Ambiente
Vacchiano: “Le foreste? Meravigliosi network viventi che studio con i numeri”
Dalle sterminate foreste di conifere dell’Ovest americano alle foreste miste delle Alpi europee, dai fitti dedali vegetali dell’Amazzonia alla magnifica Puszcza Biała, in Polonia. Un terzo della Terra è ricoperto di foreste di ogni tipo, che assorbono circa un terzo delle emissioni globali di gas serra. E non è certo un’esagerazione dire che le foreste sono cruciali per la civiltà umana, e una grandissima risorsa per contrastare il cambiamento climatico. Ironia della biologia, i principali protagonisti delle foreste, gli alberi ad alto fusto, sono di quanto più diverso esista dalla classe dei mammiferi, umani inclusi. Creature straordinarie, che tra loro intessono queste complesse reti viventi che sono, appunto, le foreste.
A studiare i meravigliosi network vegetali della Terra c’è anche Giorgio Vacchiano, torinese, 39 anni, ricercatore alla Statale di Milano. Considerato uno dei massimi esperti mondiali nella gestione di foreste, nel 2018 è stato indicato da Nature come uno degli 11 scienziati che “con i loro studi stanno lasciando il segno” a livello mondiale. Insieme a lui, anche un’altra italiana: la dottoressa Silvia Marchesan, che Gli Stati Generali ha incluso nella lista di dieci donne che hanno rivoluzionato il 2018.
Vacchiano è un’eccellenza ibrida. Focalizzato sulla capacità di resistenza e resilienza delle foreste ai cambiamenti climatici, si divide tra la ricerca sul campo – il natio Piemonte, il Trentino, il Canada – e il faticoso, entusiasmante lavoro di fronte a uno schermo, tra la scrittura di codice (Python, in primis) e immani dataset su pini, lecci e faggi. Dalle foreste di numeri e dai blocchi in Python questo talento torinese trae la materia prima con cui crea (o adatta) modelli matematici per la gestione forestale: un approccio, dunque, interdisciplinare, tra la statistica, l’informatica e le scienze forestali, con cui riesce a prevedere la probabilità di incendi o catastrofi idrogeologiche, e il tasso di crescita degli alberi.
«Mi ha sempre affascinato l’idea di conoscere la natura, ma anche di accompagnarla, indirizzarla. L’idea di foreste ed esseri umani che procedono insieme – racconta a Gli Stati Generali –. A vantaggio del territorio: che va gestito, e non soltanto contemplato dall’esterno». Nell’intervista, Vacchiano si racconta, e racconta il suo percorso scientifico, la sua passione per le foreste, alcuni aspetti poco noti dei mondi arborei che rendono possibile la vita.
Giorgio, iniziamo non dagli alberi, ma dai numeri. Tu sei un esperto di foreste, con un background da liceo classico, però te la sei sempre cavata con la matematica…
Sì, esatto. Il primo esame che diedi all’università fu analisi matematica, che al liceo non avevo mai affrontato. Per me si trattava di roba completamente nuova. Ti confesso che ero abbastanza spaventato all’idea di cimentarmi con la materia. Certo, avevo seguito i corsi preparatori offerti dall’università, mi ero dato da fare, ma la paura c’era. E invece quell’esame andò benissimo, presi il mio primo 30 e lode, fu un esito del tutto inaspettato.
E la matematica ti è servita molto, nel corso della tua carriera. A partire dalla tesi di laurea.
Il professore che mi seguiva per la tesi aveva conosciuto dei colleghi americani che già allora usavano dei modelli di simulazione per capire come una foresta si evolve. In Italia non lo faceva nessuno, e in effetti si trattava di un progetto molto complesso. Il professore però mi mise a lavorare su uno degli aspetti del progetto: l’uso di un nuovo indice matematico per comprendere quanta competizione c’è tra gli alberi di un bosco; un indice che in Italia non si utilizzava, ma molto efficace nel descrivere le situazioni che vivono gli alberi, in particolare la competizione, cioè quando è probabile che muoiano perché non hanno abbastanza luce, quando stanno bene eccetera, e quindi utile anche per regolare tali fenomeni.
