Ambiente
Storie e speranza dall’Italia che lotta per il mare
C’è un modo relativamente facile ed economico per salvare il mare. Si chiama AMP, acronimo di Area Marina Protetta. È relativamente facile perché, per quanto sia complesso convincere una comunità – con i suoi pescatori, i suoi politici, i suoi abitanti – a proteggere un’area marina, è senz’altro un percorso meno complesso, lungo e penoso, di ripristinare un ecosistema ex post, quando ormai è stato drammaticamente impoverito. Ed è relativamente economico non perché sia privo di costi. I costi ci sono eccome. Ma non sono niente rispetto a quelli causati dalla morte di un ecosistema marino o da altri disastri ambientali.
Ne sanno qualcosa a Porto Cesareo, nel Salento, dove nel 1997 è stata istituita una delle AMP italiane di maggior successo. Basti pensare che proprio qui, a gennaio, è stata avvistata una foca monaca: è la prima volta che accade dagli anni ‘70 del secolo scorso. «L’area è anche diventata un sito di nidificazione delle tartarughe caretta caretta, che stanno tornando – dice a Gli Stati Generali Paolo D’Ambrosio, biologo marino e direttore dell’AMP dal 2005. – Significa che qualcosa sta cambiando, e sembra davvero che l’area marina protetta sia uno strumento per far convivere gli esseri umani e la natura».
A differenza di altre AMP, quella di Porto Cesareo è stata istituita in un luogo fortemente antropizzato. «Abbiamo dovuto cercare un punto di equilibrio, di sostenibilità ambientale, tra il rispetto della natura e l’esistenza delle attività socio-economiche» continua D’Ambrosio. A cominciare dalla pesca. «Abbiamo insegnato ai pescatori a lavorare con tecniche e strumenti di pesca selettiva, e grazie a dei finanziamenti ottenuti dall’AMP molti di loro sono diventati operatori turistici. Quindi è nato un turismo enogastronomico, esperienziale e culturale che prima non esisteva» sottolinea D’Ambrosio.
Oggi l’AMP di Porto Cesareo (negli anni ‘70 noto come la capitale dell’abusivismo edilizio) è un esempio lampante di come proteggere la natura e la biodiversità possa dare ottimi frutti, anche economici. Ma istituire l’area non fu una passeggiata. «Quando la proposi i pescatori mi volevano linciare – racconta a Gli Stati Generali Ferdinando Boero, ordinario di Zoologia all’Università di Napoli che per una trentina d’anni è vissuto proprio in Salento, in questa estrema penisola della nostra penisola –. Ma con il tempo si sono accorti che rispettando le regole ottengono moltissime agevolazioni, e ora ne sono entusiasti. Anche perché il direttore dell’AMP è molto competente e sa trovare bandi per ottenere finanziamenti».
Una conferma della bontà del progetto viene pure da Pasquale De Monte, ex sindaco di Porto Cesareo entrato in carica poco dopo l’istituzione dell’AMP, nel 1997. «Appena si sparse la voce che l’area marina protetta era diventata una realtà ci fu una sollevazione popolare. Mi danneggiarono l’auto, mi mandarono intimidazioni e minacce, mi ruppero i vetri di casa. Però col tempo è diventato evidente che Porto Cesareo ha avuto un enorme ritorno di immagine, ha cambiato completamente volto». Eppure, fa notare l’ex sindaco, c’è ancora molto da fare. «Non abbiamo fondi a sufficienza per implementare il controllo di cui ci sarebbe bisogno» dice. D’Ambrosio è della stessa idea: «purtroppo in Italia il sistema di controllo nelle AMP, compresa quella di Porto Cesareo, è ancora una criticità». Questo significa che c’è ancora chi infrange le regole, ad esempio lasciando i propri rifiuti in giro, o gettando l’ancora dove non dovrebbe. O facendo pesca di frodo.
Nonostante gli sforzi degli organi di controllo, a cominciare dalla Guardia Costiera, la pesca illegale è ancora un enorme problema in Italia, come del resto in tutto il Mediterraneo e nel resto del mondo. E a pagarne le spese sono l’ambiente, gli ecosistemi, gli stock ittici, e anche i pescatori artigianali. Come Fabrizio D’Alberto, abruzzese di 69 anni e fondatore della cooperativa di pesca artigianale Terre da Mare del Cerrano, che da anni esce a pescare con la sua barca di cinque metri e mezzo.
