Beni comuni

Contro il dominio dei costi e l’ossessione dei tagli alla spesa

19 Aprile 2020

L’attuale crisi indotta dalle epidemie di Covid-19 mette in evidenza una crisi delle infrastrutture sanitarie aggravata, se non causata, da una politica di riduzione dei costi perseguita con crescente accanimento negli ultimi decenni. Quanto è ora il costo di dover fare i conti con tale politica? Sicuramente di molti ordini di grandezza superiore.

Oggi, come dopo le crisi del 2008 e del 2011, tutti i modelli secondo i quali si dovevano allocare le risorse rispettando criteri ritenuti quasi intoccabili, saltano, e là dove si centellinavano i milioni si stanzieranno i trilioni. Strappi in condizioni di estrema emergenza? O dimostrazione che quei modelli e quei criteri sono solo idoli di un sistema che non sa uscire da una crisalide epistemica?

Anche in assenza di “cigni neri”, il costo della non-qualità è sempre molto superiore al costo della qualità. Nonostante ciò sia stato dimostrato con evidenza almeno fin dagli anni ’80, si è pervicacemente favorito – su scala globale – lo sviluppo di un’economia basata sulla riduzione dei costi, anche in presenza di risorse abbondanti, anche quando lo stesso non-utilizzo delle risorse poneva dei problemi.

Ci sono evidenze svariate dei danni incalcolabili – e delle opportunità perdute – causate da questa impostazione, e a tutti i livelli. Si tratta di un vizio sistemico estirpabile solo con un’azione altrettanto sistemica e coinvolgente, dai modelli teorici dell’economia all’educazione delle persone, dalla ridefinizione dei valori patrimoniali alla revisione delle norme che regolano la finanza pubblica.
Sono sempre esistite due filosofie rispetto alle scelte di spesa e di investimento. La prima privilegia la qualità sul costo: ogni plus di qualità è da adottare e rispettare col massimo rigore possibile sempre e a prescindere dal costo; la seconda ritiene più utile un compromesso: la qualità costa, la non-qualità anche, occorre stabilire un livello di qualità accettabile, che permetta le funzioni dei processi coinvolti senza costare troppo.

Numerosi studi hanno dimostrato come la scelta della seconda filosofia sia sempre fallimentare.

La partecipazione attiva al programma CMS – Cost Management System del CAM-I (USA, www.cam-i.org ), che opera dal 1984 e ha avuto un ruolo importante nel cambiamento del pensiero economico e manageriale al volgere degli anni ’90 (*), ci consente una testimonianza diretta di come questi studi abbiano portato alla luce questioni fondamentali, spesso nascoste da diversi strati di prassi e modelli applicativi ritenuti validi ed esaustivi, ma in realtà parziali e svianti, quando non mistificatori.

(*) Questo lavoro di ricerca è stato così commentato da Peter Drucker, su HBR (1990): “… ha scatenato una rivoluzione intellettuale. Il più eccitante e innovativo lavoro nel management oggi, con nuovi concetti, nuovi approcci, nuova metodologia – fino a quello che si potrebbe chiamare una nuova filosofia economica – che stanno rapidamente prendendo forma…”.
L’antefatto e la motivazione di studi come il CMS stavano in quello che fu chiamato il “Paradosso della Produttività”: paradosso rispetto a un teorema a monte secondo il quale se tutti i sottosistemi di un sistema funzionano “bene”, funzionerà “bene” anche il sistema nel suo complesso. Purtroppo non è così, perché l’idea di “bene” cambia a seconda del contesto in cui viene pensata e perseguita.
Un parametro che evidenzia tale differenza di prospettiva è proprio il costo, quando questo diventa la misura dell’efficienza, del rispetto del budget, dell’ottenimento di risultati. Non è difficile capire che il responsabile di un sottosistema sarà portato ad adottare la seconda filosofia, quella della qualità di compromesso, non quella della qualità “totale”; in questo modo le mancanze e le inadeguatezze dei suoi processi sono scaricate a valle: a ottimi risultati interni al sottosistema corrispondono una serie di esternalità negative, spesso destinate a moltiplicarsi esponenzialmente. Le mancanze e inadeguatezze non erano solo dovute al modo in cui i processi venivano svolti, ma anche ai criteri con cui venivano valutati e attuati gli investimenti: i grandi investimenti in automazione della fine degli anni ’70 furono un completo fallimento, che innescò una fase di declino per molte imprese, soprattutto manifatturiere – ben noto il caso della General Motors. Non sembra che maggiore successo abbia finora arriso al più recente tentativo di creazione della smart factory, operato in Germania con il programma Industria 4.0, non per caso uscito dai riflettori dei media dopo un periodo di grande fortuna.
Eppure furono proprio gli americani a concepire l’idea della qualità totale, senza compromessi. È significativo notare quando questo avvenne, durante la II Guerra Mondiale: guarda caso, un periodo di emergenza in cui il costo smise di essere un parametro, perché la priorità era produrre in grande quantità e anche in grande qualità. Le norme militari sono orientate alla qualità, perché l’affidabilità e l’efficacia di ciò che serve in guerra devono essere sempre garantite.