Provai ad applicare l’indice a dei dati già esistenti sulle foreste piemontesi, e in effetti si rivelò molto utile. La tesi venne accolta positivamente, e il professore mi chiese di continuare con la carriera scientifica per occuparmi anche di altri aspetti che in seguito avrebbero portato alla costruzione di un modello matematico a tutto tondo.
Scienze forestali, ma ad alta intensità matematica.
Corretto. [ride] Devo dire che la matematica, e soprattutto la statistica, hanno esercitato su di me un crescente fascino. Per me erano una sfida, un complesso gioco da risolvere. Piccolo aneddoto: questa attrazione per i numeri ce l’avevo sin da piccolo, mi divertivo a imparare i nomi dei grandi numeri, come miliardo, trilione, decilione e via dicendo. Note di folklore personale a parte, quando ho capito che la statistica era uno strumento formidabile per analizzare i dati e per farli parlare, per interpretare il mondo, me ne sono innamorato, e ho iniziato a studiarla anche solo per capire cosa era possibile fare con questo strumento.
Dopo la laurea hai conseguito, sempre a Torino, il dottorato di ricerca. Qual era il tema?
Era un progetto, diciamo, sui danni da siccità su un certo tipo di foresta delle Alpi. Ci si era accorti che le foreste di pino silvestre stavano patendo moltissimo la siccità, e che gli alberi stavano morendo a gran velocità. Era partito un progetto in collaborazione con la Francia e la Svizzera per individuare le cause di ciò, e per capire cosa si potesse fare. Io fui spedito sul campo per fare delle misurazioni e poi per cercare di interpretare i dati.
Cosa ti affascina degli alberi?
Più dei singoli alberi, mi affascina la foresta nel suo complesso perché è una rete di relazioni. Una rete davvero molto complessa di relazioni fra tante cose diverse. Intanto gli alberi sono eccezionali di per sé, sono quanto di più simile a una forma di vita aliena possiamo immaginare, perché sono completamente diversi da noi. Come spiega bene nei suoi libri Stefano Mancuso, gli alberi non hanno organi singoli come i nostri ma hanno organi diffusi, stanno fermi in un posto ma riescono comunque a comunicare con l’ambiente circostante. Sono qualcosa di molto diverso da noi, ma allo stesso tempo stare vicini a loro ci rende felici, hanno grande influenza sulla nostra psiche, sul nostro benessere…
E ciò vale per gli alberi, ma ancora di più per le foreste. Perché al di là della curiosità scientifica, al di là della ricerca, c’è la bella sensazione che si prova entrando in una foresta. Si diventa più calmi, più rilassati, si smette di pensare alle seccature, ai problemi quotidiani, e ci si rivitalizza. In questo senso le foreste hanno un potere straordinario.
È la cosiddetta biofilia, no?
Sì, sicuramente.
In Giappone addirittura parlano di shinrin-yoku, bagno nella foresta. E questo è interessante, perché poco fa mi hai detto che le foreste sono complesse reti di relazioni.
Complesse, e che spesso non vediamo. Il suolo, per esempio, è un grosso mistero: non sappiamo bene cosa avviene nelle radici, non sappiamo quante e quali specie lo abitano, e che ruolo svolge, perché è molto difficile studiare quanto accade sottoterra.
Torniamo al tuo percorso. Ti ha sempre convinto la scelta del dottorato?
No. In effetti per qualche anno pensai di aver commesso un errore. Vedi, io mi ero laureato appena ventitreenne. La mia era la laurea a ciclo unico: fu sufficiente laurearmi in tempo per affacciarmi al mondo della ricerca davvero giovane. Quando mi proposero il dottorato accettai con entusiasmo, ero convinto di poter studiare qualche altro anno e poi tuffarmi nel mondo del lavoro; senza sapere che in Italia, purtroppo, il mondo del lavoro non gradisce più di tanto i dottorandi: apparentemente degli “eterni studenti”, ma che in realtà un lavoro lo fanno, un lavoro di ricerca.
