Ambiente

Soyalism: tutto il male della Soia

26 Ottobre 2019

Si è da poco conclusa a Bologna Terra di Tutti Film Festival, la rassegna di Cinema Sociale, giunta alla 13 edizione e co-organizzata dal Cospe e da We World – GVC. Una delle pellicole selezionate e premiate è stata Soyalism, il docufilm di Stefano Liberti ed Enrico Parenti dedicato alla filiera della soia.

Questa impeccabile e lucida analisi della filiera della soia, mette in luce quali conseguenti devastanti sull’ambiente del pianeta, possa avere la filiera agroalimentare. Dagli insegnamenti di Miguel Altieri sappiamo che a tutt’oggi è l’agricoltura a piccola scala a sfamare il pianeta, a produrre l’80% del cibo utilizzando il 20 % delle risorse impiegate dall’agricoltura. Si tratta di un’agricoltura sobria e saggia, che preserva la biodiversità, segue il corso delle stagioni e le vocazioni dei territori. E’ la stessa agricoltura predicata da visionari quali Carlo Petrini o Vandana Shiva, per citarne solo alcuni.

La soia invece è alla base dell’agricoltura che riempie gli scaffali di tutti i supermercati, incluse quelle catene della GDO che si dipingono una facciata di sostenibilità ambientale ora che il Green Deal è diventato mainstream.

Il documentario parte dagli Stati Uniti, dal North Carolina, dove da alcuni anni si assiste ad una crescita esponenziale dell settore suinicolo, i cui prodotti sono destinati in gran parte al mercato cinese ed I cui effetti sull’ambiente arrivano a compromettere gli ecosistemi acquatici dell’intera regione. Questi allevamenti intensivi, al pari di quelli cinesi ed europei, sono la parte terminale della filiera; all’altro capo c’è la soia che costituisce la fonte proteica principale per gli allevamenti intensivi del pianeta, ma anche per la produzione di gran parte degli alimenti destinati a vegetariani e vegani.

 

 

Pensare a questa graziosa pianta della famiglia delle leguminose, originaria della Cina, possa costituire una delle principali minacce ambientali del pianeta risulta alquanto difficile. Eppure la soia, giunta negli Stati Uniti all’inizio del XIX secolo come carico da zavorra di un veliero e coltivata diffusamente solo dopo la seconda guerra mondiale, è diventata una delle più importanti commodity a livello mondiale, che attiira ormai l’interesse e l’ingordigia di molti imprenditori. Sono 5 le garndi società che detengono la quasi totalità del commercio mondiale, non solo di soia, ma di derrate agricole: Bunge, Cargill, Dreyfus, ADM e Monsanto.

Gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina detengono oltre l’80% della produzione mondiale. Una produzione che è in continua crescita e che nell’America del sud, principalmente in Brasile e Bolivia, determina la deforestazione di vaste aree della foresta Amazzonica, del cerrado, del chaco o la messa a coltura di praterie in Argentina. Questo modello di produzione del cibo  totalmente insostenibile, non pago delle terre strappate alla foresta o alla pampa in America latina, si affaccia da alcuni anni anche in Africa. In Mozambico ad esempio, con il progetto Pro-savana si volevano indurre gli agricoltori a passare dall’agricoltura tradizionale a piccola scala alla produzione di soia.

Attraverso una serie di interviste, realizzate in quattro continenti, gli autori riescono a dimostrare l’ineluttabilità di questo sistema che sta contribuendo ad alterare profondamente parte del nostro pianeta. Anche molti dei produttori di carni che negli Stati Uniti scelgono sistemi di produzione sostenibili e di qualità prima o poi ricadono negli interessi di grandi imprese, che li acquisiscono e li riconducono al sistema di produzione dominante.

Per capire quanto innaturali e dannosi siano questi modi di fare agricoltura, di produrre derrate alimentari, sia sufficiente pensare che la monocoltura di soia si estende in alcuni casi ininterrottamente per centinaia di chilometri quadrati, superfici vastissime dove la biodiversità vegetale è ricondotta alla presenza di un unica specie, Glicine max, e dove vengono distribuiti 15 kg di fitofarmaci per ettaro.

Dovremmo saperlo, siamo in realtà un po’ tutti responsabili in qualità di cittadini consumatori quando di fronte allo scaffale compiamo un gesto quotidiano ma importantissimo, un’azione politica nel senso più nobile del termine. Viene ormai ripetuto come un mantra, ma forse non abbastanza se le cose continuano ad andare in questa direzione.

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