Ambiente

Vieni, c’è una fiamma nel bosco

25 Luglio 2023

Musumeci si fa bello, adesso, dicendo che dobbiamo accettare i cambiamenti climatici e quindi agire di conseguenza. Parole, parole, parole. Come sempre. Non viene spiegato minimamente di cosa ci sia bisogno e come il cittadino si debba attrezzare, nonostante il cittadino stesso abbia delegato una classe dirigente a pensare ai problemi di un paese, ambientali, economici, sociali e, soprattutto, culturali.

Sì, perché la consapevolezza dell’ambiente è culturale. Se non si studia fin dalla scuola primaria per proseguire fino a quella superiore e poi all’Università – e poi ci si immerga spesso nell’ambiente naturale circostante – non ci sarà mai una coscienza collettiva su cosa bisogna fare per salvaguardare il territorio e quindi sé stessi, con una coscienza delle proprie responsabilità. E tra le proprie responsabilità ci sono anche quelle del voto, ossia chi mandiamo a legiferare a Montecitorio, chi mandiamo a Palazzo Chigi, chi viene eletto come ministro dell’Ambiente, chi va alla Protezione Civile, eccetera eccetera.

La questione, come sempre, è molto complessa e i sistemi complessi non piacciono alla politica perché la politica si nutre di slogan brevi per far colpo sulle menti dei meno consapevoli.

Così, per fare un esempio, “Il ponte sul Canale di Sicilia si farà!”, priorità assoluta del governo. Sembra non essere priorità assoluta invece la salvaguardia del territorio.

Ma cos’è la salvaguardia del territorio, di cui Musumeci e tanti altri si riempiono la bocca? La salvaguardia che non si è fatta, nemmeno quando Musumeci era presidente della Regione Sicilia, regione tra le peggiori dal punto di vista di salvaguardia del territorio.

E la Sicilia balza agli occhi per l’enormità degli incendi che in un solo giorno hanno bruciato quasi tutti i boschi bellissimi che circondavano Palermo. Boschi che erano stati il frutto di una campagna di forestazione avvenuta nel corso del XX secolo, con successi e con errori ma, soprattutto, con una mano mai troppo ferma, da parte delle istituzioni, verso i criminali che nel tempo hanno distrutto i boschi appiccando il fuoco.

Partire da un punto è difficile, perché i problemi sono molteplici e si intersecano tra loro, e spesso non sono chiari e la gente comune non immagina quanto sia complesso il sistema, pieno di insiemi e sottoinsiemi, ma da un punto si dovrà partire.

Vediamo di farlo da ciò che è successo ieri e che sta ancora succedendo oggi. Il mio punto di osservazione è Palermo, città che in queste ore è assediata da incendi di vasta portata. Mentre scrivo sta bruciando la chiesa medievale di Santa Maria di Gesù, dentro il bellissimo cimitero monumentale, a dieci metri dalle tombe dei Florio e da quella mia di famiglia.

Partiamo dalla necessità del bosco e, soprattutto, dal recupero del territorio che si è iniziato a fare dopo l’unità d’Italia.

Le colline e le montagne intorno a Palermo, e gran parte della Sicilia, erano state gradualmente disboscate nel corso dei secoli, a partire dalla dominazione spagnola. Come nella madrepatria, i deserti spagnoli furono creati anche dai disboscamenti in favore dei pascoli per le pecore da lana e per il fabbisogno di legname per costruire navi per quella che era la prima potenza navale del mondo di allora. Non c’era una consapevolezza del territorio, del paesaggio, della natura, come c’era in Toscana o in Veneto o in Francia. Le zone desertificate della Spagna restarono così e a poco a poco si stabilizzarono come terre desolate. L’enorme lavoro idraulico e di gestione del territorio fatto in precedenza dagli arabi fu solo un ricordo. Il mondo cristiano si rivelò assai più predatorio nonostante san Francesco e le sue sorelle piante e i suoi fratelli animali e la sua visione di una natura più ingenuamente armonica.

