Ambiente
Tempo di cambiare aria
Non esistono soluzioni semplici ai problemi complessi.
In queste settimane -merito forse della conferenza sul clima di Parigi e di un’attenzione mediatica finalmente focalizzata su un’emergenza vera – si parla molto d’interventi mirati alla riduzione dell’inquinamento urbano, che in alcune città italiane ha raggiunto livelli che vanno ben oltre il limite del preoccupante. Blocco totale del traffico in alcuni grandi centri urbani. Polemiche. Scontro fra i “pro” e i “contro”. Premesso che l’inquinamento da mezzi di trasporto non è il solo responsabile dell’attuale situazione, ma anche che a questo punto qualsiasi iniziativa volta a salvarci letteralmente la pelle è da supportare, forse – per chi ha l’ambizione di portare avanti un cambiamento strutturale e non semplicemente mettere “una pezza” al problema – occorrerebbe un momento di riflessione complessiva sulla sostenibilità del nostro attuale stile di vita.
Perché il problema dell’inquinamento potrebbe sembrare “semplice” (uso volutamente il virgolettato e sarò volutamente provocatoria), ma non sarà mai risolto. A meno che non si cambi senso di marcia.
Il sistema richiede un sacrificio per il suo mantenimento e, in sostanza, anche salute e ambiente sono sacrificabili. In Italia dal Boom economico in poi.
Partire da un esempio può essere utile.
Prendiamo una “vita” qualsiasi, anzi, una vita non particolarmente carica di impegni che vadano al di là di quelli strettamente personali. Prendiamo una cittadina medio grande, con servizi di trasporto pubblico decenti, ma non ai livelli di una città metropolitana. Un giovane lavoratore, in salute, impiegato, residente all’interno del perimetro urbano. Partiamo. Questa persona, che per comodità da ora chiamerò Luca, non è particolarmente ricca d’interessi: ama il tennis e vedere gli amici per una cena in compagnia. In effetti non ha richieste eccessive per quanto riguarda il suo tempo libero. Si alza la mattina e si prepara per le sue otto ore di lavoro in ufficio. Abita relativamente vicino al lavoro, ma non troppo. Chiaramente non ha scelto dove vivere in base al luogo di lavoro, anche perché cambiandone parecchi si tratterebbe di un investimento poco sensato. Per spostarsi con mezzi di trasporto pubblico fra casa e ufficio impiega circa 45 minuti. In auto 20. Capita nei centri medio grandi. Quindi esce in auto per “guadagnare” quei venticinque minuti di sonno o per leggere il giornale in bagno. Arriva al lavoro e ed esce otto ore dopo. Ha in programma un allenamento di un’ora e poi una cena a casa di amici. Il campo da tennis non è molto distante dalla casa del suo amico, ma passate le otto comunque i mezzi pubblici riducono le corse: tanto vale proseguire in auto. Dopo l’allenamento Luca si ferma al supermercato per prendere qualcosa da portare a cena e compra, senza nessun intento e senza accorgersene, uno dei tantissimi prodotti d’importazione sugli scaffali. Cena dall’amico e torna a casa presto: il giorno dopo ha una trasferta di lavoro. Luca non si occupa di beni materiali: non deve controllare la qualità di una materia prima e non deve visitare strutture o impianti, non deve andare a sondare un nuovo territorio, non deve verificare le condizioni di lavoro di una sede distaccata. Luca deve incontrare un collega che lavora come lui su nuovi progetti dell’azienda: un’ora di riunione per mettere a punto alcuni dettagli di una campagna. Prenderà un treno per arrivare quasi a destinazione e poi un taxi perché gli uffici sono appena fuori città.
Potrei proseguire nel descrivere una routine che riguarda buona parte della popolazione, ma sarebbe ridondante. Luca almeno ha la “fortuna” di non avere figli a carico da gestire e, questa volta sì una fortuna, genitori ancora relativamente giovani e in salute che può andare a trovare quando vuole, senza vincoli di cura. Ma si tratta di una fase della vita.