Questa spinta ebbe anche il non trascurabile effetto di superare del tutto le difficoltà economiche che si trascinavano dalla crisi del ’29.
I principi della qualità totale (in realtà non ancora così “totale” come potremmo concepirla oggi) caddero presto in disuso, superate da principi economico-finanziari orientati a garantire gli azionisti in un orizzonte di breve termine e interpretati dalla sempre più incombente “mano visibile” del management, non sempre disinteressata e non sempre trasparente. Il risultato fu che il manufacturing americano, che era su livelli di eccellenza negli anni ’40, negli anni ’80 mancava gravemente di qualità e di competitività. Paradossalmente, mancava anche di efficienza, perché la frammentazione dei centri di responsabilità creava costi indiretti rilevanti e crescenti.

Alcune considerazioni emerse dal CMS possono essere così sintetizzate:

•    Gli indici economico-finanziari non sono indicatori efficaci di come realmente funzionano i processi di un sistema; non premiano la qualità e permettono manipolazioni.

•    Sempre per via dell’affidarsi a tali indici, le decisioni passate di investimento, avendo creato debito, pesano troppo sulle decisioni presenti: ad esempio, l’investimento in una tecnologia andrebbe svalutato o azzerato via via che si presentano alternative migliori; ogni tentativo di recupero dei costi sostenuti peggiora le scelte e porta a una spirale negativa. Considerazioni   analoghe dovrebbero valere anche per gli stati.

•    La responsabilizzazione dei decisori su un determinato sottosistema appartenente a un sistema più ampio porta a scelte che ottimizzano il sottosistema, ma compromettono il sistema nel suo complesso. La strutturazione della nostra società in compiti e responsabilità via via più frammentate ovviamente aggrava la problematica.

•    Le scelte a monte, in un ciclo di vita di qualsiasi sistema, sono molto più determinanti di quelle assunte durante il ciclo, anche se in assoluto richiedono minori risorse; per questo è fondamentale disporre di un’amplissima ridondanza e diversità di risorse  in queste fasi a monte; solo così si otterrà un’efficienza ottimale sul durante (per inciso, l’attuale processo di digitalizzazione elimina in gran parte la necessità di risorse concentrate per lo sviluppo del ciclo nelle sue fasi operative). Il riconoscimento sul piano economico e politico – da parte dei capitali, dei clienti e delle istituzioni pubbliche – di questa capacità di ridondanza e diversità dell’intrapresa e dell’innovazione come precondizione essenziale di qualsiasi attività operativa, è la chiave di un’economia forte.
Una considerazione più generale è la seguente: la focalizzazione su sistemi chiusi porta a privilegiare i costi sulla qualità, la consapevolezza che tutti i sistemi sono aperti porta a capire che i costi saranno minimi se la qualità sarà massima, senza compromessi di alcun tipo.
A supporto di ciò proviamo a prendere in considerazione alcuni grandi temi che si impongono nella nostra contemporaneità.

