per l’Italia, Ministero della Giustizia, Roma Capitale e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, rappresenta un primo passo per un ambizioso progetto.
L’esempio della strada a “doppio senso” possiamo dire che calza perfettamente, in particolar modo se sono quelle della Capitale. Il lavoro dei detenuti, dovrebbe contribuire a risanarne lo stato pietoso e potrebbe essere unesempio, se funziona, applicato a tante altre città che versano nelle stesse condizioni, come la mia Napoli.
Quindici i detenuti coinvolti – selezionati tra quelli a bassa pericolosità e con pene ridotte – formati in carcere e presso scuole specifiche di Autostrade per l’Italia in due mesi e mezzo, al termine dei quali otterranno un attestato professionale. I loro primi interventi interesseranno le strade adiacenti al penitenziario di Rebibbia che, una volta risanate, diverranno il laboratorio di formazione dei detenuti. Successivamente, i detenuti formati saranno impiegati nell’area metropolitana della Capitale per la pulizia delle caditoie, la riparazione delle buche a caldo e il ripasso delle strisce pedonali, in particolare delle arterie a basso scorrimento del centro storico. Autostrade per l’Italia fornirà gratis, oltre la formazione, i DPI, le attrezzature e i materiali, ma sarà responsabilità del Campidoglio, gestire i cantieri. Riqualificare una serie di strade del centro storico, insegnando un mestiere ai detenuti e dare così loro una chance concreta di re-inserimento sociale è veramente forse un ‘idea innovativa e socialmente utile.
C’è da dire che già altre istituzioni avevano firmato dei protocolli di’intesa, come per esempio tra l’ANCI ed il sindaco di Bari, per incrementare le opportunità di lavoro e di formazione lavorativa dei detenuti per la tutela dell’ambiente e il recupero del decoro di spazi pubblici ed aree verdi e, al tempo stesso, stimolare l’avvio di progetti per la corretta gestione dei rifiuti, favorendo lo scambio di buone prassi all’interno degli istituti penitenziari.
Le attività, da aggiornarsi annualmente, saranno controllate da una apposita Unità paritetica di gestione, composta da due componenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dell’Anci: questa struttura si occuperà di fornire indirizzi, supporto e linee guida per l’attuazione delle attività previste dall’intesa, nonché di monitorare l’andamento della sua operatività e le Convenzioni che saranno stipulate su tutto il territorio nazionale.
Il Ministro Orlando, all’epoca, dichiarò l’importanza del lavoro come leva fondamentale del trattamento penitenziario. Lo svolgimento di attività gratuite in favore della collettività come finalità riparativa della pena può e deve rappresentare un vero e proprio momento di espiazione “materiale” del reato perpretato, sia nei confronti del cittadino che della cosa pubblica.
I sindaci, conoscitori del tessuto sociale cittadino, sanno bene che spesso i detenuti non sono feroci criminali, ma persone che hanno sbagliato, per svariati motivi. Per queste, soprattutto per i più giovani, il carcere dev’essere un luogo dove scontare la pena, ma anche una occasione di recupero e reinserimento nella società, in particolare al Sud.
Il protocollo Anci/Dap può essere considerato un esempio di buona prassi strutturata tra pubbliche amministrazioni, utile al intera collettività. Il lavoro dei detenuti si trasforma in risorse e beni per la collettività e l’ambiente.
La dottrina applicata, in relazione alla possibilità di svolgere un’attività lavorativa costituisce, per i condannati e gli internati, se non l’unico, il più importante strumento rieducativo.
In tal senso dispongono anche gli artt. 15 e 20 o.p..
In particolare l’art. 15, tra gli “elementi del trattamento”, al suo primo comma annovera esplicitamente il lavoro tra i mezzi per darvi attuazione prevedendo che venga assicurato salvo impossibilità.
L’art. 20, poi, dedicato alla disciplina dello stesso, sottolinea la necessità che gli istituti penitenziari favoriscano in ogni modo la destinazione dei detenuti al lavoro.
Tra le sue fondamentali funzioni vi dovrebbe essere peraltro quella di fare apprendere al detenuto una professione che, una volta uscito dal carcere, gli possa essere utile per tenere una condotta di vita lontana dalla delinquenza.
