Beni comuni

La disfida di Casamicciola, ovvero una storia del nostro futuro

28 Agosto 2017

Noi italiani abbiamo il gusto dell’emergenza, dell’emozione collettiva che questa implica ed ovviamente dell’istantaneo sollievo morale che proviamo tutti quando, auto-assolvendoci dalle nostre responsabilità collettive, possiamo identificarci nell’eroismo del soccorritore che interviene a salvare le vittime di una “catastrofe”.

Più volte si é detto che questa “drammaturgia dell’emergenza” ha il merito di unire un paese spesso disunito in virtù del fatto che per una volta non solo ci sentiamo tutti “dalla stessa parte” ma anche che, sempre per una volta, ci troviamo tutti ad essere sollevati all’idea che lo stato abbia una sua forza ed efficacia. In fondo, agli occhi di larghi settori dell’opinione pubblica l’unico stato che appare convincente e, in fondo, legittimo é quello che per l’appunto assume la forma di un individuo in divisa capace – come effettivamente spesso e meritoriamente avviene – di gesti e comportamenti eroici.

E la gran parte della classe politica e dei media, ben consapevoli di questa attitudine nazionale, ha rapidamente appreso che l’emergenzizzazione di molti problemi pubblici distribuisce loro dividendi abbondanti e di varia natura. Dividendi che sono tuttavia sempre effimeri, o meglio instabili nella loro distribuzione, perché trattandosi di piaceri istantanei che placano il pubblico emozionandolo, poi immancabilmente lo lasciano ancora più disorientato e impaurito (e quindi alla ricerca di chi meglio di prima saprà intercettare questa accresciuta paura).

Ma il problema fondamentale del dominio che la drammaturgia esercita sul nostro discorso (e pensiero) pubblico risiede non tanto in quello che ci fa vedere della realtà quanto in quello che non ci fa vedere. Ovvero che dietro ogni problema pubblico che noi trattiamo nei termini di emergenza se ne nasconde uno che ci chiede urgentemente conto della nostra visione del futuro e, in particolare, che dietro ogni “catastrofe” si nasconde un “disastro territoriale” che dell’assenza di tale visione, informata e credibile, del futuro é l’esito probabile della traiettoria di sviluppo di qualsiasi località in un territorio complesso come il nostro.

 

Da Alfredino in poi abbiamo travestito da “emergenze” i nostri “disastri territoriali”

Lo stesso evento di cronaca che istituì questo durevole regime drammaturgico é stato, a ben vedere, un disastro territoriale. Disastro ovviamente mai riconosciuto come tale e dissimulato nella memoria collettiva quale acuto emozionale legato all’eroica gestione di un’emergenza. Il 10 giugno del 1981, Alfredino Rampi finisce accidentalmente in un pozzo mentre, si dirà, “faceva una passegiata nelle campagne di Frascati”. Ma quella non era più la campagna di Frascati, bensì un lembo dell’immensa periferia metropolitana di Roma che in larga parte – specie in quelle aree a est della capitale – era fatta di nuclei edilizi sorti al di fuori delle previsioni del piano regolatore. Nuclei che quindi erano abusivi esattamente come il pozzo in cui era caduto Alfredino realizzato da un operaio su di un fondo sul quale era in programma l’edificazione per l’appunto abusiva di un immobile (si veda Massimo Gamba, L’Italia nel pozzo, 2011).

Alfredino quindi non era accidentalmente caduto in un “pozzo in campagna”, bensì in un pozzo che si trovava in un territorio in via di rapida trasformazione che se non era più campagna certo non era ancora – e in fondo non lo sarebbe mai stato – città, un territorio inedito i cui caratteri – ancor di più, i suoi stessi pericoli – erano relativamente ignoti ai suoi stessi abitanti e utilizzatori. Eppure anche quella storia la ricordiamo non come la storia di un “disastro territoriale” – di quello, a ben vedere, si trattava – e della sua vittima ignara bensì come la storia di un’immensa mobilitazione popolare – per la prima volta mediatizzata e quindi costruita in “tempo reale” e “a distanza” – attorno all’eroismo dei soccorritori che alla fine, nonostante gli sforzi e a causa di qualche errore dovuto proprio al carattere inedito della situazione che si trovavano a trattare, non riuscirà comunque a salvare la vita di Alfredino.