1.    PLASTICA

Le plastiche, o meglio i polimeri, sono sostanze che si sono imposte per la loro straordinaria versatilità e varietà di utilizzi, e anche per il loro costo competitivo verso altri materiali. Oggi lamentiamo giustamente l’invadenza della plastica nel pianeta, fino alla formazione di grandi isole di plastica negli oceani. Ciò sta portando a una demonizzazione della plastica e a una volontà di limitarla attraverso modalità il più delle volte estemporanee e del tutto irrilevanti in una prospettiva sistemica. Nel frattempo le plastiche negli oceani continuano ad aumentare, portate principalmente dai grandi fiumi che attraversano regioni molto popolose e povere, come il Gange e lo Yangtze, che hanno le concentrazioni di plastiche più alte di qualsiasi altro fiume al mondo. L’Indonesia è tra i Paesi che contribuiscono di più all’inquinamento, mentre dall’Europa arriva solo lo 0,28%. Quindi il problema della plastica non è della plastica in sé (che ha tuttavia il peccato originale di essere un derivato del petrolio), ma soprattutto della gestione dei suoi costi. C’è in generale una grande attenzione ai costi marginali, che per le plastiche di uso comune è molto basso. Non c’è invece attenzione al costo totale della plastica (come di molte altre cose), che include l’ammortamento degli investimenti nella raccolta differenziata e nel riciclaggio (visto che sono pochi i polimeri biodegradabili). Inoltre il danno fatto agli oceani non viene quantificato né risarcito. Non dobbiamo demonizzare la plastica, ma dovremmo pagarne interamente il costo totale e non solo quello marginale. Non è un caso che il problema sia molto di più il Gange del Reno. La povertà induce a trascurare i costi indotti; anche per questo è un forte driver di insostenibilità e la sua eliminazione è il primo punto dell’agenda ONU 2030. Trascurare i costi indotti significa provocare danni incommensurabilmente più gravi.

2.    CEMENTO ARMATO

Una storia parallela a quella della plastica può essere quella del cemento armato, o meglio del calcestruzzo armato. Anche se la sua invenzione è più antica, l’esplosione dell’utilizzo del cemento armato è, specie in Italia, coeva a quella della plastica, e caratterizza il periodo definito “miracolo economico”. Senza nulla togliere alle possibilità che in certi contesti e condizioni questa tecnica può avere, la povertà e la trascuratezza degli indotti (negli anni ’60 in pochi si preoccupavano della durata del calcestruzzo armato) portarono a ignorare totalmente la qualità del materiale e delle opere che si stavano facendo; generando nel contempo la devastazione ambientale che tutti i nostri territori, quale più quale meno, conoscono. La persistenza di un certo modo di gestire i costi è stata resa drammaticamente evidente dal crollo del Viadotto Polcevera a Genova nel 2018. Opera costruita sfidando le caratteristiche intrinseche del materiale per dichiarazione dello stesso progettista, arrivava a proporre una sfida basata su un materiale povero, trasformando il basso costo in valore ideologico. Il ponte era il simbolo di questa ideologia. Qui abbiamo anche avuto un esempio di come sia diffusa la pericolosissima tendenza a non quantificare i costi connessi a eventi singolari, che in questo caso erano purtroppo addirittura certi, anche se ovviamente con tempistiche non determinabili con precisione. La mancata considerazione anticipata dei costi della non-qualità ha generato condizioni oggi presenti e incombenti, gravi e difficili da gestire, senza contare l’enorme danno ambientale della cementificazione.

3.    ENERGIA NUCLEARE

Certamente non è questa la sede per prendere partito a favore o contro il nucleare, una tecnologia il cui dominio e il cui sviluppo dovrebbero comunque essere patrimonio di una società sviluppata. Solo occorre mettere in evidenza che, anche qui, occorre tenere conto dei costi su tutto il ciclo di vita degli impianti nucleari e delle tecnologie connesse. Nascondere alcuni costi, come il decommissioning delle centrali a fine vita per poter propagandare un costo dell’energia particolarmente competitivo, è molto pericoloso. Alla fine del ciclo di vita la tendenza è quella di tirare avanti per non sostenere costi rilevanti e non recuperabili, incrementando (come nel caso, diverso ma analogo dal punto di vista della filosofia dei costi, del ponte di Genova) i rischi di eventi catastrofici.

