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Antigone, l’art. 560 c.p.c. ed il diritto di resistenza
Il mito di Antigone ancora affascina: diventa il luogo ove si rifugia la splendida disobbedienza, la spasmodica ricerca di una giustificazione da conferire ad un comportamento rivoltoso.
L’eretico, il rivoluzionario intendono colorare la tensione: rompere ed infrangere irriducibilmente la stasi dell’ortodossia.
Antigone attrae, perché è consapevole del suo destino: inevitabilmente sa di perdere, ma al contempo è consapevole che l’effetto delle sue parole, il significato recondito che le dona, sarà imperituro e diventerà la bandiera di tutte le rivoluzioni della Storia.
Il conflitto tra il divino e l’umano delinea la trama della tragedia: è giustificabile che un ordinamento democratico ponga delle leggi positive che non possono essere rispettate, che inducono alla disobbedienza, perché infrangono quelle non scritte?
Creonte, nella tragedia di Antigone, scritta da Sofocle, è il tiranno o lo Stato positivo che ha reso l’editto di non apprestare la sepoltura ai nemici della patria: Antigone disobbedisce e grida al “dolce vento” la sua indignazione e la sua motivata rivolta, perché il sovrano non può ignorare, con i suoi proclami, le leggi degli dei: donare la sepoltura ai propri cari è un’antica costumanza, affinché il cadavere non subisca l’inevitabile decomposizione.
La sepoltura è un atto umano che sancisce il riconoscimento del singolo essere come amato, in modo che ciò che è accaduto (cioè la vita) divenga piuttosto un’opera, affinché l’ultimo essere, sia anche voluto e gradito (Fenomenologia dello Spirito Hegel, capoverso 25).
La sepoltura è dunque un’azione etica, assolutamente necessaria, perché chi muore non si trovi in balia del vento e degli animali, perché non resti solo un corpo destinato a dissolversi. Solo così ci si può conciliare e consolare con la morte (Antigone Storia di un mito a cura di Sotera Fornaro Carocci editore pagina 110).
Il tiranno ha disposto che dei due fratelli, Eteocle e Polinice, deve essere offerta dallo Stato onorata sepoltura solo al primo, che ha combattuto per la difesa della Patria; il cadavere dell’altro può essere lasciato in pasto agli avvoltoi: è un traditore, nemico di Tebe.
“Dei nostri due fratelli – parla Antigone alla sorella Ismene – Creonte non ha forse deciso di concedere all’uno onorata sepoltura e di lasciare l’altro indegnamente insepolto? Eteocle, dicono, ritenendo giusto di trattarlo secondo le norme rituali, lo ha fatto seppellire, perché avesse onore fra i morti sotterranei; ma il cadavere del misero Polinice ha ordinato, si dice, che nessun cittadino lo seppellisca e lo pianga, bensì che sia lasciato illacrimato, insepolto, tesoro agognato per soddisfare la fame degli uccelli all’erta nel cielo. Tale dicono, è l’editto che il buon Creonte ha proclamato e sta per venire egli stesso ad annunciare, apertamente, il suo divieto a chi ancora lo ignora. Non prende la cosa alla leggera: ai danni dei trasgressori è prevista la morte per pubblica lapidazione” (Sofocle L’Antigone (vv.25-35)
Ma si polarizzi l’attenzione sul dialogo tra Creonte ed Antigone, per soppesare come, nella tragedia, sia implacabile la forza e l’indefettibile volontà dei contendenti, fermi, inesorabilmente, sulle reciproche posizioni.
Nella “Fenomenologia dello Spirito” Hegel vede nella tragedia, alla luce della sua filosofia dialettica, l’antinomia fra due principi che hanno ambedue gli stessi diritti ed entrano in collisione tra loro.
Se chi agisce prende uno di questi principi a regola e norma unica, ferisce l’altro.
Si tratta di un conflitto dialettico tra due avversari che sono sullo stesso piano: Antigone difende le leggi degli dei, la famiglia, le leggi naturali che non si sa quando siano apparse e godono di luce sconfinata. Creonte, invece, è paladino delle leggi dello Stato, che superano ed inglobano quelle della famiglia. Questo contrasto, nella logica hegeliana, si compie nella soluzione che fornirà il destino della compiutezza dell’Autocoscienza (Luciano Canfora Storia della letteratura greca La Terza Bari pag.176).
