Beni comuni
Che fare per l’innovazione sociale, spiegato da un banchiere del Terzo settore
Tracciare con precisione i confini del Terzo settore non è facile. Ne fanno parte onlus, organizzazioni non governative, cooperative, associazioni, fondazioni, imprese non profit: tutti producono senza scopo di lucro servizi che il pubblico e il privato non sono in grado di soddisfare. Le attività del Terzo settore non rientrano quindi né nella sfera dell’impresa capitalistica tradizionale, in quanto non hanno come obiettivo il profitto, né in quella delle ordinarie amministrazioni pubbliche, in quanto si tratta di soggetti privati.
Secondo l’Istat (dato del 2014, ndr) sono 300mila le organizzazioni non profit in Italia e il segmento imprenditoriale del settore è composto da circa 12mila imprese sociali, in gran parte in forma cooperativa. I lavoratori retribuiti nel Terzo settore italiano sono circa 950mila e a questi vanno aggiunti i 4,8 milioni di volontari che partecipano al sistema economico offrendo impegno a titolo gratuito. Le entrate complessive delle organizzazioni non profit ammontano a 64 miliardi di euro e provengono per due terzi da fonte privata, e per la restante parte dalle pubbliche amministrazioni.
«Il Terzo settore interviene tradizionalmente laddove il pubblico non riesce per carenza di risorse e il privato esclude la sua azione per ragioni legate alla valutazione di profittabilità. Esso infatti non punta a generare utili. È nella sua natura l’universalismo e ha delle regole che mimano il comportamento del pubblico», esordisce nel suo ufficio di Milano Marco Morganti, 58 anni, amministratore delegato di Banca Prossima, l’istituto di credito del Gruppo Intesa Sanpaolo specializzato e operante nell’economia sociale.
Negli ultimi anni l’onda dell’innovazione sembra aver attraversato anche il mondo del non profit. Stiamo parlando delle start-up innovative, previste dal D.L. 179/2912, rivolte a soddisfare bisogni della comunità e che allo stesso tempo creano nuove modalità di relazione tra i beneficiari e chi eroga i servizi.
«Quello delle start-up a vocazione sociale, finanziate attraverso la garanzia del Fondo centrale del Mise, è un fenomeno ancora quantitativamente piccolo, in quanto la norma è in vigore da pochi anni. Nonostante ciò, ne abbiamo finanziate diverse, per un importo di circa 10 milioni di euro», racconta Morganti, che di formazione è un filologo rinascimentale, sin da giovane appassionato dell’economia sociale.
Siamo di fronte pertanto a un evento dinamico e in crescita del sistema economico italiano. Basti pensare al fatto che Banca Prossima ha un portafoglio di 60mila clienti, pari al 30% del mercato, ed eroga credito accordato per 2 miliardi e mezzo, con sofferenze che non superano il 2,9 per cento.
Per sostenere l’innovazione sociale, Banca Prossima ha costituito nel proprio bilancio un Fondo per lo sviluppo dell’impresa sociale, che viene alimentato con il 50% degli utili, sottratti alla remunerazione del capitale. Negli anni questa posta patrimoniale è arrivata a 24 milioni di euro e viene utilizzata come garanzia parziale di prestiti che in teoria non potrebbero essere concessi perché troppo rischiosi, ma che vengono erogati grazie alla presenza di uno strumento di moderazione del rischio, il Fondo appunto. Questo sistema opera in modo automatico, senza discrezionalità, e sta dando i suoi frutti. Su 1.000 casi osservati dalla fine del 2012 alla fine del 2016, il 90% dei soggetti prenditori, beneficiari della garanzia di questo Fondo di Banca Prossima, ha mantenuto o migliorato il proprio rating. In concreto, questo meccanismo consente di sostenere finanziariamente iniziative di innovazione sociale che, almeno in una prima fase, sarebbero poco “bancabili”, come si dice in gergo.
Accanto a questo tema, chi si affaccia nel mondo dell’innovazione, e quindi gli imprenditori sociali, spesso non conoscono a sufficienza gli strumenti che hanno a disposizione. Del resto, non basta avere una buona idea. Occorre capire a chi rivolgersi per ottenere supporto e fare rete, individuare il proprio mercato, riconoscere coloro che hanno interessi convergenti al tipo di attività che si desidera realizzare. «Quello che manca nel nostro Paese è un vero e proprio grande incubatore sociale dedicato al Terzo settore», nota Morganti. Il primo Centro per l’Innovazione Sociale in Italia è a Torino, SocialFare: «Un inizio promettente, nella speranza che ne nascano altri».
Anche se l’obiettivo della start-up a vocazione sociale è la produzione di valore sociale, mentre l’equilibrio economico ne è solo una condizione, di fatto un buon management è fondamentale per far funzionare quella che Morganti definisce come un’impresa “privata – pubblica”, privata, perché alimentata dall’iniziativa di singoli cittadini, pubblica perché opera a beneficio della comunità. La dura legge del conto economico è dunque al centro della scena anche per le imprese non profit. La missione, il buon cuore, il buon senso sono fondamentali ma non bastano: «Per una organizzazione non profit viene prima il bene comune e poi la sostenibilità economica. Di fatto, però, senza una cosa non sta in piedi l’altra», avverte Morganti.
Cosa devono fare gli innovatori sociali per avere successo quindi? «Offrire soluzioni nuove, o più efficienti, avendo chiaro che ciò che fa la differenza tra sostenibile e non sostenibile è la fiducia», conclude Morganti. «I soggetti che operano nell’ambito dell’economia sociale si trovano infatti in un sistema diverso da quello degli altri settori: nel Terzo settore i ruoli si scambiano, tra volontari, ma anche tra volontari e cooperatori sociali. Non esiste unidirezionalità del rapporto produzione-consumo. Chi non tiene presente questo non può fare bene il suo mestiere nel Terzo settore, né tantomeno innovare».
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