4.    PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E CORRUZIONE

Quando si ritiene che sia possibile equiparare la qualità di offerte diverse, e che quindi il prezzo debba discriminare la scelta (si pensi alle gare in cui il criterio discriminante è il massimo ribasso), si punisce la qualità. Offerte diverse non avranno mai la stessa qualità, e non è sufficiente il fatto che rispondano egualmente ai requisiti dati. Se non si premia il delta anche piccolo di qualità a prescindere dal suo costo differenziale, e ci si accontenta del rispetto di requisiti standard, si crea una zona in cui la corruzione non solo può insediarsi, ma anche organizzarsi. Un’economia che favorisce organizzazioni adattate a vincere bandi con requisiti standard, non è certo una buona economia: è un’economia con grumi di corruzione e soprattutto è un’economia che non ha interesse a innovare, a cercare il meglio, a sfidarsi. Alla fine la differenza di competitività tra sistemi è tutta qua. La pubblica amministrazione muove una quota importante dell’economia, e quindi ha una grande responsabilità in questo senso. C’è troppa focalizzazione sui costi marginali e troppo poca sul premiare l’innovazione. Non è azzardato affermare che un sistema che non sia impegnato a fondo nel miglioramento e nell’innovazione è un sistema che nel rilassamento si corrompe, disincentiva i talenti e distrugge il patrimonio cognitivo che è l’asse portante di una società sana e di successo. Accontentarsi di ciò che “funziona” (il cha-bu-duo cinese), che soddisfa bisogni di base, è un errore fondamentale. Ovviamente un sistema orientato a premiare la qualità richiede un alto livello di conoscenza e cultura da parte di chi decide, il che non attiene a una burocrazia dedita alla conoscenza della norma più che del contesto. Occorre maggiore coinvolgimento dei fruitori finali, unito alla loro continua educazione, e una continua riscrittura della norma conseguente alla comprensione dei cambiamenti.

In tutti questi esempi, e moltissimi altri se ne potrebbero fare in ogni campo, il tema che emerge è il seguente: i costi sono da valutare in un’ottica di sistemi aperti (o ecosistemi) e non di sistemi chiusi. Questa è una considerazione più generale di quella che si impose nel management per superare il paradosso della produttività. La qualità totale di allora era company-wide. Oggi non possiamo non renderci conto che tutto è interconnesso, che il sistema mondo non è frazionabile. Le considerazioni che ascoltiamo e leggiamo oggi sulla green economy sono un riflesso parziale di questa constatazione generale. La green economy presuppone un patrimonio connesso al miglioramento della qualità della vita, che non è misurabile perché non si riferisce a un sistema chiuso, ma della cui esistenza siamo consapevoli.

Dietro questa consapevolezza che convive con la non-misurabilità, c’è una questione enorme e irrisolta. Non possiamo essere generici e nasconderci dietro parole-slogan, come green, blue, teal, e così via.

Un rischio oggi evidente è dato dalle semplificazioni e dagli slanci volontaristici. È proprio ciò di cui dovremmo fare a meno. Alcuni modi in cui i sistemi esistenti generano esternalità dannose sono infatti molto evidenti, ne abbiamo citato esempi, e sono già oggi contestati da vari movimenti. Quando però la base di tali critiche è eminentemente moralistica, basata su pensieri e valori ritriti; comunicata con slogan che appartengono al vecchio mondo, spacciandoli come nuovi, “giovani”, si rischia molto, perché la cosa più facile per un potere che rifiuta di rigenerarsi è adottare questi stessi slogan, che apparentemente richiamano il cambiamento, ma nella sostanza (a) reiterano i pregiudizi epistemici alla radice del problema, (b) nel loro approccio semplificatorio inducono la politica a operare danni ancor più gravi – per di più col sostegno delle masse.