I boschi che un tempo rivestivano la Sicilia, nei secoli andati, tanto rinomati dai lirici greci, fino al medioevo inoltrato, così, nella nuova colonia spagnola, si andarono assottigliando senza essere rimpiazzati. Quando lo si fece tardivamente, dopo l’unità, soprattutto intorno a Palermo e in altre zone della Sicilia, si utilizzarono principalmente pini a ombrello, che sicuramente sono parte della macchia mediterranea, e poche altre essenze, spesso estranee, come gli eucalipti. Queste due essenze furono anche utilizzate, nel XX secolo, per bonificare le paludi, in quanto gli eucalipti, provvisti di un apparato radicale di grande entità, succhiano enormi quantità d’acqua dal terreno. Infatti sono piantati tutt’intorno ai bacini artificiali, soprattutto nel centro e sud Italia. E spesso anche utilizzati come alberi da viale, così come pure i pini a ombrello (Pinus pinea).

Soffermiamoci un attimo su questi ultimi, perché anche qui, alla base dell’utilizzo come piante da arredo urbano, c’è un fatto culturale.

Nel delirio di ricreare un’Italia che fosse degna erede dell’Impero Romano, punto di riferimento dell’ideologia del fascismo da parte di Mussolini, l’aspetto del territorio doveva avere una sua importanza. Così come in Francia i platani ornarono tutte le strade napoleoniche, in Italia i viali videro un colonnato vegetale nei pini a ombrello, i pini presenti sulla via Appia. Immortalati anche nel poema sinfonico di Ottorino Respighi “Pini di Roma”: i pini della via Appia nella nebbia dell’alba, dove viene evocato retoricamente con una marcia sempre più incalzante il rientro della legione romana da una qualche campagna di conquista vittoriosa. Era il 1924. E i pini della Via Appia dovevano recare la suggestione di una Roma imperiale ovunque.

I pini a ombrello, esclusivamente per un fatto culturale, divennero così gli alberi da viale preferiti nell’abbellire le città italiane, il cui skyline è così ben caratterizzato in dipinti e fotografie. Per carità, splendido, perché il Pinus pinea è una pianta assai decorativa.

In questa considerazione puramente estetica non fu minimamente presa in considerazione la particolarità botanica del Pinus pinea: la prima è che le sue radici crescono superficialmente e orizzontalmente e la seconda è la chioma che si espande, in altezza, a ombrello, donde il nome comune. Quando il vento soffia bello forte, la chioma fa vela e le radici, che non riescono a trattenere il peso dell’intero albero, si sollevano con tutto il pane di terra. Essendo piantate lungo i viali inevitabilmente si abbattono su auto parcheggiate e sulle case vicine, creando discreti danni collaterali. A Firenze, dove i pini a ombrello abbondano, sui viali e sui lungarni, è bastata una tromba d’aria dispettosa per fare danni milionari. E anche senza tromba d’aria, a volte, a Poggio Imperiale, cade uno di quei bellissimi pini. Colle conseguenze del caso.

Anche in località rivierasche, dove il pino a ombrello è di casa per le amministrazioni comunali dell’arredo urbano, le ultime trombe d’aria hanno mostrato la fragilità di quest’essenza inadatta, più adatta di certo per le pinete rivierasche, non per i centri urbani, più resistenti perché non piante isolate e quindi più fitte, meno vulnerabili perché con chiome più ridotte. Ma vaglielo a spiegare ad assessori che a stento capiscono la differenza tra un ficus e un oleandro.

Riguardo ai rimboschimenti siciliani del XX secolo si è optato per i pini a ombrello, i pini d’Aleppo e altre conifere come i cipressi dell’Arizona. Tutte piante bellissime, per carità, e pure a crescita rapida e resistenti alla siccità estiva.

Ma la foresta originaria era composta da ben altro. Sicuramente c’erano anche i pini a ombrello e i pini d’Aleppo, che nel Mediterraneo formano spesso stazioni botaniche di un certo rilievo. Ma erano parte di un manto boschivo molto più variegato che comprendeva lecci, cipressi, castagni, lauri, roverelle, frassini, sughere, olmi, agrifogli, lentischi, terebinti, ginestre, olivastri, faggi, alberi di Giuda, ciliegi selvatici e molte altre essenze. Questi boschi misti, con piante che hanno apparati radicali differenti, hanno diversi pregi. Intanto trattengono meglio il terreno proprio perché differenziati e poi anche per il pescaggio dell’acqua in profondità rispetto ai pini che invece sfruttano solo l’acqua superficiale. Sarà difficile che una foresta mista sia abbattuta da raffiche di vento anche forti, le querce, si sa, sono talmente solide da supportare il detto “saldo come una quercia”.

