Beni comuni

Dopo Montante, l’antimafia riparte dalle parrocchie

17 Maggio 2018

Mentre con “rumore di sfasciume”, per dirla con Sciascia, finisce la “volata” del fabbricante di biciclette Antonello Montante,“apostolo della legalità” osannato da toghe temerarie e celebrato da prosatori prezzolati, in Sicilia l’antimafia riparte dalle parrocchie. Stavolta la Chiesa è sul pezzo.

Pochi giorni prima dell’arresto dell’ex presidente di Sicindustria, i vescovi dell’Isola, riuniti ad Agrigento per ricordare il venticinquennale “grido” di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi: “Convertitevi!”, hanno indirizzato una lettera alle diocesi e a tutti i siciliani. Una lettera aperta, una circolare pastoralelontana anche dalle manfrine di mafiologi e sociologi cattolici. Stile feriale e discorsivo, non istituzionale né parenetico o devozionale. Registro comunicativo, più che analitico. Il testo è raccolto in un quaderno illustrato, una cinquantina di pagine corredate da foto d’archivio. Vale la pena spulciarle…

I vescovi riflettono innanzitutto sulla specificità dell’annuncio del papa polacco lungo le tappe della sua terza visita apostolica in terra di Sicilia. E si chiedono: fu la suggestione dello scenario ellenico a stimolare il suo ultimo saluto “a braccio”? Oppure la formula rituale dell“Andate in pace” al termine della messa? “Carissimi,” – disse Wojtyla – “vi auguro, come ha detto il diacono, di andare in pace e di trovare la pace nella vostra terra”. Un quarto di secolo dopo i vescovi affermano che il papa, in quell’occasione, tradusse “in siciliano” l’augurio liturgico della pace: proprio lì, all’ombra del tempio della Concordia. “Concordia in questa terra” aggiunse Giovanni Paolo II. “Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime”.

A proposito, i presuli si soffermano sul “dovere del ricordo” delle vittime di mafia: uomini dello Stato e delle forze dell’ordine, magistrati, sindacalisti, giornalisti, politici, imprenditori e commercianti. Di qui il “grato tributo” verso coloro che hanno lottato per liberare il popolo siciliano da una forza maligna sostenuta da poteri occulti e forti, capace di insozzare politica e pubblica amministrazione. Capace perfino di indurre qualche ministro di Dio, vigliacco e infedele, a piegarsi alla “civiltà della morte” e a calpestare il Vangelo. Così scrivono i vescovi. E aggiungono: la mafia è peccato, cioè rifiuto reiterato nei confronti di Dio e delle sue creature. I mafiosi sono tutti peccatori: gli assassini e i colletti bianchi. Peccato è anche l’omertà. Peccato grave è la mentalità mafiosa fatta di piccoli gesti di quotidiana prevaricazione. Peccato gravissimo è l’azione mafiosa portata a compimento in prima persona o anche solo commissionata.

I vescovi ricordano la reazione mafiosa all’anatema di Wojtyla: gli attentati del luglio 1993 a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro. E soprattutto l’uccisione a Brancaccio – il 15 settembre 1993 – del beato Pino Puglisi. Ma non tutte leconseguenze del grido agrigentino, osservano, furono negative. Si pensi per esempio alla metamorfosi del discorso ecclesiale sulla mafia (come intuito già da Cataldo Naro, arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006). Di qui l’invito a spezzare il silenzio con “parole nostre”. Il rischio, per i pastori dell’Isola, è quello di passare dal silenzio alle sole parole: il problema non è la brevissima risonanza delle condanne pubbliche nell’odiernasocietà mediatica ma il fatto che esse non vengono ascoltate nelle parrocchie e nelle strade. Bastano i documenti ecclesiali per scuotere i mafiosi? No, serve un piano di battaglia per formare piccoli e grandi, giovani e adulti, gruppi e famiglie, nelle parrocchie e nelle associazioni. La catechesi? Sistematica, il più possibile pratica e contestuale. Puglisi, Livatino? Non semplici vittime di mafia, ma martiri.

Il documento episcopale tratta inoltre il tema della valorizzazione e purificazione della pietà popolare e delle devozioni nei paesi siciliani. E chiarisce il significato della famigerata “scomunica”. Che fare di fronte all’affiliato mafioso che continua a farsi il segno della croce, ad andare a messa e partecipare a processioni e riunioni confraternali? Semplicemente risvegliare il senso dell’appartenenza ecclesiale. E, se necessario, mettere in chiaro che c’è una scomunica “di diritto” ma anche una scomunica “di fatto”. Non rimane dunque che rivolgersi, come Giovanni Paolo II, agli appartenenti a Cosa Nostra che vivono nel male e nel peccato violando le leggi dello Stato e quelle di Dio: convertitevi, la salvezza è possibile anche per voi. Perciò si sfrutti ogni occasione: il catechismo agli adolescenti (coinvolgendo i figli dei mafiosi), le celebrazioni del battesimo, della prima comunione edella cresima; le omelie funebri delle vittime di mafia e – dove e quando fattibile – degli stessi appartenenti alla mafia.

I vescovi interpellano anche i familiari delle vittime e tutte le persone di buona volontà. Infine si rivolgono “al Signore giusto e misericordioso”: una toccante preghiera con cui la Chiesa siciliana chiede luce, coraggio, giustizia, santità, ma anche perdono perlentezze, ritardi, distrazioni e silenzi.

Insomma: in tema di mafia e antimafia la Chiesa, dal canto suo, ha le idee chiare. E lo Stato?

 

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