Occorre sicuramente una misura del patrimonio diversa da quella che emerge dalle logiche di bilancio dei sistemi chiusi, che collegano stato patrimoniale a conto economico.  Saremmo portati a convenire che l’esito dei processi che si svolgono in un sistema aperto e complesso possa essere valutato per l’impatto che ha sulla vita delle persone, sugli ambienti culturali e tecnologici in cui si sono costruiti i loro stili di vita e i loro valori, incluso il pianeta con le sue biosfere e noosfere, e infine sull’idea di mondo che include tutto ciò.

Come dire che siamo indotti a ragionare di biopolitica: approccio oggi più aderente alla situazione di quanto non lofosse nel mondo studiato da Foucault ai suoi tempi (mezzo secolo fa e anche meno, ma i fattori chiave sono cambiati nel frattempo…); il rapporto tra il potere e la vita sta diventando molto meno intermediato, più diretto, e nello stesso tempo straordinariamente più complesso. Il declino degli intermediari storici (stati, partiti, sindacati, comunità scientifiche e accademiche, banche, grandi imprese, chiese e altri raggruppamenti religiosi, organizzazioni economiche e sociali di ogni tipo) è spiegabile proprio col fatto che sono non solo basati, ma intrinsecamente costituiti sull’idea di sistemi chiusi, con responsabilità separate. In questa separatezza i costi sono infatti gestiti in una logica di chiusura sia spaziale-organizzativa, sia temporale (il periodo di esercizio, il ciclo di vita dell’investimento, ecc.). Questo porta a una deresponsabilizzazione rispetto a quello che succede “fuori” dal sottosistema e “dopo” il termine in cui si debbano rendicontare dei risultati.

La stretta relazione tra chiusura del sistema e mancanza di sostenibilità appare ovvia.

L‘ottimizzazione dei sottosistemi, perseguita in un’ottica di sistemi chiusi, porta al degrado del sistema nel suo complesso. Quando poi ci sono parti del sistema che non sono rappresentate da qualche forma di potere, vengono naturalmente depredate; tipicamente il rapporto uomo-natura è sempre stato un rapporto di predazione. Tutti gli intermediari storici hanno predato dove e quando hanno potuto, e tuttora la nostra economia mainstream, ancora prevalente pur se in affanno, si basa sulla predazione delle risorse naturali, si pensi ai combustibili fossili.
Il nuovo rapporto tra potere e biopolitica, che sta emergendo in contemporanea alla crisi degli intermediari storici, forse può offrire nuove prospettive, ma al momento non è compreso ed è privo di guida; né siamo in grado di capire quale genere di guida eventualmente serva. Si affacciano realtà di multiappartenenze (appartenenze a multiple comunità di tipo tribale, unite da valori e stili di vita simili), di peer-to-peer (gruppi che si governano senza centri di riferimento, come i possessori di valute virtuali), di data management (soprattutto da parte di grandi piattaforme cui attengono milioni/miliardi di persone dalle quali assorbire i dati relativi alla loro vita, potendone quindi rinforzare, modificare, sfruttare i valori, i saperi, le attività).
È tuttavia difficile immaginare l’evoluzione di questi sviluppi e a maggior ragione capire come possano generare un nuovo “ordine”.  Sicuramente i più solidi tra gli intermediari tradizionali possono leggere la trasformazione e cavalcarla. Lo stato cinese per esempio sembra in grado di sommare alla sua funzione storica quella di grande piattaforma digitale, tale da coinvolgere gli abitanti della Cina. Tuttavia difficilmente potrà evitare che ognuno di essi sia comunque “multiappartenente”; caratteristica che potrebbe diventare peraltro un grande atout, se ci sarà la saggezza di avvalersene.

Gli stati tuttavia rimangono troppo implicati nel vecchio ordine industriale, in cui i consumi di massa sono funzionali al consenso politico: consumi di massa che per essere tali a loro volta si appoggiano sul concetto di “costo”, anzi di “basso costo”. Purtroppo i costi bassi di questi consumi sono la causa diretta della non-sostenibilità del sistema: agricoltura intensiva, allevamenti intensivi, produzioni standardizzate, permettono bassi costi di accesso, ma pregiudicano mortalmente la salute sia del pianeta sia delle persone. Questo modello di produzione/consumo è comunque ormai in declino generalizzato perché insostenibile anche economicamente, non più in grado di retribuire né il lavoro, né il capitale: in più, la disruption indotta dall’emergere del digitale lo stravolge a livello fisico-territoriale, economico, culturale.