Facendo il dottorato mi resi conto che mi stavo allontanando sempre di più dal mondo del lavoro: nel mio caso, il settore dei progettisti forestali, ad esempio, o dei tecnici agronomi. Mi ritrovai, in poche parole, a percorrere una strada sempre più obbligata. Nel corso di quegli anni, tuttavia, ci furono molte esperienze importanti. Come i sei mesi di studio alla Utah State University, dove conobbi tutta un’organizzazione universitaria finalizzata alla ricerca: dalle biblioteche con i robot che ti prendevano l’articolo e te lo portavano, ai meeting di gruppo dove partecipavano tutti, inclusi i professoroni dai nomi importanti, che però ti trattavano alla pari, da collega.
E dopo il dottorato?
Dopo tre anni e mezzo, nel 2007, conclusi il dottorato. A quel punto sarebbe stato difficile, per me, intraprendere una carriera professionale. D’altra parte fare ricerca mi piaceva. Perciò iniziai a partecipare ai bandi ministeriali, quelli che permettevano di ottenere un assegno di ricerca. Per otto anni continuai ad “applicare” a bandi, occupandomi di argomenti a volte simili tra loro, a volte diversi, ma sempre focalizzandomi sui modelli delle foreste. Fui fortunato: ci sono bravissimi ricercatori che non riescono ad accedere a questo tipo di finanziamenti neanche per un anno, e quindi dopo il dottorato si trovano senza la possibilità di proseguire. Quegli anni però mi fecero toccare con mano la condizione del precariato nella ricerca, che è ancora a livelli drammatici in Italia. Nel frattempo mi ero costruito dei progetti di vita e di famiglia ben definiti…
Da un punto di vista scientifico tu e il tuo professore siete stati dei pionieri nell’utilizzo di modellizzazioni di foreste, è corretto?
Precisiamo: quei modelli non li avevo certo sviluppati io, al 99% erano stati realizzati all’estero. Il mio obiettivo era prendere questi strumenti, e cercare di adattarli alla realtà forestale italiana. Con “adattarli” mi riferisco a un lavoro di adattamento ai dati, perché magari le specie su cui tali modelli funzionavano erano specie americane e non italiane. Per esempio la realtà del ceduo, cioè del taglio frequente del bosco per ottenere legna da ardere, negli Stati Uniti non c’è. Quindi se si vuole un modello che funzioni, dobbiamo adattare il modello alle specificità della foresta in questione, incluso il ceduo.
Come giudichi nel complesso la salute delle foreste italiane?
Buona, a livello di area. Oltre un terzo della superficie italiana è ricoperto da foreste; in cinquant’anni sono più che raddoppiate, e continuano a crescere di circa 70mila ettari all’anno. Ovviamente quelle che crescono sono foreste giovani, che si insediano da sole su campi incolti, o pascoli abbandonati, perché le persone lavorano sempre meno la campagna e la montagna. Sono foreste, in ogni caso, con un buon potenziale. Ad esempio rendono gli habitat naturali un po’ più interconnessi fra loro, tanto è vero che avere una copertura forestale più continua per alcune specie è benefico (non per tutte: per alcune, tipo il lupo).
Certo, viviamo in un paese dove non esistono delle vere e proprie foreste naturali: l’essere umano ha interagito con la foresta per migliaia di anni, quindi si tratta di ecosistemi naturali con la forte impronta che gli abbiamo dato nel corso delle generazioni. Le nostre foreste sono state antropizzate, almeno un po’. Ciò non è necessariamente negativo, dipende da cosa noi vogliamo che le foreste facciano. Non abbiamo foreste vergini, primarie, come quelle che ospitano la miglior biodiversità del pianeta e che si trovano non solo nei Tropici ma anche nell’Ovest americano, che è nella fascia temperata.