Successivamente, si disse anche che il Presidente Sandro Pertini – un uomo che aveva già mostrato tutto il suo “carisma pubblico dell’emergenza” in occasione del sisma in Irpinia in occasione del quale aveva pubblicamente fustigato il governo per la disorganizzazione dei soccorsi – reagì ai fatti di Vermicino chiedendendo che si istituisse un ministero della protezione civile e che il giorno in cui questo avvenne ci tenne a comunicare personalmente la notizia alla madre di Alfredino (si veda sempre Gamba, op.cit). Pertini – questo é un aspetto essenziale della vicenda – si impegnò per un ministero della protezione civile, non per un ministero della pianificazione e delle politiche territoriali come sarebbe stato più, o quanto egualmente, razionale.

 

E se da Casamicciola potessimo imparare qualcosa di nuovo?

Ovviamente, l’impegno del Presidente Pertini e di altri nella costruzione di un più adeguato sistema di protezione civile fu assolutamente meritorio come meritorio é l’impegno di quanti oggi si muovono nella stessa direzione. Tuttavia a colpire é il fatto che una successione impressionante di disastri territoriali ci abbia soprattutto lasciato un sistema di protezione civile e non un sistema di pianificazione e di politiche del territorio radicalmente riformato (anzi, proprio all’inizio degli anni ottanta sarà chiaro che tale riforma non sarebbe mai stata conseguita). Come noto, i sismi hanno implicato da quel punto di vista alcuni progressi legislativi eppure abbiamo la sensazione, fondata, che le domande fondamentali poste da quei disastri riguardo il futuro siano rimaste largamente ignorate e dissimulate dalla drammaturgia, effimera ma efficace, dell’emergenza.

Con il passare del tempo le cose sono quasi peggiorate e in occasione di un altro sisma, quello de L’Aquila, in cui lo stato mise in campo una strategia di gestione muscolare fortemente mediatizzata, la politica della gestione in emergenza dei problemi pubblici quasi riuscì, con il lancio del progetto della cosiddetta Protezione Civile Spa, a istituzionalizzarsi durevolmente per via extra-costituzionale nel nostro ordinamento affermando il principio che il governo delle questioni critiche e complesse (ma anche cose più banali, come i grandi eventi) – come lo sono congenitamente i rischi – poteva essere realizzato solo a patto che vi fosse meno partecipazione, meno trasparenza e soprattutto di fatto meno informazioni e conoscenze coinvolte ovvero meno pianificazione, in un’accezione democratica di quella parola. Quel tentativo tuttavia non superò mai il test dei nostri pur deboli equilibri istituzionali – che, evidentemente, sono fortunatamente più forti di quanto spesso sospettiamo – ma certo testimoniò con forza di una tendenza politica e culturale più complessiva che aveva degli interpeti, degli ideologi ed un certo seguito – emozionale – nell’opinione pubblica.

Da allora si sono come sappiamo succeduti altri sismi e, in occasione del recente sisma di Casamicciola, abbiamo avuto la sensazione che forse qualcosa di diverso era accaduto e che forse si poteva sperare in – ed investire su – un diverso discorso pubblico riguardo i rischi territoriali. Il consueto plebiscito nazionale mediatizzato attorno all’opera di intervento post-emergenza ha mostrato qualche crepa – e qui la questione ovviamente non sta nel celebrare il lavoro dei soccorrittori, ma nel fare solo quello – perché nella rappresentazione pubblica di quanto accaduto, sebbene in termini spesso viziati dal disinformato antimeridionalismo pret-a-porté proprio alla seconda (e terza) repubblica, si é imposto fin da subito il tema dell’ “abusivismo” orientando l’attenzione dell’opinione pubblica su una verità che, come a ben vedere già evidente nel dramma di Alfredino, non é forse eccessivo definire tragica: ovvero che, collettivamente, noi italiani non siamo in grado di assolvere una funzione essenziale di una società democratica, quella della protezione della vita di chi di questa società – de jure e de facto – fa parte ed in particolare quella dei più vulnerabili dei suoi membri (dei bambini, in questo caso). Oppure, meglio, che non riusciamo a farlo in una misura soddisfacente ovvero coerente con i nostri elevati livelli di sviluppo economico e di ricchezza (siamo meno vulnerabili ai sismi di quanto lo sia l’Iran, ma molto meno di quanto il nostro maggiore livello di ricchezza dovrebbe implicare). E che questo deficit di pretezione ci rimanda a quella domanda fondamentale che le retoriche dell’emergenza ci hanno fatto sempre abilmente driblare, ovvero la domanda relativa alla nostra capacità di costruire visioni – relativamente condivise e per questo legittime – del futuro del territorio e di come, letteralmente, ci “regoliamo” per realizzarle.