Tuttavia gli stati territoriali hanno costruito su di esso i propri messaggi politici e le competenze delle loro vaste burocrazie: saranno capaci di liberarsi di questi enormi “distressed asset” per riproporsi come intermediari efficaci? Il fattore costo sta alla base di tutto ciò, e come abbiamo visto impatta pesantemente sulle nostre vite e su quelle di tutte le istituzioni, determinano policy, scelte, decisioni che modificano a fondo le nostre prospettive e opportunità, ma soprattutto la nostra qualità della vita e i livelli di rischio cui siamo soggetti: tutto quanto possiamo chiamare biopolitica. Abbiamo anche visto che questo impatto il più delle volte è negativo e provoca danni e catastrofi. Manca in modo flagrante un quadro in cui questo parametro possa essere governato. Se consideriamo come modello di sistema aperto l’ecosistema, cioè un sistema vivente o quasi-vivente, che si autodefinisce in un equilibrio dinamico (e non statico come i sistemi chiusi), possiamo immaginare un governo della biopolitica?
Certamente porterebbe con sé alcune promesse interessanti:

•    La sostenibilità intrinseca, perché la sostenibilità equivale al mantenimento dell’equilibrio dinamico dell’ecosistema

•    La governabilità della relazione tra macrosistema e sottosistemi a vari livelli (sul modello organismo-cellule), e per analogia tra locale e globale

•    Una misura di efficienza rapportata alla qualità e non all’output (come noto, i sistemi viventi sono estremamente inefficienti dal punto di vista termodinamico, dissipano energia per creare “ordine”, finalizzano la conoscenza all’emersione di livelli superiori di adattamento e di potenziale)

•    L’enfasi sulla ridondanza (che trova la sua metafora nell’importanza delle cellule staminali, pluripotenti), riconducibile anche alla conoscenza estesa e connessa come patrimonio primario

•    L’enfasi sulla diversità (è già ben approfondito il tema della biodiversità)

•    La ricorsività dei pattern come alternativa all’universalità degli standard (il che promette nuovi approcci non solo all’economia, ma anche alla politica e al diritto).

La diversità dell’approccio rispetto a quello attuale è impressionante, tuttavia trova delle corrispondenze in una serie di fenomeni emergenti nella nostra epoca: il fallimento dei modelli predittivi mainstream, una distribuzione di capitali finanziari sulle imprese che prescinde molto più che in passato dal conto economico, una crisi delle organizzazioni pubbliche e private orientate a soddisfare bisogni di massa, la perdita di importanza nella generazione di capitali delle immobilizzazioni materiali, che diventano sempre più liability, il crescente ruolo strategico dell’innovazione e in generale del controllo della conoscenza.

Molti di questi fenomeni sono sintetizzabili in uno spostamento del modello vincente da quello basato sullo sfruttamento di risorse finite (e quindi iper-focalizzato sui costi) a quello basato sulle fonti cognitive, teoricamente infinite e quindi nel loro complesso non vincolate da un sistema di costi. Se teniamo conto del fatto che processi cognitivi e processi vitali sono identificabili, si può immaginare che una nuova biopolitica e una nuova bioeconomia possano essere configurate a partire da una rappresentazione del mondo basata sul possibile della cognizione e non sullo pseudo-reale delle risorse materiali. L’inizio della sperimentazione di nuovi modelli di questo genere non può essere immaginato in modo massivo, ma è immaginabile che un nuovo paradigma culturale sia adottato in vari iperluoghi, territori e/o reti globali, dove si creino dei sistemi pilota in grado di prosperare sulle logiche del vivente, totalmente diverse da quelle del modello macchina oggi ancora imperante pur se profondamente scosso.  Nel frattempo i decisori attuali, privati e pubblici, possono gradualmente acquisire la consapevolezza che i vincoli connessi ai costi non sono barriere reali, ma totem da abbattere. Soprattutto in una regione come l’Europa, che vanta come punto di forza l’eccellenza e la varietà dei suoi stili di vita.

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