Ci sono foreste del genere anche in Europa?
Piccole sacche, ad esempio quella di Białowieża, in Polonia. Quelle europee non sono tanto foreste vergini, ma piuttosto primarie, o comunque molto antiche. Ci sono foreste molto belle nella penisola balcanica, ad esempio in Croazia e in Bosnia. Sono foreste piccole, ma molto importanti, perché fungono da modello di riferimento per capire come funziona da sola la natura, come si rinnovano certe specie, di quanta luce hanno bisogno, di quanta ombra, di che tipo di suolo, se gli serve un tronco morto su cui appoggiarsi per crescere meglio… Studiandole possiamo poi provare a imitare il modello nelle foreste più antropizzate che abbiamo noi.
In Italia la superficie boschiva cresce.
Questo è positivo, per le possibilità che apre, soprattutto in termini di mitigazione dei cambiamenti climatici. Si tratta di foreste giovani, quindi assorbono carbonio abbastanza velocemente, o almeno più velocemente di quelle mature o invecchiate. Certo, ci sono alcuni “ma”, due in particolare. Il primo è che abbiamo tante aree protette o destinate alla biodiversità, dove le specie amano di più gli ambienti aperti: è il caso di molte orchidee, di molti fiori, di molti insetti che hanno bisogno di fiori (incluse le api e gli altri impollinatori); insomma, delle tante specie che non stanno bene in una foresta sotto cui non cresce niente a causa della troppa ombra.
Anche i cervi, del resto, amano di più un’alternanza tra foreste dove nascondersi e prati dove andare la sera a mangiare l’erba tenera. Dunque è un bene che cresca la foresta, in una determinata area? Dipende da caso a caso, bisogna capire qual è l’habitat da conservare, quali specie… non sempre fare nulla e lasciare la foresta espandersi è l’opzione migliore.
E il secondo “ma”?
Il secondo “ma” riguarda la diffusione degli incendi. Dove c’è più vegetazione si possono verificare più incendi, specie nei periodi secchi, quando il fuoco si propaga con maggior facilità. E in effetti nei grandi incendi che abbiamo visto nel 2017 anche in Italia, per esempio, le foreste secondarie di recente formazione hanno giocato un ruolo nel facilitare il passaggio delle fiamme. Naturalmente è una cosa con cui si può convivere, magari con un’efficace pianificazione antincendio e una buona prevenzione, non è che si debba disboscare ovviamente, basta mettere in atto degli accorgimenti per prevenire il passaggio del fuoco.
A proposito di incendi. In un paper del 2017 che hai co-firmato, tu e i tuoi colleghi avete dimostrato come ci sia un nesso forte fra cambiamento climatico, incendi, e altre catastrofi che, in teoria, ci colpiranno con sempre più forza.
Esattamente. Abbiamo preso in considerazione oltre 600 studi scientifici pubblicati negli ultimi 20 anni, cercando di capire quanti di questi eventi estremi fossero dovuti soltanto ai cambiamenti climatici. E uno dei risultati più sorprendenti è stato scoprire che l’effetto di questi cambiamenti sui danni da vento a livello mondiale è ancora più alto dell’effetto sugli incendi. Per gli incendi si parla di un aumento dell’intensità di circa una volta e mezza o due, per i danni da vento è tre volte tanto.
È giusto dire che le foreste possono essere una straordinaria risorsa a disposizione dell’umanità per contrastare il cambiamento climatico? Intendo dire a livello di immagazzinamento di CO2, ma anche di albedo, di ciclo dell’acqua….