 

Negli anni della crescita abbiamo acculumato non solo il debito pubblico, ma anche il debito territoriale

Forse in virtù del carattere di micro-cosmo che le discende dal suo essere un’isola che vive prevalentemente di flussi turistici di natura ormai globale, Ischia si é subito offerta a noi come il caso perfetto di un’organizzazione del territorio strutturatatasi attorno all’auto-somministrazione di un generoso “sconto” collettivo, sebbene inegualmente distribuito, dei costi fondamentali che una qualsiasi società locale deve sostenere per assicurare la produzione di beni pubblici, beni che sono indispensabili al benessere attuale ed allo sviluppo futuro. Ad essere stati scontati sono stati in particolare i costi inevitabili che si devono affrontare quando si pianifica un territorio scegliendo ad esempio di sottrarne alcune porzioni all’edificazione – tre stanze d’albergo (e oggi sempre più di bad&breakfast) in meno in un determinato luogo per tutelarne l’integrità ecologica, che é funzionale a diversi interessi collettivi – e richiedendo a cittadini e imprese (e soprattutto ai cittadini che si fanno imprese) di affrontare consapevolmente costi maggiori per tutelare la sicurezza loro e con essa anche quella pubblica – un maggiore costo di costruzione in linea con le previsioni anti-sismiche per ridurre il numero delle vittime potenziali ed i relative costi.

Questi costi, semplicemente, sono stati scontati nel senso che a Ischia come altrove si é deciso – in modo raramente consapevole e quasi mai esplicito – di darsi modi scarsamente razionali di regolazione nei quali alcuni gruppi sociali ottenevano dei vantaggi immediati – costruire quelle tre stanze d’albergo in più, spendere di meno in quel progetto edilizio – girando ad altri gruppi sociali e ad altri momenti nel tempo il pagamento del conto completo in precedenza dissimulato da quello sconto (dal punto di vista territoriale é proprio vero che, come diceva Milton Friedman, “There ain’t no such thing as a free lunch”). Ancora più gravemente, e qui ci spieghiamo il consenso su cui queste sregolazioni si sono rette e tutt’ora si reggono, si é riusciti anche a ottenere l’acquiescienza dei gruppi sociali che non beneficiavano direttamente di queste “sregolazioni” attraverso qualche vantaggio – il proprio pezzetto di sregolazione nella forma della stanza abusiva in più che magari, di fronte all’accrescersi dei flussi turistici, possa essere affittata d’estate e, soprattutto, un pò più di lavoro stagionale nel turismo, grazie alle stanze in più e anche qualche cantiere in più perché quelle stanze in più andavano pur costruite – dissimulando e spesso ignorando le implicazioni (e i costi) futuri. In altre parole, mentre la “nave andava” si accumulava nel back-stage un gran numero di “tragedie dei beni comuni” – fra le quali quella immateriale della sicurezza collettiva – pronte ad esplodere.