Durante la sua giornata tipo Luca ha però inquinato parecchio:
- utilizzando l’auto per gli spostamenti
- acquistando prodotti d’importazione che, in molti casi, hanno viaggiato per via aerea o su gomma
- spostandosi per questioni di lavoro non sempre con mezzi “sostenibili”
La “colpa” è di Luca?
Si e no. Si perché quotidianamente operiamo delle scelte delle cui conseguenze non abbiamo piena consapevolezza e invece dovremmo averla. No perché Luca vive in un contesto che, sostanzialmente, lo spinge ad assumere questi comportamenti.
In Italia (in realtà in buona parte d’Europa, se si escludono le punte più innovative di alcuni paesi del nord) non è diffuso il concetto di flessibilità oraria nel mondo del lavoro. Anche in settori rispetto ai quali il vincolo potrebbe essere meno stringente (pensiamo a tutte le professioni che non richiedono contatto col pubblico), si preferisce mantenere il modello standard di fine Novecento.
Si preferisce inoltre, pur in presenza di mezzi tecnici per ovviare la cosa, continuare a “spostare” le persone e non le idee. Chiaramente la qualità di una stoffa può essere valutata solo toccandola, osservandola dal vivo, visitando il laboratorio dove viene prodotta, ma una “normale” riunione di lavoro potrebbe essere tranquillamente gestita in videoconferenza, con un costo minore per l’azienda e per l’ambiente. Stesso discorso per quelle professionalità perfettamente adattabili al lavoro in remoto, ma non mi spingo a tanto. Data la modalità lavorativa e i non sempre adeguati mezzi di trasporto eco sostenibili disponibili, l’eventuale “sacrificio” di tempo personale (di questo si tratta) è totalmente a carico del singolo.
Negli anni ci hanno poi convinti che tutto dev’essere disponibile sempre e sempre al meglio. Non solo in ambito lavorativo, ma anche sui nostri scaffali del supermercato. Non è però “normale” mangiare bistecche di carne allevata in Argentina, così come non è normale mangiare arance spagnole. Non parlo volutamente di prodotti la cui produzione non è possibile in loco: d’altra parte – salvo forse rare eccezioni – nessuno mangia datteri tutto l’anno. Ci siamo però abituati ad un consumo globale, che ogni giorno mette “per strada” tonnellate di prodotti che, in Italia, si muovono quasi esclusivamente su gomma. Lo stesso vale per i beni secondari, la cui produzione è stata nel tempo sempre più esternalizzata in paesi dove la manodopera costa meno. Non sempre poi i prodotti finiti costano meno, di sicuro costano di più in termini ambientali.
Ci sono frigoriferi che hanno viaggiato più di un italiano medio.
Luca li compra, dovrebbe fare la spesa con maggior coscienza, ma a sua parziale discolpa, forse non ha molto tempo da dedicare alla questione. Questo perché, a prescindere dal tipo di lavoro che si svolge, in seguito alla nefasta ondata culturale degli anni Ottanta/Novanta, ci siamo convinti che il “tempo è denaro” e non che il vero denaro è il tempo. Quindi occorre ottimizzare tutto, cercare di svolgere quante più attività possibili, avere sempre tutto a disposizione: al meglio. Peccato però che, strada facendo, abbiamo perso di vista il significato di “meglio”.
Presto o tardi però i conti vanno pagati e se, per quanto riguarda i singoli, l’aumento delle malattie cardiovascolari e delle patologie da stress è indice che “qualcosa non funziona”, ora l’ambiente sta, giustamente, rincarando la dose.
Il cambiamento è urgente e necessario, ma non è sufficiente che un’amministrazione, una tantum, obblighi Luca a lasciare l’auto in garage. Occorre ripensare gli stili di vita, tenendo bene a mente che è stato il modello “rampante” della costante espansione economica e della continua tensione alla crescita, non tanto l’auto di Luca, a portarci a questo. Se non si modifica il modello il problema sarà solo differito.
Chi ha tempo non aspetti tempo.
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