Di fatto è l’unica che abbiamo, in questo momento. Ma dobbiamo intervenire su più livelli, perché le foreste non bastano, da sole. In questo momento esse assorbono un terzo delle nostre emissioni antropiche di CO2, un altro 25%-30% è assorbito dagli oceani, e il resto rimane nell’atmosfera, provocando appunto i cambiamenti climatici. Se non ci fossero le foreste, dunque, avremmo circa un terzo in più di CO2 nell’atmosfera. Noi dobbiamo agire sull’ultimo terzo, e quindi tutte le politiche di riduzione, di riuso, di risparmio, di conversione energetica sono fondamentali.
Se non ricordo male le sole foreste dell’Unione Europea assorbono quasi il 10% delle emissioni di gas serra… In questo periodo tu di cosa ti occupi, nello specifico?
Cerco di capire, per esempio, qual è il giusto punto di equilibrio tra lasciare che la foresta assorba carbonio (e quindi gestirla in modo meno invasivo lasciando che gli alberi accumulino nei loro tessuti vivi appunto carbonio), e intervenire per ringiovanirla, dandole nuova vitalità, accelerando pertanto l’assorbimento di carbonio, e allo stesso tempo ricavando legno dove lasciare il carbonio stoccato per lungo tempo. Del resto la rilevanza ambientale dell’uso dei prodotti legnosi è sempre più riconosciuta, anche a livello internazionale: possiamo sostituire molti materiali associati ad alti tassi di rilascio di carbonio, appunto, con il legno. Penso alle plastiche e al cotone, sostituibili con prodotti fatti di legno, di cellulosa: il cotone, come sai, è una delle colture che consumano più acqua. Penso pure al cemento, soprattutto nel settore edilizio.
L’uso del legno nell’edilizia, proprio a livello strutturale, a livello di travi e pilastri, al posto del cemento, sta prendendo piede in alcune nazioni europee come la Finlandia e i paesi baltici, la Germania. Nel mondo il leader è il Canada, paese ricco di foreste. Molti grandi architetti si stanno convertendo al legno, perché si tratta di un materiale eccezionale, paradossalmente può essere più resistente al fuoco dell’acciaio, perché subisce la fiamma ma non crolla, non collassa, a differenza dell’acciaio: si consuma la parte esterna, tant’è vero che quando vedi una foresta bruciata, noti che generalmente i tronchi ci sono ancora; sono anneriti, sono morti, ma stanno ancora in piedi. E così può accadere con i pilastri di una casa fatta in legno.
La foresta come triplice asset: economico, tecnologico e, ovviamente, contro il cambiamento climatico.
Aggiungerei anche un quarto livello: la prevenzione del rischio idrogeologico. Perché le foreste ci aiutano anche a diminuire il pericolo idrogeologico rappresentato dalle alluvioni, dalle frane e dalle cadute di valanghe, in montagna. Non è solo questione di sicurezza, che ovviamente è prioritaria e fondamentale, ma anche di buona amministrazione. Come nel caso degli incendi, costa molto di più riparare un danno provocato da una frana o da un’alluvione, che prevenire la minaccia. Con un piccolo investimento su una foresta, ad esempio per darle le caratteristiche ideali per fermare dei massi che cadono, o rallentare il corso di una piena, possiamo risparmiare milioni di euro in danni evitati. O addirittura possiamo utilizzare le foreste al posto di strutture artificiali, efficaci ma molto più costose: mi riferisco ad esempio alle reti para-massi che cingono le nostre strade. Lo hanno capito bene nella Confederazione svizzera, che finanzia con fondi federali la gestione delle foreste di protezione; come sai la Svizzera è un paese montano, le ferrovie sono espostissime a pericoli quali frane, colate di fango e via discorrendo, con danni umani, sociali, infrastrutturali ed economici importanti.
E tutto questo può generare anche nuova occupazione per i giovani.
Sì, certo, è possibile espandere gli scopi e le missioni della selvicoltura, e generare più posti di lavoro per i giovani.
A proposito di lavoro, tu lavori tanto con l’UE.
