Beni comuni

Contro lo strapotere dei social media… torniamo ai media (di qualità)

12 Gennaio 2021

Hegel diceva, com’è noto, che “la preghiera del mattino dell’uomo moderno è la lettura del giornale. Ci permette di situarci quotidianamente nel nostro mondo storico”. Era un’altra epoca, molto lontana dalla nostra. Hegel aveva visto Napoleone uscire da Jena per andare in ricognizione, e una volta che si è contemplato l’anima del mondo andare a cavallo si è a posto per tutta la vita, i giornali bastano e avanzano.

Oggi quello che facciamo la mattina, ancora prima di andare in bagno o di prendere il caffè, è precipitarci a consultare Facebook o Twitter per vedere cosa dice la nostra bolla. Perché i nostri “amici” sui social sono tutte persone che la pensano, più o meno, proprio come noi: i vegetariani sono amici di altri vegetariani, i cultori della braciola hanno come amici i fan del barbecue e gli ultras della fiorentina. Anche perché l’Algoritmo – se fosse vivo Hegel chissà che magnifica definizione ne darebbe – ci fa vedere soprattutto i post degli amici con cui abbiamo più interazioni; e si sa: a meno che uno non sia masochista, interagisce soprattutto con le persone con cui va più d’accordo.

Come ha scritto il direttore di questo quotidiano quattro giorni fa, Facebook “da anni costruisce con la sua azienda bolle perfette attorno agli utenti. Bolle che plasmano attorno a ciascuno di noi pareti su misura, disegnate in base ai nostri interessi commerciali, alle nostre passioni, alle nostre inclinazioni, alle nostre paranoie”.

Nel 2017 quasi uno statunitense su due si affidava principalmente a Facebook per informarsi. Questo è preoccupante, estremamente preoccupante. Perché se per conoscere il mondo ci affidiamo a una piattaforma digitale che fa di tutto per darci la rappresentazione del mondo che ci piace, se l’informazione che cerchiamo è uno specchio che ci asseconda, ci dà ragione a prescindere, conferma i nostri giudizi, pre-giudizi e fobie… siamo nei guai.

A chi si dà sempre ragione? A quattro categorie di persone: ai dittatori, ai bambini molto viziati, ai moribondi e ai pazzi. Dato che ormai è d’obbligo un riferimento alla cosiddetta “cultura pop”, una citazione cinematografica, tratta da un film, “Sfera”, con Dustin Hoffman, Sharon Stone e Samuel L. Jackson (una pellicola tratta da un romanzo del compianto Michael Crichton, che non ebbe molto successo).

In fondo al mar (attenzione: spoiler in arrivo) c’è una strana, potente sfera aliena che trasforma in realtà i pensieri dei nostri eroi, inclusi i più reconditi e terrificanti; ovviamente le cose prendono presto una brutta piega, perché – per citare il dottor Goodman, ossia Dustin Hoffman  – “[noi esseri umani] siamo così primitivi, abbiamo dentro di noi così tante paure”. E così il dono degli alieni diventa una maledizione, e solo il genio di quel brav’uomo del dottor Goodman impedisce a Beth, ossia Sharon Stone, di fare la fine del sorcio.

Gli esseri umani non vanno sempre assecondati. Abbiamo bisogno di essere criticati, contraddetti e persino sbeffeggiati. Se no rischiamo di precipitare nell’abisso del delirio e della paranoia. Ecco perché i romani facevano sì che durante i trionfi dei generali vittoriosi i legionari coprissero di frizzi, battute oscene e lazzi quegli stessi condottieri che avevano sgominato orde di galli e armate di parti. E accanto al generale c’era chi gli sussurrava “memento mori”: sei un mortale come tutti, non ti montare troppo la testa.

Sui social media la critica è poco tollerata. O è bianco o è nero. O apprezzi, piacci e magari condividi, o se commenti in modo anche solo negativo rischi di innescare polemiche chilometriche dove tre volte su quattro viene prima o poi citato Hitler (è la cosiddetta “reductio ad Hitlerum”). Scoppiano guerre (verbali) di logoramento, dove “vince” chi riesce ad avere l’ultima parola, ma dove capita molto di rado che qualcuno cambi idea (specialmente se il confronto è con un estraneo). Si perde tempo, soprattutto.

È difficilissimo avere una conversazione complessa e sofisticata sui social media, è molto facile ferire i sentimenti di qualcuno, o contribuire a promuovere qualche bufala (fake news): perché se a una mia osservazione sul calo del tasso di natalità degli immigrati qualcuno risponde citandomi l’immane idiozia del Piano Kalergi, e io rispondo e contro-rispondo, in realtà i miei sforzi di smontare la scempiaggine concorreranno a dare più evidenza proprio a quel pezzo di conversazione (don’t feed the troll, si dice).

Informarsi in modo intelligente e completo sui social media è estremamente arduo, per non dire impossibile. Anche perché i post con link esterni tendono a essere penalizzati. Nelle intenzioni dei “nuovi padroni dell’universo”, non bisogna mai uscire dalla piattaforma digitale: più tempo ci stai, meglio è (per loro, e per chi fa pubblicità con loro).

