Beni comuni
La partecipazione attiva alla gestione del patrimonio, un bene davvero comune
Pubblichiamo un estratto da La partecipazione alla gestione del patrimonio culturale a cura di Alessandra Ferrighi, Elena Pelosi pubblicato da Luca Sossella editore. La ricerca condotta dalla Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali su casi concreti di cura, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale dal basso dimostra come queste esperienze siano testimonianze del bisogno di rendere la partecipazione attiva un valore fondante nella vita dei nostri territori.
Il volume sarà presentato a Roma l’11 luglio alla Biblioteca Nazionale Centrale alle 17.00
Introduce Alessandra Vittorini, interverranno: Chiara Faggiolani, Francesco Mannino, Filippo Tantillo. Modera Silvia De Felice
Quando si parla di comunità nell’ambito del patrimonio culturale, troppo spesso si dimentica che ci si riferisce a una categoria centrale nel dibattito filosofico europeo avviato sin dagli anni settanta. Nelle riflessioni di Maurice Blanchot, di Jean-Luc Nancy e, poi, di Roberto Esposito, communitas è intesa non come ciò che mette in rapporto determinati soggetti, ma come l’essere “in comune”, esposto all’altro da sé. Comunità come costellazione i cui membri liberano un’eccedenza d’essere; alterità costitutiva; spazio dove si decreta la defunzionalizzazione della soggettività; luogo i cui membri rinunciano alla propria identità, in un processo di apertura al diverso da sé; geografia percorsa da individui “uniti da una faglia che li taglia contaminandoli reciprocamente”; territorio i cui abitanti si legano in un “impegno donativo dell’uno nei confronti dell’altro”.
Il pensiero filosofico intorno all’idea di comunità elaborato sin dagli anni settanta ha rappresentato una sorta di premessa per quello che è diventato, sin dalla Convenzione di Faro, uno dei punti su cui ci si sta interrogando da molti anni a livello italiano ed europeo.
La Convenzione di Faro, appunto. Uno snodo decisivo che assume, attua e rilancia i principi su cui si fonda l’articolo 9 della Costituzione italiana, lasciando echi anche sulla ridefinizione dell’idea di museo proposta da ICOM. La Convenzione di Faro invita a una grande sfida: considerare il patrimonio come una proprietà estesa, diffusa, condivisa, non relegata a un mondo di specialisti. In questa ottica si afferma con forza una concezione democratica della cultura: non esiste un unico proprietario del patrimonio, perché tutti i cittadini sono parte decisiva di questa enorme società per azioni, in cui la partecipazione dal basso diventa un tratto distintivo.
Mi piace ricordare la lezione e l’esperienza di Giulio Carlo Argan quando venne nominato sindaco di Roma, primo laico e di sinistra, dopo trent’anni di governo democristiano della capitale. La sfida: dare corpo alla concezione della storia dell’arte come storia della città. L’esaltante e difficile esperienza al Campidoglio non va letta come parentesi, ma come approdo di una precisa filosofia.
Secondo alcuni il vero libro di chiusura della vita di Argan. Intrecciare in un’unica linea storia dell’arte e tensione civile. Porre in dialogo competenze scientifiche e impegno politico, nel senso etimologico del termine: da cittadini nella polis. Tra i due ambiti – come André Malraux – Argan non pone nessuna contraddizione e nessun compromesso. Entrando nell’arena non da politique politicienne ma da public intellectual egli, ha sottolineato Salvatore Settis, non rinuncia al proprio bagaglio culturale: anzi, proprio in nome delle sue conoscenze disciplinari può agire in pubblico, rivestendo un ruolo di rilievo anche simbolico. Tenta di tradurre in strategia di governo una visione culturale generale. È come se volesse mettere alla prova delle emergenze dell’oggi gli strumenti del suo mestiere, che così ne escono rigenerati, rinnovati, esaltati. Mira, cioè, a combinare la disciplina insegnata con passione dal 1955 (prima all’Università di Palermo, poi dal 1959 a La Sapienza di Roma) con la sfera della militanza, la dottrina con la vita dentro le istituzioni, per le istituzioni.
Senza mai identificarsi passivamente con esse, ma ragionando criticamente onde apportarvi esperienze e discorsi la cui specificità fosse riconoscibile, e per questo meritasse […] pieno rispetto anche da parte dei non addetti ai lavori e degli avversari.
Dunque, l’attività amministrativa come proiezione di una precisa idea di arte, indissolubilmente legata alla sfera pubblica. La volontà di lavorare per difendersi dai rischi e dai degradi del presente, rendendo bene comune la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, tra i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica. E ancora: l’utopia rinascimentale di impegnarsi in prima persona per costruire una città dell’uomo, pensata come un sistema fon- dato sull’indissolubile legame tra arredi, sculture, dipinti, architetture e spazio urbano, perché tra i diversi linguaggi vi sono continui slittamenti: come in un quadro di Raffaello c’è sapienza progettuale così, in una piazza rinascimentale, c’è tanta maestria pittorica. Un unicum nel quale, ha rilevato Maurizio Calvesi, i musei e la scuola siano testimonianze della “pregnanza storica e civile dell’arte”. L’ancora attuale lezione arganiana ci spinge a considerare i valori della Costituzione stessa come pratica comune.
Nel documentare, fuori da ogni ideologismo, storie ed esperienze non contigue, le ricerche sulle comunità di patrimonio raccolte in questo volume vanno lette come testimonianze del bisogno di trasformare la partecipazione attiva in valore fondante nella vita del nostro Paese, pensando la tutela, la valorizzazione e la gestione non come prerogative di una piccola comunità di esperti, ma come bene davvero comune.
Vincenzo Trione, Presidente Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali
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