Per tutte queste ragioni, il momento del “disastro territoriale” riveste nella costruzione della nostra opinione pubblica un ruolo fondamentale, perché potenzialmente in quell’occasione questi meccanismi di sregolazione locale si mostrano per quello che sono, mettendoci di fronte alla realtà che alla fine qualcuno paga. E le vittime talvolta coincidono con chi ha beneficiato maggiormente di quel sistema sregolato – situazioni nelle quali si rende evidente il carattere “cognitivo” del problema, prima ancora che “morale” (il non capire ed il non prendere sul serio i rischi, non semplicemente il voler assegnarli agli altri) – ma che più spesso sono persone che non solo hanno avuto un ruolo più passivo in quel sistema ma anche che ne hanno beneficiato di meno: dai bambini di Casamicciola fino a quelli di annegati negli androni dei palazzo di Genova nel 2011, dagli operai emiliani morti sotto i capannoni dove lavoravano nel 2010 fino alle famiglie uccise a L’Aquila nei loro condomini nel 2009 – nella lotteria del rischio territoriale italico c’é sempre qualcuno che si trova a dover saldare il conto della sregolazione – come la definiva lo studioso Carlo Donolo – della nostra crescita territoriale. Quando nostalgicamente – e strumentalmente – si ricordano i fasti dell’Italia del miracolo economico – e dei miracoli regionali protrattisi fino alla fine degli anni novanta – si dovrebbe avere egualmente presente che quei modelli di sviluppo – ed in particolare quello di alcuni territori, certo non solo del Mezzogiorno – sono stati possibili (e competitivi) perché, per l’appunto, per accelerare la crescita sono stati scontati molti costi indispensabili che ora stanno ritornano – come si dice comunemente – con gli interessi nella forma di tragedie umane e costi economici sempre maggiori. In altre parole, nei decenni della grande crescita, abbiamo accumulato non solo un enorme debito pubblico ma anche un altrettanto enorme debito “territoriale”, un debito che si traduce in meno sviluppo oggi e che qualche volta diventa un disastro.

L’unico uso politico dei disastri territoriali che risulta quindi eticamente non solo accettabile ma anche desiderabile é quello capace di mettere l’opinione pubblica di fronte al carattere congenitamente politico e sociale delle loro origini, facendo capire come, ben lungi dall’essere “emergenze” destinate ad essere dilavate dall’eroismo dei soccorritori, questi sono viceversa portatori di domande profonde, radicali e difficili riguardo il nostro modello di sviluppo e al nostro modo di “regolarci” che esso implica.

 

Non di solo abusivismo vive la sregolazione

Eppure anche nel caso di Casamicciola, sebbene ci siamo affacciati alla finestra, ancora non siamo riusciti a guardare la luna fermandoci bensì a fissare il ditto scambiando, da un certo punto di vista, la parte per il tutto. “Le case sono crollate perché abusive”, si é detto. Ed in effetti, come noto, a Ischia il numero di richieste di condono é altissimo come altissimo é il numero di richieste che avrebbero dovuto essere rigettate e che, per questa ragione, sono state semplicemente ignorate attraverso il meccanismo del condono informale dell’incondonabile che le amministrazioni mettono spesso in atto semplicemente omettendo di rispondere negativamente alle richieste che lo meriterrebero.

E i numeri di Ischia, sebbene parossistici, certo non possono stupire. L’abusivisimo in Italia é stato una politica attiva, non il risultato dei cattivi costumi di qualche singolo bensì una delle forme attraverso le quali si é prodotto e riprodotto il nostro sistema sociale. Una politica della casa e della proprietà – milioni di famiglie, con largo consenso politico, sono diventate piccoli proprietari a prezzi scontati grazie alla tolleranza prima ed al condono poi – ma anche una politica di crescita economica – si sono costruiti capannoni, di nuovo, a prezzi scontati ed estenalizzando molti costi alla collettività per ospitare attività economiche che in questo modo godevano di un vantaggio competitivo. I tre condoni hanno permesso di sigillare tale situazione – allineando il paese formale a quello reale, a condizioni non proprio eque e vantaggiose – trasformandola in una condizione di pieno diritto che progressivamente si é di fatto estesa anche a chi – dopo 30 o anche 10 anni – il condono pur chiedendolo non l’ha mai ricevuto e a chi non si é nemmeno peritato di chiederlo (a colpire nel trattamento pubblico dell’abusivismo é la incredibile stratificazione delle condizioni individuali che, ovviamente, permette elevate livelli di discrezionalità da parte di tecnici e politici) .