Per questa ragione esistono i media, a partire proprio dai giornali (cartacei e non). Il borghese citato da Hegel non voleva essere assecondato. Naturalmente si aspettava che il giornale rispecchiasse i suoi buoni valori borghesi, ma non voleva essere trattato come un bimbo viziato, un matto, un moribondo o un autocrate. Anzi, sapeva apprezzare il dibattito anche aspro, entro certi limiti, perché fondato sui fatti. Per tale ragione si opponeva alla censura, occhiutissima in Prussia come in molte altre parti d’Europa.

Un buon giornale cerca di dare spazio al maggior numero possibile di fatti rilevanti, e a un ventaglio ampio di opinioni. Hanno cittadinanza anche i fatti e le opinioni che al lettore magari non piacciono, o piacciono poco. Non a caso un tempo si parlava con un certo disprezzo dei giornali “di partito”, a meno che non fossero davvero di qualità, e quindi inclini a scostarsi dalla linea di partito.

Una nota personale: io non amo i social media. Preferisco informarmi in modo arcaico, e consulto regolarmente il Corriere della Sera, il manifesto, Il Sole 24 Ore, Internazionale, La Stampa, La Repubblica, il Foglio, Pandora Rivista, Jacobin, National Geographic, Le Scienze, Eastwest, Gli Stati Generali, per citare le testate nella nostra lingua. Se posso le compro in edicola, perché anche gli edicolanti sono parte essenziale dell’ecosistema informativo di una nazione.

A proposito, uno dei grandi pregi de Gli Stati Generali è che qui trova spazio una vastissima gamma di opinioni, culture, sensibilità e idee molto diverse tra loro: hanno cittadinanza gli intelletti liberisti e socialdemocratici, liberali e conservatori, sviluppisti ed ecologisti, femministi e tradizionalisti, credenti e atei, vegani e carnivori, artistici e scientifici.

L’antidoto allo strapotere dei social media si chiama media (di qualità e pluralisti). Si chiama conferenze stampa, purché fatte bene e non orientate al monologo o alla farsa. Si chiama talk show, a patto che non siano arene dove si urla e si insulta. Si chiama cinema, letteratura, arte, teatro, poesia, musica, storia, matematica…

Se i social media hanno così tanto potere sulle nostre vite, è perché glielo danno i cittadini. Perché si informano più lì che qui. Perché impera una vera e propria ossessione per il numero di like, retweet, click e share che si riceve. Perché i politici preferiscono parlare ai loro elettori sui social media, con le “dirette”, con i tweet, con i post. Perché i media inseguono da anni i social media, come nelle commedie d’altri tempi quelle mogli che, per strappare il marito idiota dalle braccia della femme fatale, si stra-truccavano e iniziavano a vestirsi in modo super-provocante.

E in che modo i media inseguono i social media? Con immagini sempre più forti e crude; con un linguaggio ogni giorno più enfatico e aggressivo, dove abbondano termini come “assalto”, “assedio”, “guerra”, “shock”, “bomba”; con titoli sempre più assertivi e semplicistici (“ecco perché…”, “ecco come si può…”, “tutto su…”: come se la complessità del reale potesse essere esaurita da un singolo articolo).

Perché si crede che l’informazione gratuita sia più o meno uguale a quella a pagamento. Non è vero: l’informazione gratuita è molto più costosa, alla lunga. È un po’ come il junk food: una schifezza di tanto in tanto può essere uno sfizio godurioso, e riempie, ma di certo non nutre. Alla lunga mangiare junk food può provocare gravissimi danni alla salute, come ben insegna il documentario “Supersize me”. Un fegato malato costa molto ma molto di più di una buona dieta mediterranea. E la nostra “dieta intellettuale”?

I post e i tweet sono spesso ad alto o altissimo tasso di emotività (in modo da favorire i click e le condivisioni), però non informano davvero. E sono oltremodo diseducativi, perché danno l’illusione di “sazietà informativa” con poco sforzo, quando in realtà ne si sa meno di prima.

Persino i post e i tweet della miglior testata del mondo non informano così tanto, perché spesso l’internauta si accontenta del titolo, e non va a leggere l’articolo o vedere/ascoltare il servizio, nemmeno quando esso è gratuito. Si accontenta del titolo, per pigrizia, mancanza di tempo… ma anche perché è tutto gratuito. Se avesse pagato qualche soldo, per quell’informazione, forse non si accontenterebbe del titolo.

Si dirà: oggi nessuno ha tempo di leggere un giornale o una rivista. Sciocchezze: il tempo per sciropparsi le venti e passa ore di questo o quel telefilm lo si trova; il tempo per andare in palestra o per sorbire lo spritz con i colleghi lo si ha, pandemia permettendo. Cercare di essere informati in modo dignitoso è fondamentale per essere dei cittadini decenti, per avere una democrazia in salute, per difendere la propria libertà. E per non dare troppo potere a giovani miliardari che, da qualche villone in California, decidono di silenziare questo o quel politico. Oggi tocca a Trump e a Ron Paul, domani a chi?

PS

E d’altra parte è il liberismo estremo, bellezza: molti hanno creduto che il mercato, che le multinazionali fossero in grado di autoregolarsi. Non è così. I grandi potentati economici (della Silicon Valley come di ogni altra parte del globo) tendono all’arbitrio e al monopolio; qualche volta lo teorizzano pure esplicitamente. Non danno nulla gratis, men che meno la merce più preziosa: l’informazione.

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