Anche in caso d’incendio il bosco misto ha una ripresa molto più sicura, più o meno lunga a seconda delle particolarità del territorio, ma sicura perché le piante ributtano dalle radici, se non sono state troppo danneggiate dal fuoco.

Un esempio di come le foreste monocultura di conifere siano fragili, oltre che per il fuoco, anche per le raffiche di vento forte, è dato dalle stragi di abeti avvenute a Vallombrosa e Paneveggio (la famosa Foresta dei Violini). Lì le ragioni possono essere diverse, perché ogni territorio ha caratteristiche proprie e una storia differente. Nel caso di Vallombrosa, per esempio, le abetaie, in origine piantate dai monaci per farne legname da costruzione per edilizia e per navi, alternate a faggi, piante molto più resistenti al vento degli abeti, si sono fatte estendere volontariamente e hanno creato agglomerati sempre più grandi. Inoltre l’ideologia imperante attualmente, ossia che le foreste vanno lasciate vivere per come sono in modo da autoregolarsi non è applicabile in un territorio dove le piante furono introdotte come specie non autoctone ma unicamente per scopi commerciali. Le foreste ad alto fusto, soprattutto in aree antropizzate, vanno curate perché le piante troppo vecchie possono presentare parassiti o patologie fungine alle radici e quindi rendere fragili le stesse piante e quelle vicine, per poi provocare una caduta a domino nel caso di tempeste particolarmente forti. Ma oggi, anche nell’indirizzamento dell’opinione pubblica, basato su falsi ecologismi secondo cui le foreste devono fare tutto da sole, il degrado dei boschi, e quindi la loro fragilità, è una conseguenza.

Inoltre quando si parla di superfici boscate bisogna anche considerare che la superficie urbanizzata (e quindi l’incremento demografico) negli ultimi cinquant’anni è aumentata esponenzialmente, amplificando i problemi di gestione del territorio. Questo non è mai abbastanza preso in considerazione.

Torniamo ai boschi siciliani. I boschi superstiti delle Madonie e dei Nebrodi, dell’Etna e dei Sicani non sono monocoltura ma assai misti. Quelli di molti rimboschimenti, pur encomiabili per il tentativo di recupero del territorio, operati dalla Forestale nel XX secolo, non sono quelli adatti alla Sicilia e, inevitabilmente, le parti boscate a pineta difficilmente si riprenderanno una volta bruciate. Peraltro piante resinose come i pini prendono fuoco come zolfanelli. Certo, il calore sprigionato dall’incendio magari farà aprire le pigne e libererà i semi che, alla prima pioggia, se non mangiati da qualche animale, germineranno e magari daranno vita a una nuova macchia, ma niente di più.

Un bosco misto, cercando di ricreare il manto originario sarebbe invece auspicabile nella riforestazione dell’isola. E sarebbe opportuno farlo al più presto, in modo da evitare il dilavamento delle zone rimaste senza protezione arborea da parte delle forti acque meteoriche che ci sarà inevitabilmente nelle prossime stagioni.

Ma perché i boschi bruciano con tale facilità? Non è per autocombustione, questa è una favola metropolitana. Non ci sono fulmini che danno origine a incendi come sulle Montagne Rocciose o nella savana. Il fuoco è appiccato dall’uomo.

E qui, almeno per quanto riguarda la Sicilia, ma anche per la Calabria, ci sono varie tipologie di crimine. Non ci sono patologie di piromania vera e propria, potranno essere una su un migliaio. Nerone è una figura romantica.

Per questo parlo di ragioni culturali e quindi di una mancanza di consapevolezza del danno che compie chi opera il crimine. L’ignoranza e la totale assenza di senso di responsabilità del criminale.