Eppure l’abusivismo che, é di per sé un problema intricatissimo, non é IL problema, bensì la spia del problema. Sappiamo infatti benissimo – limitandoci al piano dei disastri territoriali – che i capannoni crollati con il terremoto in Emilia del 2010 non erano abusivi come non erano abusivi i condomini de L’Aquila crollati nel 2009 oppure i condomini di Genova realizzati contestualmente alla disastrosa artificializzazione del corso dei fiumi che l’attraversano. Sappiamo addirittura che alcuni moderni edifici pubblici – si veda il caso di Amatrice – sui quali erano stati realizzati degli interventi di adeguamento proprio in seguito ai precedenti sismi sono crollati quanto vecchie abitazioni di pietra. Come certo non erano abusivi gli edifici dei crolli di Roma e di Foggia – della fine degli anni novanta – che si produssero peraltro non in presenza di un shock esterno. Quindi l’Italia non é vulnerabile in quanto molto abusiva ma perché complessivamente “sregolata” e rispondere alla sregolazione non é equivale rispondere solo all’abusivisimo bensì più complessivamente al sistema che produce, fra le altre cose, l’abusivismo.

Un sistema “sregolato” nel quale non abbiamo chiari collettivamente quali sono i beni pubblici che vogliamo tutelare e sviluppare per quale ragione e soprattutto sacrificando cosa, nel quale abbiamo troppo spesso perso il senso cognitivo e funzionale delle regole (a cosa serve quella regola, a proteggere quale bene pubblico?) perché non si é ritenuto necessario in una società che si vuole democratica condividerlo e spiegarlo, nel quale si é rinunciato a verificare la stessa attuazione e quindi utilità di tali regole (il condono e le sue incredibili aporie é da questo punto di vista é un caso eccellente), nel quale – si pensi ad esempio ai piani casa oppure alle politiche di defiscalizzazione della realizzazione dei capannoni di Tremonti – si sono prodotti  effetti territoriali simili a quelli dell’abusivismo ma in modo perfettamente legale.

Un sistema nel quale, complessivamente, ci siamo privati dei mezzi per costruire e attuare quelle visioni del futuro che dovrebbero permetterci – collettivamente – di vivere meglio proteggendoci in modo ragionevole in un contesto rischioso. E per fare questo le demolizioni, per quanto assolutamente desiderabili (e peraltro dovute) in molti casi, non bastano a risolvere il problema. E, da un certo punto di vista é altrettanto importante il capire come ci arriviamo alle demolizioni.

 

Se non ricostruiamo l’azione pubblica, non potremo ricostruire i nostri territori

Se questo é il vero problema sappiamo che si tratta del problema che, nella sua immaterialità, é il più difficile di tutti e i cui “punti di entrata” – in termini di temi e questioni – sono in numero molto elevato. In questa sede mi interessa attirare l’attenzione su quello che per chi scrive é la precondizione senza la quale, semplicemente, é davvero inutile persino di iniziare un discorso sul come i territori possano rispondere ai rischi. Un discorso che deve partire dal chiederci se e quanto, a questo proposito, si possa fare a meno dello stato e di una – solida, informata, partecipata – azione pubblica. In altre parole, possiamo pensare che gli albergatori (diffusi e molecolari) di Ischia oppure i produttori vinicoli dell’Alto Trevigiano – per prendere due possibili esempi fra tanti – siano in grado di auto-regolarsi costruendo visioni ragionevoli del futuro dei loro territori che li mettano al riparo dai rischi emergenti? I risultati, l’ingente debito territoriale accumulato e i disastri che hanno investito quelle aree del paese, sembrerebbero dirci di no, che non é affatto possibile. Eppure, fondamentalmente, negli ultimi decenni abbiamo pensato di sì lasciando che la sistematica opera di contrazione e dequalificazione delle amministrazioni pubbliche – associata a una continua e paradossale espansione delle loro responsabilità – promossa dalle politiche di austerità e di esternalizzazione si trasformasse in uno dei maggiori fattori di drammatizzazione dei rischi territoriali nel nostro paese.