«Noi usiamo gli strumenti consentiti per la pesca artigianale – spiega –. Reti da posta, nasse, cuculli, cestini per le lumachine, tramaglio per le seppie. Purtroppo c’è chi non rispetta le regole e pesca sottocosta con le vongolare, le cosiddette imbarcazioni turbosoffianti. E quella è una tecnica di pesca che non prende solo i molluschi e ogni tipo di pesce che trova, ma tra l’altro distrugge tutte le uova depositate».
Se in Adriatico, dove i fondali sono poco profondi, il grande problema è soprattutto quello delle vongolare, nel resto dei mari italiani la pesca illegale è spesso rappresentata dallo strascico sottocosta. Ossia lo strascico che viene praticato su fondali bassi, profondi meno di cinquanta metri, dove è proibito proprio per i danni che causa. «Ambienti complessi dal punto di vista della biodiversità, ad esempio quelli coralligeni, o sensibili, come le praterie di posidonia oceanica, hanno capacità molto ridotte di rigenerarsi da un danno come quello provocato dallo strascico, o hanno tempi di ripristino molto lunghi – spiega Monica Panfili, biologa marina e tecnologa presso il CNR-IRBIM Istituto per le Risorse Biologiche e Biotecnologie Marine di Ancona –. Un altro fattore che gioca un ruolo importante nella resilienza di un ecosistema è la frequenza con cui deve sopportare forti disturbi».
Salvatore Fiorillo, presidente della cooperativa di piccoli pescatori Acquamarina di Salerno, ha più volte denunciato che «quattro o cinque personaggi fanno strascico sottocosta [nel Golfo di Salerno] da quarant’anni. Questa gente non si rende conto che così sta distruggendo il mare. Per questo penso che nel giro di una decina d’anni la piccola pesca qui scomparirà. E ci soffro – dice a Gli Stati Generali –. Io sono del ‘58, la mia generazione è stata molto prolifica di pescatori. Ma la maggior parte dei nostri figli non vuole fare questo mestiere: è molto duro, il pescato è poco, abbiamo difficoltà a vendere». Per questo la cooperativa fondata da Fiorillo ha diversificato le attività, affiancando alla consueta pesca una pescheria-ristorante e avviando iniziative di pescaturismo. «Però mi creda, non è facile mettersi a fare il pescaturismo o a gestire un ristorante per persone che hanno fatto il pescatore per cinquant’anni».
In Toscana il simbolo della lotta contro lo strascico illegale sottocosta è Paolo Fanciulli, pescatore artigianale e ideatore del museo sottomarino La Casa dei Pesci. Un museo che alla vocazione artistica ne affianca una estremamente concreta: impedire che i pescherecci violino la legge strascicando vicino alla costa del Golfo di Talamone. Ogni dissuasore anti-strascico posato sul fondale è un’opera d’arte, donata a La Casa dei Pesci da scultori e artisti da varie parti d’Italia e persino da altri paesi, e il museo è diventato un’attrazione per molti sub e turisti amanti del mare. «Io sono una goccia nell’oceano però credo in quello che faccio – dice Fanciulli a Gli Stati Generali –. La Casa dei Pesci è nata per un mio sogno, con l’associazione abbiamo messo in mare trentanove opere d’arte. Ora siamo alla ricerca di fondi per aggiungere quelli nuovi, già pronti. Stiamo preparando la nuova campagna, il Covid non ci ha permesso di fare nemmeno un simposio, ma ci stiamo organizzando per l’anno prossimo». Oltre alle trentanove opere d’arte, negli anni Fanciulli è riuscito a calare oltre 800 blocchi di cemento, sempre in funzione antistrascico.
Anche la onlus Salviamo le Secche di Vada di Rosignano Solvay aveva elaborato un progetto “chiavi in mano” per difendere le secche dalla pesca a strascico illegale con dei dissuasori, racconta a Gli Stati Generali Marco Gennai, il suo vicepresidente. «Il Comune però ha scelto la via dei siti Natura 2000 dell’Unione Europea. Ma quello è un iter lunghissimo e noi vorremmo che si optasse per una via più rapida e concreta per proteggere la flora e la fauna delle secche». Le Secche di Vada si trovano a circa quattro miglia dalla costa, al largo della provincia di Livorno. Sono un misto di fondali sabbiosi molto bassi e scogli affioranti, noto per le vaste praterie di posidonia oceanica di cui erano ricoperte: praterie che si stanno rimpicciolendo sempre di più.