Chi appicca il fuoco nelle giornate di caldo torrido con vento rovente in poppa sono criminali di diverso tipo. Un tipo sono alcuni allevatori di capre o pecore che portano a zonzo il bestiame e hanno bisogno di pascoli più ricchi e il fuoco prepara prati più fertili dopo le prime piogge. Per loro i boschi sono improduttivi, non servono, e, nel caso si brucino, aumentano la superficie dei pascoli. E, infatti, una delle cause di deforestazione principali sui monti siciliani, senza bisogno dell’incendio, era un tempo anche il pascolo eccessivo e non regolato, che impediva alle nuove piantine di crescere: le capre, soprattutto, riuscivano a scarificare gli alberi, mangiando persino la corteccia e arrampicandosi sui rami più alti per brucare le gemme. Ma non solo: il continuo passare di mandrie sterminate di capre, pecore, mucche, scopriva le radici delle piante più adulte e, alla fine, ne decretava la caduta. L’istituzione dei parchi ha scoraggiato i pascoli abusivi, punendo con multe salate chi sconfinava, ma esponendosi anche a vendette, soprattutto sui Nebrodi, dove molti pastori vedono il Parco e la Forestale come sabbia negli occhi. Oggi molti danni li fanno i cinghiali, reintrodotti dai cacciatori, che divorano le radici: non si salva niente.

Un’altra tipologia criminale di chi accende fiammelle è data da chi è rimasto fuori dalle assunzioni a numero chiuso del personale antincendio della Forestale. Già, proprio quelli che dovrebbero difendere i boschi e che, per dimostrare che ci voleva un organico maggiore, si vendicano appiccando il fuoco. Un altro tipo sono i criminali che bruciano i terreni dei rivali per intimidazione, distruggendo colture. E poi il vento fa il resto.

Altri bruciano il campo ormai tagliato per arricchire il suolo colla cenere e poi il fuoco sfugge al controllo. Altri criminali lo fanno per ragioni di bracconaggio. Non escludo che ci siano gli emulatori per puro piacere del crimine in sé. Ci sono anche i distratti che da un barbecue in luoghi poco adatti o buttando una cicca accesa dall’auto avviano un disastro ecologico.

Ma c’è un’altra ragione, ancora più criminale ed è chiaramente di stampo mafioso. Anche perché l’omertà dei piccoli centri montani non lascia scampo, nonostante siamo nel 2023.

Esistono corposi contributi europei all’agricoltura. In Sicilia valgono cinque miliardi di euro, e sono destinati in molti casi a estensioni di terreno dove non si pascola o coltiva nulla. Ma dove, se il campo brucia, si possono avere dei rimborsi. Poi, se il fuoco sconfina, si incendiano boschi, si distruggono case, si uccidono le persone che vi abitano, chi se ne frega.

Davanti a un quadro così complesso e articolato mi si viene a dire da Musumeci che i danni del cambiamento climatico sono stati sottovalutati? È la facile pseudoanalisi per accontentare finalmente gli ambientalisti alla Greta che sono assolutamente incapaci di elaborare analisi approfondite per capire le cause del degrado perché si affidano a una fede. Ma Musumeci e gli amministratori queste cose le sanno.

Oggi sentivo Schifani in tv, in un telegiornale, a proposito degli incendi dire che “l’ecosistema è cambiato” senza nemmeno sapere cosa significhi “ecosistema”. Non una parola sui criminali che appiccano il fuoco. Perché comporterebbe responsabilità di azioni anticriminose, che vuol dire organizzarle. E costano, ovviamente, e significa selezionare personale competente e attivo, estraneo a meccanismi mafiosi, e così via. Molto difficile. Così come è molto difficile ricostruire un manto boschivo con sapienza e con cura, perché non si possono mettere le nuove piante lì e poi abbandonarle. E i territori da rimboschire sono vasti e spesso impervi e ci vuole personale qualificato e competente. Oltre che realmente affezionato a ciò che fa. Credete Musumeci e Schifani in grado di provvedere a un sistema così complesso (tra le tante complessità, eh, perché poi ci sono implicazioni economiche, sociali, ambientali anche in aggiunta a quelle che ho elencato io nella mia povera analisi)? Siete degli illusi. I politici, soprattutto di questa destra di cartapesta intrisa di ideali e comportamenti ispirati a un ventennio assai poco raccomandabile, sono le persone meno adatte per occuparsi seriamente di questo tipo di problemi. È molto più facile fare, come urla il Capitano, il “Ponte sul Canale di Sicilia”, che darebbe lavoro a 100.000 persone. E la gente, il cui 90% non ha consapevolezza di niente, li vota, rendendosi complice di questo disastro. Nel frattempo la Natura fa il suo mestiere, che è quello di cambiare di continuo.

 

 

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