Ma è la legge divina che soppianta quella del tiranno che, come dice Goethe, compie il delitto di Stato.
Non a caso la tragedia finisce con l’avveramento delle profezie dell’indovino Tiresia, non ascoltato dal tiranno: morirà Emone, fidanzato di Antigone, la moglie di Creonte, Euridice.
Con paradossale inversione colui che aveva negato – Creonte – sepoltura ad un morto, si rivela, da ultimo, come un morto che respira e, dietro la peripezia, si scopre la presenza decisiva degli dei: “un dio, si un dio allora mi percosse sul capo con il suo peso enorme e su atroci sentieri mi traviò e ahimè con il piede calpestò la mia felicità” (vv.1272-1375).
Antigone emetteva gemiti acuti, come un uccello desolato, che trova il suo nido vuoto, predato dai pulcini. Così anche ella, quando vide il cadavere messo a nudo, scoppiò in lacrime, scagliando orribili imprecazioni contro gli autori di un tale sacrilegio.
Diede sepoltura al fratello Polinice e trasgredì l’editto di Creonte.
Ella dice :”questo editto, non Zeus proclamò per me, né Dike, che abita con gli dei sotterranei. No, essi non hanno sancito per gli uomini queste leggi; né avrei attribuito ai tuoi proclami tanta forza, che un mortale potesse violare le leggi non scritte, incrollabili, degli dei, che non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce”.
La parola di entrambi è segno ineluttabile di guerra che va oltre la pietà violentata di Antigone, che si impiccherà per non consegnarsi al tiranno.
Diventa tragico lo scontro; il conflitto tra i due sistemi, quello scritto e non scritto, è in primo luogo una tenzone fra il valore e la forza tragica della parola nella sua intima essenza.
Il grido acuto di Antigone, «come di uccello angosciato alla vista del nido deserto», deve poter essere udito, ora lontano ora incombente, in ogni momento della tragedia. Esso riempie ogni sua pausa e ne determina il ritmo. La parola articolata non può liberarsene, ma lo porta in sé come sua propria, intima «dissonanza».
Questo è l´essenziale: comprendere l’inseparabilità dei due, Antigone e Creonte. E dare alla voce di entrambi tutta la sua potenza “omicida”.
Assolutamente necessari l´uno all´altro, metafisicamente estranei a ogni odio personale, inarrestabili nel “rendersi morte”, essi incarnano così l´essenza del dialogo tragico. Il dialogo è tragico, quando le distinte dimensioni della Parola si incontrano e affrontano, pervenendo ciascuna all’acme della propria chiarezza, della coscienza di sé: proprio su questo limite manifestano l’impotenza a comprendersi ed accogliersi.
Quando due figure si affrontano con l´arma più tremenda, la parola, e scoprono reciprocamente di essere, per un efferato destino, impotenti all’ascolto, lì scoppia il conflitto incomponibile, che significa tuttavia, a un tempo, la necessità della loro relazione. Antigone non sarebbe senza Creonte. Soltanto con Antigone il dialogo diviene polemos purissimo, affrontamento di principî che si “conciliano” solo nel darsi reciproca morte (passim: Cacciari Introduzione ad Antigone).
Dunque quando una legge non ha consenso o non ha una sua precisa collocazione e giustificazione, può essere disattesa?
È giusto non rispettarla, se essa è contro l’interesse del più debole, perché ne distrugge ogni suo bene, ne conculca i diritti fondamentali?
Le leggi vanno osservate, ma un diritto di resistenza è dato, qualora esse non siano conformi ai principi dell’ordinamento, che affondano e si ritrovano nella culla di quelle non scritte , le leggi naturali.
Luciano Violante in un bellissimo libro dedicato al rapporto fra la giustizia ed il mito (Giustizia e Mito il Mulino) proprio a proposito del diritto di resistenza in Antigone ha ritenuto: “Sofocle ci dice che non c’è soluzione per i conflitti tra assoluti.