«In certe zone la posidonia è stata completamente estirpata – nota Gennai – e le praterie di posidonia sono importantissime, perché sono l’habitat in cui i pesci depongono le uova e trascorrono le prime fasi di vita. Per non parlare del fatto che, essendo una pianta, la posidonia assorbe anidride carbonica». Pescare a strascico sulle praterie di posidonia è vietato dalla legge. Ma, segnala Gennai, ci sono pescherecci che vanno regolarmente a pescare con reti a strascico sulle praterie di posidonia delle Secche di Vada.
«Il nostro timore è che si voglia avviare un iter per farne un’area marina protetta, e che alla fine non ci si possa neanche più avvicinare». Le AMP sono divise in sottozone a seconda delle attività permesse al loro interno. Ma di solito queste sottozone sono segnate solo sulle mappe, non sono delimitate da boe segnaletiche, e senza attrezzature professionali è difficile capire se si sta sconfinando in una sottozona dove non è permessa alcuna attività. E, per evitare sanzioni, la maggior parte delle persone si tiene semplicemente alla larga. «Sarebbe un enorme peccato perché non ci sarebbe più la possibilità di vivere il mare – dice Gennai – mentre potrebbe diventare persino più facile per chi infrange la legge operare senza essere visto da nessuno, anche perché spesso non ci sono abbastanza controlli».
Che nel sistema delle aree marine protette ci sia spazio per miglioramenti lo conferma anche D’Ambrosio dal Salento. «La pesca illegale non è un fenomeno debellato purtroppo, nemmeno nelle aree protette. Ma così come si è deciso di puntare sulle aree marine protette e i siti di interesse comunitario, ora si devono potenziare gli organi deputati al controllo dei vari territori, a cominciare dalle Capitanerie di porto».
Tuttavia casi come l’AMP di Porto Cesareo dimostrano che, coinvolgendo e dialogando con gli attori pubblici e privati della zona, le aree marine protette possono essere strumenti efficaci e apprezzati. «Le AMP rappresentano senza dubbio strumenti fondamentali, e riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, per la salvaguardia e la protezione di ambienti particolarmente sensibili e vulnerabili – osserva Panfili. – Per questo è essenziale fare di più: uno studio pubblicato pochi mesi fa su Nature, una delle più prestigiose riviste scientifiche al mondo, ricorda che le AMP rappresentano lo strumento più efficace per il restauro della biodiversità e del capitale naturale marino. Tuttavia ad oggi solo il 2,7% dei mari e degli oceani è protetto».
Certo, sono processi che richiedono tempo; ma puntare sulla protezione di un crescente numero di aree di mare è la strategia vincente. Anche perché, persino con sistemi di controllo da rafforzare, «le attività di protezione che sono state messe in campo finora stanno dando dei risultati – osserva Laura Castellano, responsabile del settore Mediterraneo, acque fredde, rettili e anfibi dell’Acquario di Genova –. La foca monaca sta finalmente tornando, timidamente ma sta tornando; ci sono sempre più avvistamenti della mobula mobular, la manta mediterranea; anche la pinna nobilis era tornata numerosa grazie alle misure di protezione, poi purtroppo è stata quasi sterminata da un batterio». Castellano sottolinea l’importanza di preservare gli ecosistemi mediterranei, anche dalla sovrapesca. «Se continuiamo a pescare le stesse specie queste non riescono più a riprodursi a sufficienza per rinnovare gli stock. Stiamo depauperando il mare di sempre più pesce, e così proliferano le meduse, riescono a stabilirsi le specie aliene, c’è una gigantesca alterazione dell’intera catena alimentare».
Concorda Ferdinando Boero, secondo il quale il grado in cui le specie ittiche riescono ad alimentarci è un indice di salute del mare. «Dobbiamo praticare una pesca sostenibile, e lo stesso vale per l’acquacoltura – afferma l’accademico. – Certo che la sostenibilità ha dei costi. Però io domando, quali sono i costi della non-sostenibilità? Quali sono le spese che devono affrontare gli Stati per i disastri che derivano da una gestione dissennata dell’ambiente? Che prezzo possiamo dare all’aria che respiriamo? Il problema è culturale. Se manca la consapevolezza dell’importanza cruciale di questi problemi non andiamo da nessuna parte».
Immagine in copertina: Paolo Fanciulli, per gentile concessione di Carlo Bonazza
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