Quando abbiamo pensato di poter evitare di rimpiazzare chi andava in pensione nel settore pubblico lasciando fuori dalle amministrazioni comunali – attualmente fra le più anziane d’Europa – un’intera generazione di giovani formatisi qui ed all’estero, quando abbiamo deciso di abolire le provincie per eliminare poche migliaia di emolumenti per il personale politico rinunciando a quella che poteva essere una scala adeguata di pianificazione del territorio, quando abbiamo tollerato che il legislatore producesse riforme che si accompagnavano alla formula del “senza oneri aggiuntivi” e “nell’ambito delle dotazioni organiche esistenti” che, come tali, erano destinate a non avere alcun impatto reale sulle materie che queste regolavano abbiamo contribuito in modo decisivo a indebolire le nostre linee di difesa contro i rischi.

Di queste politiche di austerità si presentavano gli apparenti vantaggi – meno costi e ad esempio “meno impiegati da scrivania” che, diversamente dalle figure del soccorso, non godono di ottima stampa – dissimulandone gli imponenti costi collettivi che riemergono ogni qual volta che scopriamo che intere politiche pubbliche decise a livello nazionale non sono state attuate semplicemente perché a livello locale non c’era letteralnente nessuno in grado di attuarle. Peraltro, diversamente da quanto suggerito, lo svuotamento delle amministrazioni pubbliche – attualmente, in media, una delle più anziane d’Europa – non ha lasciato spazio a una società civile robusta e sofisticata in grado di auto-regolarsi bensì ha probabilmente contribuito all’impoverimento stesso della società civile che, viceversa, doveva e poteva essere stimolata ed aiutata a crescere proprio da una rafforzata e riqualificata azione pubblica. Ed ovviamente, e qui si torna al principio di questo ragionamento, tutto questo ha contribuito in modo decisivo ad aumentare la domanda di interventi e regimi operativi di natura emergenziale, che costano ovviamente di più mettendo contestualmente in tensione i normali rapporti democratici.

Contestualmente, per modernizzare il patrimonio edilizio, favorire la transizione energetica e – da ultimo – incrementare la sicurezza sismica si é potato per la strada degli incentivi fiscali – un oggettivo successo dal punto di vista quantitivo – alimentando di nuovo l’idea che queste questioni complesse potessero essere risolte senza tutto  quello che sta nel mezzo fra i singoli individui e lo stato centrale, ovvero le amministrazioni comunali, le politiche attive che queste possono promuovere e perfino l’apparente banalità degli individui associati in condomini (quanto, c’é da chiedersi, questa massa ingente di investimenti in ristrutturazioni edilizie sarebbe stata più produttiva se fosse stata pianificata e coordinata con i privati a livello territoriale ?).

Il problema quindi non é solo l’abusivismo, ma la nostra strutturale incapacità di aggredire – atraverso un’azione pubblica qualificata e innovativa – la (s)regolazione locale nel quale esso si genera. Tante sono le frontiere con la quale questa dovrà confrontarsi: da una ripianificazione del territorio che restituisca alla natura aree rischiose densificando aree viceversa sicure alla costruzione di mercati del turismo che spingano gli operatori a comportamenti virtuosi e gli utenti a richiedere e a premiare tali comportamenti, dalla formazione di una nuova cultura del rischio nella popolazione fondata su una diffusa comprensione delle basi razionali di determinate regole pubbliche all’individuazione di forme eque e solidali di indennizzazione e prevenzione dei rischi.

Tutto questo chi lo farà se nei nostri comuni manca un’intera generazione di urbanisti, esperti di politiche pubbliche, scienziati sociali, geologi, ecologi, architetti e ingegneri?  Ricordiamoci, alla prossima tragedia, che il giorno in cui abbiamo pensato di non assumere un eccellente funzionario pubblico é il giorno in cui abbiamo deciso di scontare alcuni costi fondamentali per lo sviluppo. E che il conto completo a un certo punto arriva e che nella lotteria del nostro rischio territoriale potrebbe essere il più vulnerabile a pagare.

 

 

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