Tuttavia, seppure inconsapevolmente, Antigone con la sua contestazione propone un nuovo modello di ordinamento, una nuova gerarchia delle fonti, una nuova costituzione della città, fondata sui nomoi degli dei e non sulle leggi degli uomini. A Creonte, che rispondendo a Tiresia avverte che non lascerà seppellire il corpo di Polinice «neppure se volessero le aquile di Giove le sue carni predar recarle innanzi al trono del gran dio; neppure allora per evitar tanta sozzura il corpo seppellire lascerò» (vv. 1040-1044; trad. Romagnoli), la ragazza aveva risposto freddamente contestando il primato del suo bando sulle leggi immutabili. E alla fine Creonte concluderà «Temo infatti che il meglio sia compiere la vita custodendo le leggi dei padri». Creonte decide per una nuova gerarchia delle fonti: prima «le leggi dei padri» e poi i suoi decreti. Proprio questa conclusione mostra come l’atteggiamento di Antigone diventi di per sé fonte di diritto per la città di Tebe. Evidentemente Sofocle parteggia per la conservazione delle antiche usanze, contro la modernità della città-stato, che Creonte propone e cerca di difendere sino all’ultimo”.
Il conflitto tra Antigone e Creonte, proprio perché tra due assoluti, può essere mortale per entrambi. Creonte non può negoziare con Antigone, perché lei rifiuta ogni forma di mediazione e lui non ha vie d’uscita al di là della imposizione o della resa. Non c’è una Atena, come nelle Eumenidi, che possa scegliere tra i due principi in conflitto. Nessun oracolo ha vaticinato il destino dei due protagonisti, Apollo non è interessato alla soluzione del conflitto. Né è instaurata in Tebe una Corte, capace di determinare l’equilibrio tra la lex e lo ius. Uno dei due protagonisti è di troppo. E la tragedia si compie.
Il diritto di resistenza è contemplato nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 e nella Costituzione Americana e tedesca.
All’alba del costituzionalismo moderno era propugnato da Locke e da Hobbes contro il sovrano se non rispettava il pactum societatis.
Era l’ultimo baluardo contro la tirannia.
La tirannia è absque titulo: qui il tiranno è chi si impadronisce del potere senza averne ‘diritto’: il conquistatore che abbatte il potere politico esistente oppure l’usurpatore che non osserva le regole positive.
La tirannia è quoad exercitium: il tiranno diviene chi esercita il potere arbitrariamente, abusandone, in quanto non osserva i limiti o le regole positive, che la comunità politica considera determinanti per la legittimità di quell’esercizio.
Ne avevano già discettato i monarcomachi nel medioevo per punire quella potestas che sconfinava nell’iniquità del sovrano e lo stesso Tommaso D’Aquino.
Secondo grandi costituzionalisti (Luigi Ventura il diritto di resistenza Rubbettino) è immanente anche nella nostra Carta Costituzionale, anche se non è espressamente codificato. I lavori preparatori richiamano il tentativo di un suo inserimento da parte di Dossetti, ma vanamente.
Non è possibile disobbedire alla norma, bisogna attendere la Corte Costituzionale per eliminarla dal tessuto ordinamentale.
Resta dunque solo la pacifica disobbedienza civile,che rappresenta la cifra di un dissenso alla norma, non voluta dal popolo.
La disobbedienza civile scrive Rawls “è uno dei meccanismi di stabilizzazione del sistema costituzionale. Insieme a elezioni libere e regolari e a un sistema giudiziario indipendente dotato del potere di interpretare la costituzione, la disobbedienza civile,usata nei limiti stabiliti e con valido giudizio,aiuta a mantenere e rafforzare le istituzioni giuste”
La disobbedienza dunque è «un atto di coscienza pubblico, non violento e tuttavia politico, contrario alla legge, in genere compiuto con lo scopo di produrre un cambiamento nelle leggi o nelle politiche del governo».
Resta solo la speranza che le norme contemplino gli interessi di tutti e risolvano il conflitto tra le parti in gioco, accogliendo sempre le ragioni dell’altro.
Ma così non è per l’art. 560 cpc che merita la disobbedienza civile.
Lì non c’è ne’ il Giudice ne’ l’interesse del povero debitore. C’è solo il custode tiranno che può fare quello che vuole, abusare dei suoi poteri, contro le leggi non scritte: quella della pietas e dell’aequitas
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