Ho iniziato con un bando del Centro comune di ricerca (JRC) della Commissione Europea a Ispra (VA), che aveva bisogno di un ricercatore specializzato nella modellazione matematica di foreste. Vinto il concorso, per un anno e mezzo ho lavorato con loro su un progetto focalizzato sulla produzione di biomassa, la UE voleva sapere quanta biomassa sia possibile estrarre dalle foreste nei prossimi trenta, cinquant’anni, senza comprometterle. Ho sviluppato un modello su scala europea in collaborazione con il servizio forestale canadese, che lo aveva appunto per il Canada: mi sono recato un paio di volte nel paese, per allacciare i rapporti, conoscere il software, adattarlo al contesto europeo. Un lavoro che non è ancora concluso: io ora insegno all’Università degli Studi di Milano dove ho vinto un concorso per una posizione permanente, adesso i colleghi del Centro comune di ricerca stanno continuando questo progetto su questo modello.
Una cifra del tuo lavoro, mi sembra, è l’interdisciplinarietà. Tu ti occupi di foreste, però nel tuo lavoro c’è sempre un massiccio uso della matematica, dell’informatica, della statistica.
È così, non solo per me. La ricerca è sempre più interdisciplinare. Pensa che quando lavoravo a Ispra trascorrevo il 90% del mio tempo a programmare, a scrivere codice. Python, che ho imparato un po’ da autodidatta. Chiariamo: non so programmare bene, è come una lingua che sai leggere ma che parli in modo stentato.
Oggi tu sei noto in tutta Italia grazie a un articolo di Nature, che ti ha definito come uno degli “11 early- to mid-career scientists […] emerging as leaders in their fields”. Immagino che la cosa ti abbia cambiato un po’ la vita.
È successo tutto all’improvviso. Sono felice dell’attenzione che mi è stata data, e della possibilità di poter parlare di queste cose, anche con i media, gli opinion-leader, insomma con chi è esterno alla comunità scientifica. È importante confrontarsi con la società, anche perché mi sembra che ci sia un interesse crescente verso questi temi, verso gli alberi, le foreste.
Una curiosità: nelle foreste ci vai spesso, o la ricerca ti inchioda allo schermo di un pc?
Vado spesso, per fortuna. Uno degli aspetti che più mi sono piaciuti di questo lavoro è la possibilità di viaggiare molto, e di visitare molte foreste, che mi piacciono. Ora è inverno, e quindi in questi mesi vado poco, ma con la buona stagione conto di tornare, se non altro per assistere i ragazzi che fanno la tesi di laurea con me. È importante portare avanti una parte dei rilievi sul campo.
Qual è la tua foresta italiana preferita?
Sarò banale, ma tutti gli anni cerco di tornare, almeno una volta, nella foresta di Paneveggio, che si trova in provincia di Trento. È nota, nel paese e nel mondo, come la foresta dei violini. Lì ho seguito diverse ricerche, l’ho visitata in tutte le stagioni: in estate, in autunno per sentire il bramito dei cervi, in inverno per fare le ciaspolate sull’Altopiano delle Pale… Ogni volta che mi addentro in essa provo una sensazione di pace, è un’oasi dove mi rifugio. Ci sono stato anche qualche settimana fa, siamo andati con ai funzionari della Provincia autonoma di Trento, e il servizio foreste, a constatare i danni che il vento aveva provocato. Danni abbastanza impressionanti. Non parlo tanto di Paneveggio, quanto del resto della Val di Fiemme, oppure del Passo di Carezza. La prima impressione è stata molto forte, perché lì il vento ha proprio spezzato gli alberi, li ha fatti saltare a qualche metro dalla base… in realtà, entrandoci dentro e cercando di camminare tra i mille tronchi rovesciati ovunque, abbiamo visto che c’era una significativa rinnovazione in corso: c’erano moltissimi abeti piccoli, che hanno resistito al vento perché si sono piegati, e che sono pronti a partire. E questo è bellissimo.
La foto in copertina è tratta da Pixabay, al pari di tutte le altre dove non è indicata la fonte.
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