Con il decreto legge del 1 luglio 2013 n. 78 (2), concernente Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena, sono state, tra l’altro, affrontate le questioni riguardanti la possibilità di svolgere all’esterno del carcere per i detenuti, estendendo la possibilità di lavori di pubblica utilità per soggetti che siano in stato di detenzione, anche nel caso in cui siano tossicodipendenti, interessando non solo gli Enti statali e locali, ma anche associazioni di volontariato e non profit.
In particolare, l’art. 2 definisce che:
– in materia di lavori all’esterno dei detenuti, è stato aggiunto un comma 4-ter all’art. 21, che prevede la possibilità per detenuti ed internati di prestare la propria attività, a titolo gratuito e volontario, in progetti di pubblica utilità in favore della collettività, presso enti pubblici o associazioni di volontariato;
– disciplina più restrittiva è prevista per i recidivi, per effetto dell’abrogazione degli articoli 30-quater (in materia di concessione di permessi premio) e 50-bis (in materia di concessione della semilibertà), nonché per l’abrogazione del comma 7-bis dell’art. 58-quater (sempre in materia di benefici);
– viene profondamente modificato l’art. 47-ter sulla detenzione domiciliare. In primis, è stato soppresso il comma 1.1, che prevedeva la possibilità di concedere la detenzione domiciliare anche al condannato recidivo ai sensi dell’articolo 99, c. 4, c.p., per pene inflitte non superiori a tre anni.
Viene poi integralmente riscritto il comma 1-quater, che prevede che l’istanza di applicazione della detenzione domiciliare è rivolta, dopo che ha avuto inizio l’esecuzione della pena, al tribunale di sorveglianza, ovvero al magistrato di sorveglianza se ricorre un grave pregiudizio per effetto della protrazione dello stato di detenzione.
E’ previsto, quindi, l’ampliamento delle ipotesi di lavoro di pubblica utilità del comma 5 bis dell’art. 73 DPR 309/90 (il nuovo comma 5 ter ne consente l’applicazione anche per reati diversi dall’art. 73 co. 5 purchè commessi da soggetto tossicodipendente e con esclusione di quelli previsti dall’art. 407 co. 2 lett. a c.p.p. ): un caso di probation per verità già di scarsa applicazione ma invece opportunamente da incentivare.
Il comma 3 dell’articolo 54 ha stabilito poi che l’attività viene svolta nell’ambito della provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato.
Sia queste attività che quelle più specifiche alla detenzione, svolte cioè nel perimetro intramurario durante il corso della sua detenzione, sono prese in considerazione dal Tribunale di Sorveglianza per la concessione della liberazione anticipata, che consente al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione di godere, quale riconoscimento di tale partecipazione, di una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata.
Anche la suprema corte è intervenuta già in passato, con la sentenza del 22 maggio 2001 n. 158, precisando che:
- il lavoro dei detenuti, che nella concezione giuridica posta alla base del regolamento carcerario del 1931 si poneva come un fattore di aggravata afflizione, cui dovevano sottostare quanti erano stati privati della libertà, è oggi divenuto, a séguito delle innovazioni dell’ordinamento penitenziario ispirate all’evoluzione della sensibilità politico-sociale, un elemento del trattamento rieducativo.
La legge prevede, perciò, che al condannato sia assicurato un lavoro, nella forma consentita più idonea, ivi comprese quella dell’esercizio in proprio di attività intellettuali, artigianali ed artistiche (art. 49 del d.P.R. 29 aprile 1976, n. 431) o quella del tirocinio retribuito (quattordicesimo e quindicesimo comma dell’art. 20).
Accanto quindi a queste sperimentazioni e alle figure del lavoro esterno e di quello «a domicilio» carcerario, nasce la possibilità per imprenditori pubblici e privati di organizzare e gestire direttamente le lavorazioni all’interno degli istituti, fino a promuovere forme di autorganizzazione, mediante cooperative sociali che consentono il superamento del divieto di assunzione della qualità di socio per l’incapacità derivante da condanne penali e civili.
Il pericolo maggiore oggi è che la pena detentiva non abbia più nessun valore e che la maggioranza delle persone impiegate, possa successivamente, verificare il radicale cambiamento del proprio stile di vita, metabolizzandolo e facendolo diventare proprio.
Potremmo vedere uomini che riparano cose che servono a loro stessi per ripararsi da soli.
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